Triangolo rosso

Gabriele Nissim, “Il tribunale del bene”

La storia di Moshe Bejski, all’ombra degli alberi del suo “Giardino dei giusti”

 

(i. p.)

 

L’uomo che creò il Giardino dei giusti si chiama Moshe Bejski, un ebreo polacco, reduce dai campi di sterminio, salvato assieme a centinaia di altri da Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco ormai notissimo a tutti grazie al bellissimo film di Steven Spielberg Schindler’s List. All’origine di questa straordinaria istituzione c’è una legge approvata nel 1953 dal Parlamento israeliano, che impone allo stato di onorare i salvatori degli ebrei. Per dieci anni quella legge è stata disattesa, finché, proprio il clamore e l’entusiasmo suscitati dalla storia della “Fabbrica della vita” di Schindler, fatta conoscere da Bejski, indussero il direttore del Museo della Shoah, Leon Kubovi, a proporre di dare finalmente attuazione a quella legge. Nacque così, nell’ambito del memoriale di Yad Vashem, l’istituzione in ricordo dei martiri e gli eroi della Shoah, la “Commissione dei giusti”, presieduta da Moshe Landau, il giudice più popolare di Israele, presidente del tribunale che nel 1961 aveva giudicato Adolf Eichmann, condannandolo alla pena di morte. Landau, uomo integerrimo e giurista intransigente, aveva avuto un percorso diverso da Bejski. Non aveva conosciuto, per diretta esperienza, gli orrori della Shoah. Bejski, invece, sapeva che cosa voleva dire concretamente, per averlo vissuto sulla propria pelle, incontrare in una strada senza sbocco e senza speranza uno che ti porge una mano, che significa la salvezza. Per lui quell’uomo fu Schindler. Per altri furono le persone più diverse, tutte, comunque, che avevano messo a repentaglio la propria vita per salvare quella di uno o più ebrei. In Polonia, dove, peraltro, anche sotto la dominazione nazista, continuava ad imperversare l’antisemitismo, ce ne furono almeno 5632, riconosciuti ufficialmente, ad ognuno dei quali è stato assegnato un albero nel “Giardino dei giusti”, a Gerusalemme. Un albero anche per Schindler, ma solo da quando Bejski successe nella carica di presidente a Landau. Fra i due, sul punto, c’era stato un contrasto. Landau, infatti, riconosceva a Schindler di avere salvato tanti ebrei e che dunque gli era dovuta riconoscenza, non però fino al punto di assegnargli il titolo di Giusto, per via del suo modo di vivere non proprio impeccabile: donnaiolo, imbroglione, fanfarone, spendaccione, bugiardo. Per Bejskie, invece, tutti i difetti di Schindler erano niente di fronte al rischio che aveva corso per salvare da morte sicura tanta gente. Se era vivo lo doveva a lui e per questo aveva votato la propria vita alla ricerca di tutti i giusti che rischiavano di essere dimenticati dalla storia. Una medaglia a due facce: da un lato Simon Wiesenthal, inflessibile cacciatore di criminali nazisti; dall’altro Moshe Bejski, ricercatore infaticabile dei giusti. Che, fra loro, erano molto diversi. Non tutti dalla moralità fuori discussione. C’erano anche prostitute, collaboratori, antisemiti, piccoli profittatori, persino ufficiali nazisti e procuratori di Cyklon B. A tutti Bejski teneva la porta aperta. Chiunque fosse, uno che aveva salvato una vita meritava attenzione e riconoscenza. A Moshe Bejski e alla sua vita esemplare Gabriele Nissim ha dedicato un bellissimo libro. Tanti gli episodi raccontati in questo libro. Il più edificante è quello di un povero ebreo, che, fuggito da un campo di sterminio, solo e pieno di paura, affamato e malvestito, sta cercando da giorni, passando le notti sotto i ponti, una via di salvezza per le strade di Varsavia. Già molte porte gli sono state sbattute in faccia e quando ormai si sente perduto scorge un piccolo negozio di orologeria e col coraggio della disperazione entra per chiedere se hanno bisogno di lavoro. Il proprietario lo squadra dalla testa ai piedi, identificandolo come ebreo, e poi gli chiede che cosa sa fare. “Mi dia l’orologio più scassato che ha nel negozio e glielo farò vedere”, dice l’ebreo, che è un eccellente orefice. Avuto l’orologio fra le mani, lo smonta e lo rimonta e lo restituisce in perfetto stato al padrone del negozio. Il quale, ammirato per la straordinaria professionalità, lo rassicura, dicendogli che d’ora in poi non gli mancherà lavoro e che potrà passare le notti nel retrobottega. L’ebreo trovò così la sua salvezza in quella botteguccia, restandovi nascosto fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Poi emigrò in Australia, a Melbourne, dove aprì un negozio più grande e più bello. Dopo 40 anni il caso volle che la figlia del suo benefattore, in visita turistica nella città australiana, entrasse proprio in quel negozio per farsi riparare un prezioso orologio che le era caduto malamente per terra. In breve, l’ebreo capì che si trattava della figlia del suo ex padrone polacco e, finalmente, si rivolse a Bejski per fargli avere il giusto riconoscimento, beccandosi i più aspri rimproveri per essersi scordato per tanto tempo di ringraziare la persona cui doveva la vita. L’episodio più drammatico è di un tedesco di religione protestante, Kurt Gerstein, uno dei responsabili del servizio di igiene delle Waffen SS, incaricato di acquisire i prodotti tossici destinati allo sterminio degli ebrei. Di sentimenti antinazisti, fece sotterrare una grossa fornitura di acido prussico con la scusa che il materiale si era deteriorato. Soprattutto cercò di far circolare all’estero le notizie dello sterminio nelle camere a gas. Allo scopo ebbe un colloquio con il barone von Otter, segretario della Legazione svedese in Germania, che, dopo averlo ascoltato, fece un rapporto al proprio governo. Ma il documento restò chiuso in un cassetto fino al termine della guerra perché il governo di Stoccolma non volle mettere a rischio le proprie relazioni difficili con la Germania. La stessa cosa, tramite un amico olandese, Gerstein la tentò con gli inglesi, che, però, non gli credettero o fecero finta di non credergli. Altro tentativo col vescovo protestante Otto Dibelius, che restò sconvolto, ma gli disse di essere impotente. Ultimo tentativo col nunzio apostolico Cesare Orsenigo, rappresentante del Vaticano a Berlino, che dopo averlo ascoltato per qualche minuto, lo cacciò fuori dal suo ufficio. A Gerstein non restò che continuare nella sua opera di sabotaggio. A liberazione avvenuta, venne arrestato dai francesi e non venne creduto. Sbattuto in prigione, trattato nel peggiore dei modi, non sopportando di essere accusato di orrendi crimini, si impiccò il 25 luglio del ‘45. Saul Friedlander, uno dei grandi storici della Shoah, contestò le accuse. Leon Poliakov lo difese. La Commissione dei Giusti, non più presieduta da Bejski, dichiarò non accettabile la discussione sul caso. Esemplare l’opera di Moshe Bejski, che mai si è stancato di valorizzare le azioni coraggiose dei salvatori. “Certo - egli ha scritto - i Giusti non erano in grado di eliminare i crimini contro l’umanità, dato che intervenivano quando la violenza si era già manifestata. Eppure la loro funzione era preziosa perché insegnavano ad assumersi una responsabilità personale in un mondo in cui il male è sempre in agguato”.

Gabriele Nissim Il tribunale del bene, Mondadori, pagine 336, euro 18,00

 Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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