Triangolo rosso

Testimonianza di Ferruccio Belli, matricola 21648

Le storie della deportazione

Nell’orrore quotidiano del lager di Flossenbürg

 

di Ferruccio Belli

 

Il prossimo 24 novembre ricorrerà il primo anniversario della scomparsa di Ferruccio Belli, che è stato Presidente della sezione pavese dell’Aned fin dalla sua istituzione. “Triangolo Rosso” ha già ricordato la sua figura nel n.1 del gennaio 2002.  Ora desideriamo rinnovare il suo ricordo, pubblicando un suo scritto, finora inedito, sul campo di Flossenbürg. A Flossenbürg Belli arrivò la mattina del 7 settembre ‘44, con il convoglio di circa 500 deportati italiani, partito due giorni prima dal campo di Bolzano.  Era stato arrestato dalla G.N.R. l’8 gennaio ‘44, con altri quattro componenti del primo C.L.N. della città di Pavia, nel quale egli rappresentava il P.C.I.  Denunciato al “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, era stato trasferito dalle Carceri di Pavia a quelle di “San Vittore” a Milano nel luglio del ‘44 e di lì il 17 agosto condotto a Bolzano e quindi a Flossenbürg. Da Flossenbürg dopo il periodo di quarantena, fu destinato in ottobre al campo di Dachau e assegnato ai lavori forzati nel “kommando” di Kottern (Kempton), dove riuscì a resistere fino alla fine della guerra.

 

L’impatto con il lager. La depilazione e la disinfestazione. La doccia e la vestizione

 

Arrivati che fummo al campo venimmo disposti in fila per dieci in un grande piazzale. Lì ci venne ordinato di denudarci completamente togliendoci di dosso tutti gli oggetti personali, orologi, fedi, catenine, soldi, portamonete, stilografiche ecc.; mentre a ognuno di noi venne distribuito un sacco per metterci dentro soltanto i vestiti e le scarpe. Ricordo, vicino a me, Padre Gian Antonio Agosti, un frate cappuccino con una gran lunga barba bianca, esitava a togliersi le lunghe mutande che portava sotto il saio: intervenne allora l’ufficiale delle SS (quello stesso che ci aveva accolto a pedate all’arrivo) che, urlando a squarciagola “cap-puc-ci-no”, “cap-puc-ci-no”, gli strappò di dosso le mutande e lo buttò a terra a calci nel sedere. Faceva parecchio freddo. Eravamo già nel mese di settembre e Flossenbürg si trova a nord di Norimberga su di una collina. Fummo fatti sfilare nudi davanti a un tavolo e qui le SS ritirarono in alcuni contenitori tutto quello che possedevamo. Poi tra urla e imprecazioni delle SS e dei “Kapo” ci venne dato l’ordine, beninteso in lingua tedesca, quindi a noi incomprensibile, di rimetterci in fila per dieci, in posizione di attenti. Fu allora che alcuni “Kapo” muniti di macchinette, che di solito servono per tosare i cavalli, diedero inizio alla nostra depilazione, dalla testa ai piedi. Questa operazione veniva effettuata – tra le risa isteriche delle SS che assistevano alla scena – così maldestramente che le parti più delicate del corpo subivano dolorose lacerazioni con fuoriuscita di sangue. Subito dopo la depilazione altri “Kapo” muniti di bastoni avvolti nel cotone, a mo’ di pennelli, e con secchi contenenti liquidi biancastri iniziarono la disinfezione del nostro corpo. All’ordine, impartitoci, di alzare le braccia essi entrarono in azione e inzuppando di disinfettante il cotone ci pennellarono da sotto le ascelle ai piedi passando ripetutamente sugli organi genitali. Il bruciore prodotto nelle parti poco prima sottoposte alla depilazione era tale che in alcuni punti più delicati la pelle si staccava dal corpo. Successivamente venimmo “visitati” da alcuni addetti al campo che indossavano camici bianchi. Essi, dopo aver annotato cognome, nome e nazionalità di ciascuno di noi, diedero inizio ad un’ispezione minuziosa di tutte le parti del nostro corpo, non trascurando la bocca onde individuare ed inventariare protesi e corone d’oro ai denti. Un “Kapo”, al seguito di questi presunti medici, a un loro segnale ci dipinse sulla fronte uno dei numeri da uno a tre. Evidentemente si trattava di una prima scelta per l’invio ai campi di lavoro forzato. Dopo averci fatto percorrere nel campo un tratto di circa 500 metri a passo di corsa, sempre completamente nudi, ci fecero infilare un sottopassaggio, ove, in un vasto locale, depositammo il sacco con i vestiti e le scarpe. Venimmo poi introdotti nel locale delle docce. Eravamo in 500, circa, pigiati gli uni contro gli altri in uno spazio non sufficiente a contenerci. Aperte che furono le docce, data la calca sotto i getti, feci appena in tempo a sentire, ma solo con la testa e le spalle, che l’acqua era abbastanza calda. Dopo una decina di minuti le docce vennero chiuse e dalla porta di accesso si fece avanti un criminale nazista che impugnava una lunga lancia da pompiere. Alla sua comparsa i “Kapo” spalancarono tutte le finestre: allora egli si mise a scaricare su di noi dei potenti getti di acqua gelida, come se per lui si trattasse di spegnere un grosso incendio. La scena che ne seguì fu terrificante. I più esposti al getto d’acqua cercavano riparo in fondo al locale a forza di spintoni. Senonché la resistenza opposta da quelli che si trovavano in una posizione migliore, sia per il pavimento reso scivoloso, sia per la vigorosa spinta inferta dal getto d’acqua, faceva sì che i più deboli, i vecchi e i ragazzi, finissero a terra malamente calpestati. In noi era ormai subentrato il terrore; impossibile mantenere la calma in quell’infernale baraonda; chi schiacciato contro il muro, chi a terra dolorante, tra imprecazioni ed urla, tutti in preda a uno sgomento indescrivibile ci si domandava quando sarebbe finito quel tormento. Finalmente il getto d’acqua gelida venne a cessare e coloro che come me erano usciti quasi indenni dall’infame bravata si prodigarono a soccorrere quelli conciati malamente. Da più di un’ora nudi, bagnati e intirizziti, finalmente apprendemmo che in un locale attiguo avremmo trovato di che vestirci, con i famosi vestiti a strisce. Uno alla volta, di corsa, avremmo dovuto uscire da una porta laterale e in tutta fretta sceglierci un copricapo, una camicia, un paio di mutande e un paio di pantaloni e una giacca. La vestizione si svolse invece in tutt’altra maniera: entrò infatti in scena un losco figuro, armato di un lungo tubo di gomma; lo soprannominammo “el matador”. (Venimmo poi a sapere che si trattava di un criminale tedesco condannato per un grave delitto.) Questi si era appostato vicino alla porta e con il tubo di gomma assestava poderosi colpi sulle nostre teste pelate e sulle nostre spalle mentre noi raccoglievamo quello che riuscivamo a raccogliere da un mucchio di stracci accatastati in mezzo al locale. Sempre correndo, stringendoci sottobraccio quelle parvenze di vestiario, venimmo portati in un’altra baracca ove ci furono distribuiti gli zoccoli. Se la nostra situazione non fosse stata così tragica la vestizione di cui siamo stati attori e spettatori avrebbe destato un’inarrestabile ilarità, tanto ridicoli apparivamo; i piccoli di statura infagottati in giacche lunghe e larghe; quelli di costituzione più robusta con stracci che li facevano sembrare degli spaventapasseri, tanto erano striminziti e insufficienti. Da quel momento in poi nessuno era più Tizio o Caio, era solo un numero, che ci venne assegnato nei giorni successivi. Così ebbe inizio il nostro periodo di “quarantena” nel Block N. 22 del campo di sterminio di Flossenbürg.

 

La quarantena, il preludio di un’infinità di sevizie

 

Fummo sistemati in un ristretto settore del campo recintato da una doppia cintura di filo spinato – internamente percorso dalla corrente elettrica – in cui erano dislocate tre baracche, due contigue, la N. 22 e la N. 23, e un’altra più decentrata, situata quasi ai piedi della torretta di osservazione, dalla quale giorno e notte gli sgherri delle SS con riflettori e mitragliatrici spianate sorvegliavano dall’alto ogni nostra mossa. Il “Block”, cioè la baracca a noi riservata era la “N. 22”, in parte già occupata da deportati di varie altre nazionalità. Internamente alla baracca erano stipati i “castelli” di legno a tre piani, corredati da sacchi di fibra vegetale, imbottiti di strisce di carta, a mo’di materassi. Un “posto letto” di questi castelli, così come costruito, non superava le dimensioni di 180 x 70 centimetri; per cui tutti i castelli della baracca avrebbero potuto accogliere, complessivamente, non più di 200/250 deportati; in essi, invece, doveva essere “alloggiato” anche il nostro contingente forte di quasi 500 unità. Dopo alcune esperienze negative per accaparrarci un “posto letto” – erano dei veri assalti ai “castelli” – e per essere costretti a dividere il prezioso posto con deportati di altre nazionalità, ci organizzammo in gruppi di 3-4 di noi: alla sera, appena veniva dato l’ordine di entrare nella baracca, il gruppo di cui io facevo parte con Magenes, Fontanella e Goi si precipitava alla conquista dei posti prescelti con rapida manovra. Non sempre la nostra operazione andava a buon fine: a volte succedeva che qualcuno del gruppo rimaneva senza sistemazione per la notte, per cui si rendeva necessario stabilire dei turni di riposo entro il gruppo. Alla notte si dormiva – quando si dormiva – in 3-4 di noi su ogni posto letto; o tutti stipati sul fianco destro o tutti stipati sul fianco sinistro. Se qualcuno di noi per l’inevitabile indolenzimento di uno o dell’altro fianco doveva cambiare posizione altrettanto erano costretti a fare anche gli altri. E dire che supini o bocconi neanche due sole persone avrebbero potuto trovare posto nei 70 centimetri di larghezza del castello. Molti deportati, in particolare i più malandati e i più vecchi, non riuscivano quasi mai a conquistarsi il “posto letto”, per cui finivano per stare tutta la notte sdraiati sul freddo e nudo pavimento della baracca. Ancora storditi dal violento impatto con il “Lager”, come verosimilmente eravamo, ogni mattina all’alba al fischio del capoblocco e al suo imperioso grido di “heraus… heraus” venivamo letteralmente cacciati fuori dalla baracca. L’uscita, ovvero il precipitarsi contemporaneo di centinaia di persone terrorizzate verso l’aperto – mentre il “matador” con il tubo di gomma e i “Kapo” con gli zoccoli tempestavano di colpi le nostre teste pelate – preludeva ad altre inimmaginabili pene nella giornata. Non appena si usciva dalla baracca veniva impartito l’ordine di disporsi celermente in fila per dieci e ben allineati. Intanto i “Kapo” ci ronzavano intorno pronti a colpire chi non rimaneva completamente immobile sull’attenti. Dopo di che alla presenza delle SS aveva inizio l’”Appell” giornaliero e la “conta”, conditi dall’istruzione al saluto: “Mützen ab” e “Mützen auf”, sino alla nausea. La quale istruzione consisteva nel toglierci il berretto al comando “Mützen ab” (giù il berretto) stando costantemente e rigidamente nella posizione di attenti che si doveva mantenere talvolta anche per ore, con il capo pelato sotto la pioggia o la neve, sino a quando la “conta” era finita; allorquando venivamo gratificati del successivo comando: “Mützen auf” (su il berretto). In quelle circostanze non si doveva assolutamente guardare le SS negli occhi perché guardare negli occhi di un “superuomo”, quali appunto si consideravano le SS era ritenuto delitto di “lesa maestà”. Né si dovevano guardare in faccia i “Kapo” in quanto ciò era considerato un atto di ribellione. Il deportato doveva sempre guardare a terra! All’aperto, nel recinto a noi riservato, si doveva rimanere in piedi: era assolutamente proibito sedersi anche per terra. Allo scopo di combattere il freddo che con l’avanzare della stagione si faceva pungente allestivamo le “stufe umane”. Tali “stufe” erano composte da cerchi concentrici formati da deportati, 50 o più, addossati strettamente gli uni agli altri in modo che coloro che rimanevano all’interno, protetti com’erano dall’aria fredda, riuscivano a scaldarsi reciprocamente. Appena composta la “stufa” i deportati del cerchio esterno davano inizio ad un conteggio che di solito arrivava sino a mille; si scambiavano le posizioni: quelli che stavano all’interno passavano all’esterno e viceversa. I più piccoli, favoriti dalla loro bassa statura, erano sempre i più protetti e invidiati. Le “stufe umane” restavano in efficienza sino a quando i “Kapo”, aizzati dal capoblocco, un criminale tedesco (triangolo verde), tra urla e imprecazioni, seguite dal solito pestaggio, eseguivano un’ennesima “conta”. Gli stretti contatti che si creavano e sviluppavano tra noi deportati consentivano nuove interessanti conoscenze con coloro che provenivano da altre città, da altre carceri, dal famigerato campo di Fossoli e da altre nazioni. Personalmente ricordo il piccolo Orru, di origine sarda, del Partito d’Azione, che svolgeva la propria attività di giudice a Monza; ricordo Eugenio Esposito, comunista di Milano, il cui padre era stato fucilato con i “Quindici” di Piazzale Loreto; ricordo l’ing. Miorin di Fino Mornasco, l’architetto Archinti di Lodi, Filippo Goi della provincia di Pavia e moltissimi altri ancora i cui nomi a tanti anni di distanza ora mi sfuggono e che purtroppo non hanno avuto come me la fortuna di uscire vivi dai lager. Il “menù” giornaliero predisposto dal comando generale nazista consisteva in una tazza di surrogato di “tè”, una tazza di “zuppa” composta prevalentemente da rape, cavoli e qualche pezzo di patata, oltre a una fetta di pane di segale con non più di 5/6 grammi di margarina per persona. Questo, beninteso, era quanto avrebbero dovuto somministrarci in base alla dieta stabilita dal kommando tedesco; ma su questi cibi, già in se stessi insufficienti, operavano enormi tagli i tedeschi che lavoravano in cucina e i “Kapo” che ricevevano e distribuivano le razioni. Ed ecco come avveniva la distribuzione: in fondo al recinto a noi riservato erano disposte le marmitte e i “Kapo” – fatti allineare in fila indiana i deportati – muniti di mestoli davano inizio alla “operazione rancio”. Senonché le “gamelle” per ricevere la razione di zuppa erano solo trecento: una ogni tre di noi, circa. Non si disponeva di cucchiai; questi – anzi – erano severamente proibiti. Chi, in possesso di gamella, aveva preso la sua razione veniva subito attorniato da tre o quattro altri deportati in attesa che quello finisse di ingoiare la zuppa. Allora aveva inizio il breve turno dell’altro che sempre aiutandosi con le mani, la bocca e la lingua cercava di ingoiare la maggior quantità di zuppa nel minor tempo possibile, perché un altro, in attesa, potesse impossessarsi a sua volta della preziosa gamella. In tali condizioni ad ogni pasto si rendeva necessario ingaggiare una vera lotta, a volte brutale, per riuscire ad accaparrarsi la sospirata gamella. Il “Block” prospiciente al nostro, il N. 23, era considerato il “blocco di riposo”, ma in realtà era la vera anticamera del forno crematorio. Ammucchiati sino all’inverosimile in quella enorme baracca venivano segregati i deportati già logorati al massimo dalle fatiche dei lavori forzati, dagli inumani maltrattamenti fisici e morali, dalle malattie contratte in seguito al loro stato di debolezza, dall’inedia. Erano questi gli irrecuperabili, coloro cioè non più in condizioni di essere ulteriormente sfruttati come forza-lavoro: larve umane, dagli occhi vitrei, sbarrati in modo terrificante in preda alla rassegnazione, all’apatia, al fatalismo: seduti o sdraiati a terra essi attendevano immobili che avvenisse l’ineluttabile: il loro turno di “passare per il camino” del forno crematorio. Scoprimmo ben presto, per nostre necessità fisiologiche, a quali svariate funzioni fosse adibita la terza baracca del nostro settore, la più piccola delle tre esistenti, situata ai margini del recinto del lager: vi erano là allestiti i “servizi igienici”; almeno questa presuntuosa denominazione affibbiatagli dai nazisti pretendeva dovessero essere tali. All’interno della baracca faceva brutta mostra di sé una grande fossa longitudinale dalle pareti di cemento, attraversata sul davanti da due grosse travi parallele: ciò costituiva “le latrine”. A destra dell’entrata vi erano installati due rubinetti che sgocciolavano acqua in continuazione: questi volevano essere i “Servizi per l’igiene personale”! L’accesso ai “servizi igienici” era rigidamente sorvegliato da due feroci e robusti guardiani, criminali di professione (contrassegnati dal triangolo verde): in quelle loro specifiche funzioni essi ricoprivano certamente il gradino più basso dell’organizzazione del lager. Muniti di nodosi bastoni regolavano in modo brutale l’afflusso della lunga coda di deportati che in permanenza si ricomponeva davanti alla baracca. Ricordare e raccontare quale è stato lo “choc” e poi l’avvilimento che ci ha pervaso quando ci siamo trovati insieme a deportati del “Block” N. 23 può sembrare oggi il parto di una visione fantastica o l’incubo di un sogno apocalittico. I deportati del “Block” N. 23, per la maggior parte scheletriti, barcollanti, affetti da dissenteria, non più in grado di trattenere le feci, si urtavano e si lordavano a vicenda con i loro escrementi, urlando, imprecando e litigando in continuazione in tutte le lingue. La stessa baracca dei “servizi igienici” era anche adibita a “luogo di tortura”. In un angolo, interrato, sporgeva – infatti – un palo munito di un grosso anello metallico. Venivano qui legati per punizione i deportati del “Block di quarantena” che per pur lievi mancanze frequentemente incontravano le ire dei “Kapo”. A seconda delle sadiche e del tutto arbitrarie decisioni di quest’ultimi il deportato poteva rimanere legato al palo, senza alcun cibo, anche per più giorni. E per rendere ancora più crudele il supplizio le SS costringevano noi, a suon di bastonate, a turno, a versare sui malcapitati secchi d’acqua gelida che i due guardiani predisponevano con rara solerzia. In particolari funzioni che l’organizzazione nazista del campo assegnava alla baracca dei servizi igienici non si esaurivano con quelle già accennate, ma erano ancora estese, sfruttate al massimo: essa era utilizzata anche come “camera mortuaria”. I decessi, specie quelli per dissenteria, dei deportati del “Block” N. 23, erano in crescendo continuo. Il trasporto dei cadaveri, affidato al “Sonderkommando” (squadra speciale) ed espletato da altri deportati, avveniva a mezzo di carretto a mano, ma solo ogni 24 o 48 ore; per cui i morti, talvolta anche moribondi, completamente nudi con contrassegnati sul petto, in vernice rossa, il numero di matricola e la nazionalità, venivano trascinati per le gambe sino alla baracca dei “servizi igienici” e là, in un angolo, accatastati testa-piedi come fossero sardine. Ho già detto che per i nostri bisogni corporali, di giorno e di notte, eravamo costretti ad entrare nella baracca dei “servizi igienici” e sederci sulle due travi mentre davanti a noi stavano distesi, con gli occhi sbarrati – nei quali ancora si poteva vedere dipinto il terrore – i corpi irrigiditi dei nostri amici e compagni. Ricordo la triste fine di un deportato russo che faceva ritorno dall’estenuante lavoro in miniera. Era ridotto ad uno scheletro e a malapena riusciva a tenersi in piedi. Dopo qualche giorno lo vidi disteso, nudo al gabinetto: lo notai per il colore rossiccio dei suoi capelli. Mentre stavo seduto sulle travi continuavo a fissarlo sin che non mi accorsi che si muoveva e che quindi non era ancora morto. Mi precipitai ad avvisare un suo compagno che, assieme ad altri compatrioti durante la notte, gli fornirono alcuni miseri stracci da mettersi indosso e lo riportarono nella baracca. Il giorno dopo, mentre noi della “quarantena” stavamo facendo la “stufa umana”, rividi il russo seduto sul gradino davanti all’entrata del nostro “Block”. In quello stesso momento comparve la bieca figura del nostro capoblocco che urlando e imprecando come un ossesso inveì con parolacce, in tedesco, all’indirizzo di quel pover’uomo. Entrò a catapulta nella baracca ed uscì armato di un grosso bastone proprio mentre il russo, molto lentamente, date le sue cadaveriche condizioni era curvato in avanti nel tentativo di alzarsi in piedi. L’energumeno alzò il bastone e con inaudita violenza lo abbatté sulla schiena di quel povero infelice. Si udì distintamente un rumore uguale a quello di un ramo spezzato e il russo cadde stecchito con la spina dorsale fracassata. Un pomeriggio passando davanti al “blocco di riposo” assistetti a un’incredibile scena di abbrutimento umano. Un deportato polacco stava seduto a terra, la schiena appoggiata alla baracca. Il suo corpo ormai consumato dagli stenti, dal lavoro, dalle sevizie e dalla fame era ridotto a un fantasma. In cerchio gli stavano seduti davanti altri quattro o cinque deportati. Mi fermai ad osservarli. Nessuno parlava: si sentiva distintamente soltanto il respiro affannoso che usciva dai loro petti scheletrici. Osservando bene la scena mi accorsi che il polacco appoggiato alla baracca teneva nella mano destra, raggomitolata all’altezza dello stomaco, un pezzo di pane. Evidentemente il polacco a un certo punto si rese conto che l’obiettivo di coloro che lo circondavano era quello di impadronirsi del pane e la scelta che ne seguì fu fulminea. In un attimo di lucidità e con enorme sforzo il polacco aprì la bocca e cercò di introdurvi tutto il pezzo di pane che teneva in mano, ma quasi nello stesso istante egli crollò disteso a terra, morto. Un giorno alla distribuzione della “zuppa”, mentre mi stavo organizzando per entrare rapidamente in possesso della famigerata “gamella”, vidi mettersi in fila al mio fianco un deportato cecoslovacco che procedeva trascinandosi faticosamente sottobraccio un proprio compagno. Arrivato che fu davanti al “Kapo” che distribuiva la zuppa gli fece versare nella “gamella” la propria razione e anche quella del compagno. Compiuti appena pochi passi allentò la presa di quest’ultimo che rotolò pesantemente a terra, ove rimase immobile, probabilmente morto. Il cecoslovacco si allontanò, incurante, di qualche metro e con la massima indifferenza si mise a divorare le due razioni di zuppa. Con il trascorrere del tempo, durante la debilitante permanenza nei lager mi resi conto come fosse difficile reagire dignitosamente per evitare che l’egoismo, l’istinto della conservazione e la conseguente lotta per la sopravvivenza, non avessero il sopravvento, sino a stravolgere completamente i valori dello spirito. Ho già ricordato in un’altra parte di queste mie disordinate memorie che i morti venivano spogliati prima di essere accatastati nella baracca dei “servizi igienici” e di finire al crematorio. Per un certo periodo di tempo questo macabro incarico fu assolto da un ragazzino polacco che non avrà avuto più di 11 o 12 anni. La spogliazione dei morti avveniva sempre e con qualsiasi tempo all’esterno della baracca e il ragazzino vi procedeva con un certo metodo. Egli sistemava in un apposito sacco di carta gli indumenti ricuperati, da reimpiegarsi per la vestizione di altri nuovi deportati, staccava il triangolo e il numero di matricola che distinguevano e classificavano il deportato, procedeva ad avvisare il capoblocco di aver ultimato l’”operazione” e poi ritornava e si sedeva accanto al cadavere in attesa delle successive incombenze. Il capoblocco, che aveva il compito di segnalare alle SS il decesso ai soli fini amministrativi e anche quello di tracciare – con la vernice – sul petto del morto la nazionalità ed il numero di matricola, si faceva sempre molto attendere. Quando finalmente aveva eseguito questo compito toccava al ragazzino prendere il cadavere per i piedi e trascinarlo all’interno della baracca, nell’angolo adibito a “camera mortuaria”. Seguivo tutte queste meste operazioni con inimmaginabile raccapriccio ma anche con tanta rabbia mal repressa in corpo! Quel ragazzino – immobile vicino al cadavere – di tanto in tanto alzava la testa e mi fissava intensamente tenendo sbarrati i suoi grandi occhi scuri mentre le sue labbra rimanevano ermeticamente chiuse. La sua faccia smunta, esangue, sembrava impassibile nonostante la macabra incombenza. Quel povero piccolo corpo così presto immerso nelle nefandezze del lager, già segnato dagli stenti e dalle sofferenze fisiche e morali, mi metteva a disagio conturbandomi profondamente. Mi saliva un nodo alla gola, impedendomi persino di deglutire la saliva, assistendo a quelle efferatezze a cui era costretto quel povero ragazzo indifeso, anche perché la mia posizione di spettatore forzatamente inerte non poteva certo recargli conforto. Tuttavia attraverso quel “dialogo” scambiato con sguardi a distanza mi sembrava di avvertire che quel poverino volesse trasmettermi un “messaggio”; volesse forse ringraziarmi in qualche modo per il conforto che gli recava la presenza a distanza. E così avvenne… …Un pomeriggio mentre stavo appoggiato alla rete metallica che isolava il nostro settore fissavo con insistenza il ragazzino intento ad eseguire il suo mesto lavoro da mini-necroforo. Ad un tratto con mossa fulminea egli mi gettò oltre la rete divisoria una camicia che aveva appena sfilata dal morto. Restai per un attimo come sbigottito, incredulo, quasi atterrito per quello che gli poteva succedere se fosse stato scoperto; ma ben presto mi ripresi, tolsi velocemente la giacca e tremante per l’emozione m’infilai la camicia. Quando alzai gli occhi per accennare a un ringraziamento il ragazzino era già scomparso e io non lo rividi mai più. A parte la riconoscenza serbatagli per il prezioso indumento procuratomi ho apprezzato soprattutto il gesto di coraggio e di solidarietà umana di quel caro ragazzino polacco che, se fosse stato scoperto, avrebbe certamente subito gravissime punizioni. Il gesto lo interpretai anche come un incitamento a non smettere mai di lottare, di non darsi mai per vinti, a non dimenticare che ogni individuo che uscisse vivo da quell’inferno nazista aveva il dovere di tramandare in ogni tempo il ricordo e la testimonianza delle sofferenze di tutti coloro che non avrebbero più fatto ritorno. A Flossenbürg – come del resto in tutti gli altri lager – il capocampo e i capiblocco avevano liceità di vita e di morte su tutti i deportati. I capiblocco erano responsabili presso le SS dell’esatta rispondenza delle presenze al campo dei deportati, sia che fossero vivi sia che fossero morti, indifferentemente: quello che interessava e contava soltanto era il totale! Tanti erano i vivi che mancavano all’appello tanti erano i morti che si dovevano trovare giacenti nella baracca dei “servizi igienici”, ove le SS si recavano per il rigoroso controllo. Capiblocco e “Kapo”, tutti ex delinquenti comuni, non erano certo più benevoli verso di noi delle stesse SS. Sempre con il famigerato tubo di gomma in mano essi costituivano per noi il continuo incubo. Al mattino presto il risveglio nella baracca era brusco, a suon di urli del capoblocco che ci riempiva le orecchie con i suoi “aufstehen” a ripetizione (alzarsi, alzarsi!). Fuori faceva un freddo boia mentre era ancora notte fonda. I miseri stracci che avevamo indosso non potevano certo fornirci il minimo conforto. Dopo una tazza di surrogato di “tè”, amaro, fatto con strane foglie essiccate – che aveva il solo merito di essere talvolta caldo – cominciava la “conta”, di cui ho già detto. Ho ancora vivo il ricordo di una tragica “conta”: quella del giorno in cui mancò il primo italiano del nostro scaglione. Se non erro era nativo di Novara e si chiamava Suardi. Egli non era riuscito a superare il ribrezzo, la pena e la ripugnanza insieme che gli suscitavano i cadaveri accatastati nel “gabinetto” e dopo pochi giorni di impatto con il lager venne colto da atroci dolori viscerali. Una sera che i dolori gli si fecero lancinanti, malgrado i nostri interventi presso il capoblocco – tramite il compagno Olivelli che fungeva da interprete e si era assunto il compito di difenderci presso le SS e i “Kapo” – fu tenuto steso per terra durante l’appello per oltre due ore, senza che si potesse prestargli alcun soccorso, severamente proibitoci. Tutta notte continuò a lamentarsi e poi entrò in agonia: morì all’alba. Con Olivelli tentammo un ulteriore intervento presso il capoblocco nell’intento di evitare che il povero compagno finisse accatastato nudo nel “deposito mortuario”. La risposta ottenuta fu: “Scheisse”, che in tedesco significa “merda”. Venimmo a sapere da “radio-lager” che al “buro” erano pervenute alcune richieste per il trasferimento di deportati in diversi campi di lavoro. Al primo “Kommando” costituito dalle SS vennero assegnati, con sadico intento, i deportati più anziani del nostro gruppo, gli intellettuali, i professionisti, i commercianti e tutti coloro che non erano in possesso di una specifica qualifica di lavoro manuale, in quanto questo “Kommando” doveva scavare a trincea un lungo tratto di terreno per la posa di tubi per un acquedotto, ai margini della foresta che si stendeva a nord del lager. In questo “gruppo di lavoro” venne inserito anche il compagno Luigi Brusaioli (il rappresentante del Partito Repubblicano nel primo Comitato di Liberazione Nazionale di Pavia).Tra questi deportati certamente, prima di allora, nessuno aveva mai adoperato la pala e il piccone. Vestiti com’erano di soli stracci, con ai piedi gli zoccoli, senza calze, l’umidità, il fango e la pioggia rendevano loro estremamente difficoltoso non solo camminare bensì anche reggersi in piedi. Il lavoro si protraeva per ben dodici ore con una sola sospensione di mezz’ora per la distribuzione della “zuppa”. Spalare il terriccio di scavo fuori dal bordo della trincea richiedeva uno sforzo estremamente faticoso tanto che coloro che, dopo qualche tempo non erano più assolutamente in condizioni di mantenere il ritmo di lavoro imposto dalle SS, venivano colpiti sistematicamente dai tubi di gomma dei “Kapo”. Dopo pochi giorni di questo inumano lavoro i deportati del “Kommando” in parola non erano più in grado di sostenere ulteriormente l’immane fatica. Essi, e così anche Brusaioli che ogni sera ci raccontava il suo “calvario”, rientravano nella baracca bagnati fradici con le mani e i piedi ricoperti di vesciche sanguinanti, in uno stato di prostrazione completa. Ogni nostro intervento in loro favore, sempre tramite l’Olivelli, rimaneva senza alcun risultato. Dalle giacche di alcuni compagni stracciammo dei pezzi di fodera, stranamente rimasti ancora attaccati alle maniche, per farne delle bende di ripiego, mentre con la scusa delle medicazioni del mio piede riuscii a procurarmi dal “Revier” altre bende, naturalmente di carta; potemmo così, se non medicare, almeno fasciare le ferite delle mani e dei piedi di quei poveri disgraziati. Ma quel massacrante lavoro doveva completarsi al più presto e le SS, sempre più inviperite per il calo del ritmo ch’esso giornalmente registrava, incitavano i “Kapo” a colpire selvaggiamente le schiene di quei malcapitati forzati. Che diamine! Erano o non erano prigionieri e per giunta anche politici! Dovevano dunque lavorare e morire per il grande Reich. Lavorare, come del resto stava scritto all’entrata del lager, perché il lavoro rende liberi (Arbeit macht frei!); liberi, sì, ma solo passando per il camino del forno crematorio! Un mattino durante la solita “conta” effettuata dal capoblocco, presenti le SS, la maggior parte del “Kommando scaviacquedotto”, compreso purtroppo anche l’amico e compagno Brusaioli, fu selezionata e destinata al famigerato “Blocco di riposo” che altro non era, come già ricordato, se non l’anticamera del forno crematorio. E lì Brusaioli morì il 29 ottobre 1944

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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