Triangolo rosso

I SONNINO VENGONO STERMINATI NEI LAGER, I WEILLER SALVATI

Le nostre storie

Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo

 

di Bruno Enriotti

 

Piera Sonnino e Guido Weiller erano due giovani ebrei, ancora ragazzi quando nel 1938 il fascismo promulgò le leggi razziali. Piera aveva 16 anni, Guido 13. Vivevano in due città diverse: a Genova lei, a Milano lui, e non si sono mai conosciuti, eppure le loro vite si incontrano poiché entrambi hanno sofferto negli anni bui del fascismo esperienze simili. Uguale è l’isolamento in cui si vengono a trovare quando, ancora ragazzi, si ritrovano improvvisamente espulsi “da tutte le scuole del Regno”, ugualmente drammatica la fuga dopo l’8 settembre 1943, quando dalla discriminazione razziale si passa, con l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica di Salò, agli arresti e alle deportazioni. Un solo avvenimento – decisivo per il futuro di entrambe le famiglie – imprime un segno opposto al destino loro e delle due famiglie: una, la famiglia Sonnino, finirà ad Auschwitz, dove i genitori e i fratelli di Piera verranno sterminati; l’altra, la famiglia Weiller, incontrerà invece i partigiani e riuscirà a salvarsi. La vita sconvolta dalle leggi razziali

 

Le storie di Piera Sonnino e di Guido Weiller si possono leggere in due recenti pubblicazioni. Sul Diario del mese, la rivista diretta da Enrico Deaglio, è apparso nel numero dello scorso gennaio un manoscritto di Piera (deceduta nel 1999) intitolato La deportazione della mia famiglia; Weiller ha pubblicato il libro autobiografico La bufera – Una famiglia di ebrei milanesi con i partigiani dell’Ossola (Giuntina, 19 euro). È proprio l’elemento messo in rilievo nel titolo di Weiller, l’incontro con i partigiani, che rese tanto diversa la sorte di queste due famiglie ebraiche. Piera apparteneva ad una famiglia della media borghesia. Il padre – che vantava una parentela con Sidney Sonnino, per due volte presidente del Consiglio tra il 1906 e il 1910 e ministro degli Esteri durante la prima guerra mondiale – era un commerciante con “fortuna alterna e sempre assai scarsa”; la madre, eccellente pianista con un diploma di insegnante, si dedicava alla cura dei sei figli, tre maschi e tre femmine, di cui Piera era la terz’ultima. Migliore la condizione sociale della famiglia Weiller, di cui faceva parte anche un parente che durante la prima guerra mondiale aveva volato su Vienna con D’Annunzio. Il padre era un avvocato milanese abbastanza affermato che “aveva aderito al fascismo più che altro per necessità”; la moglie accudiva i due figli, Silvana e Guido. I Sonnino avevano raggiunto proprio in quegli anni una certa tranquillità economica.

Piera Sonnino costretta ad abbandonare gli studi

Paolo, il maggiore, riuscì ad impiegarsi presso le Assicurazioni Generali di Venezia (nel 1940 si laureerà in Economia e commercio); il secondogenito Roberto lavorava all’Istituto nazionale delle assicurazioni, la prima delle femmine, Maria Luisa, al Monopolio banane, mentre gli altri tre figli minori studiavano ancora: Piera e Bice all’Istituto commerciale, Giorgio al tecnico. Con le leggi razziali – scrive Piera – “un fulmine si è abbattuto sulla nostra casa. Nel giro di pochissimi giorni Paolo, Roberto e Maria Luisa furono licenziati. Giorgio, Bice e io fummo costretti a lasciare le scuole statali e a iscriverci alla scuola ebraica. La sera in cui i miei fratelli annunciarono il loro licenziamento e dinnanzi a noi si aprì la voragine dell’avvenire evitammo di lamentarci perché nessuno potesse udirci, rimanemmo in silenzio a meditare sull’incognita terribile dell’indomani”. Anche i due fratelli Weiller nell’autunno del ‘38 vengono espulsi dalla scuola pubblica, il liceo Parini. Immediatamente si improvvisa una scuola per ragazzi ebrei “la prima settimana – scrive Guido – si utilizzava casa nostra, la seconda casa Luzzatto, la terza casa Fargion. Di quelle settimane ricordo più che i volti i nomi: Morpurgo, Luzzatti, Luzzatto, Bonfiglioli, Fargion, Dreyfus, Castelnuovo…”. Poche settimane dopo la comunità ebraica di Milano dà vita alla Scuola ebraica, l’Istituto Franco da Fano, in via Eupili. Lì Guido studia privatamente per poi dare gli esami, superati col massimo dei voti, in una scuola pubblica, il Liceo scientifico Schiapparelli. Piera Sonnino è invece costretta ad abbandonare gli studi.

Una sterminata nei lager, l’altra salvata dai partigiani

“Non solo in quel tempo, ma soprattutto negli anni che seguirono – scrive – scoprimmo attorno a noi una solidarietà umana silenziosa ma operante. Le misure antiebraiche suscitavano generalmente nuovi motivi contro la dittatura fascista e nei nostri confronti più simpatia di quanto ne avessimo mai ricevuta”. Paolo e Roberto vengono assunti da due ditte private, Maria Luisa da studi di avvocati e la stessa Piera, nel 1941, va a lavorare alla ditta Saic, occupando il posto di un ebreo tedesco che era stato rinchiuso in un campo di concentramento a Montefiascone. Piera descrive con molta efficacia la solidarietà ricevuta in quegli anni: “Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne, nei pressi di Chiavari, dove ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in ebrei e non ebrei ma in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi non la lavora e si appropria della mietitura e della vendemmia”. È in queste condizioni che la famiglia Weiller a Milano e la famiglia Sonnino a Genova vivono gli anni della guerra fino alle drammatiche giornate seguenti l’8 settembre ’43.

Genova e Rinasco i “teatri” delle due storie

L’armistizio e la conseguente invasione nazista colgono la famiglia Sonnino a Genova, mentre i Weiller erano sfollati a Binasco, un paese del sud milanese. Entrambi capiscono subito i gravi rischi che corrono gli ebrei con i nazisti in casa e cercano di nascondersi. I Sonnino lasciano Genova a fine settembre e cercano rifugio a Sampierdicanne, nell’entroterra ligure. Tentano ogni strada per riparare in Svizzera, ma non hanno denaro sufficiente per emigrare. La zona del Chiavarese dove si erano rifugiati era in permanenza battuta dalle truppe naziste e dai fascisti, per cui bisognava abbandonarla al più presto. Qualcuno gli parla di un alberghetto a Pietranera di Rovegno (un altro paesino nell’entroterra ligure) e la famiglia Sonnino vi si trasferisce. Ma anche qui il rischio è grande. Proprio riflettendo sul periodo passato in quell’alberghetto, Piera Sonnino fa una considerazione che, certo inconsapevolmente, delinea la sorte diversa che avranno nei mesi futuri la famiglia Sonnino e la famiglia Weiller. “La zona – scrive Piera – era percorsa quasi quotidianamente da reparti tedeschi che si dirigevano verso le montagne. Ad ogni loro apparire abbandonavamo l’albergo o la cucina e ci disperdevamo nei boschi. Un giorno fuggimmo per l’avvicinarsi di un gruppo di uomini in divisa e al nostro ritorno apprendemmo che si trattava di militari inglesi evasi dai campi di prigionia. Nessuno ci disse perché erano transitati da Pietranera. Per oltre un mese vivemmo in una zona controllata in buona parte dai partigiani e lo ignorammo.

L’arresto dei Sonnino a causa di una spiata

Soltanto al mio ritorno appresi che cosa racchiudessero i monti che avevamo intorno. E appresi anche quali legami ci fossero tra quei monti e i contadini che protessero anche noi con il loro silenzio”. Il mancato incontro con i partigiani ha portato la famiglia Sonnino allo sterminio di Auschwitz; l’incontro con loro ha invece salvato la famiglia Weiller. Non sapendo a chi appoggiarsi, la famiglia Sonnino è costretta a fuggire anche da Rovegno. Sono gli stessi carabinieri ad avvertirli: “Non potete più stare qui, i tedeschi potrebbero prendervi. Dovete allontanarvi.” E i Sonnino fuggono. Tornano a Genova, una conoscente trova loro un rifugio in un palazzo sinistrato senza luce e gas. Poi, grazie all’interessamento di un sacerdote, riescono ad entrare in un appartamento più confortevole. La loro situazione si fa sempre più drammatica. Il 12 ottobre 1944 i militi fascisti li arrestano a causa di una spiata. Li portano alla Casa dello Studente (un edificio tristemente noto quale sede delle Brigate Nere e dove vennero rinchiusi e torturati numerosi antifascisti); poi al carcere di Marassi, quindi nei campi di concentramento, prima a Bolzano infine ad Auschwitz-Birkenau. All’arrivo i genitori vengono subito destinati alle camere a gas; il figlio maggiore muore poco dopo. Ad Auschwitz moriranno anche gli altri due fratelli. Delle tre sorelle una morirà a Flossenburg e un’altra nel campo di Braunschweig. Piera sarà l’unica a salvarsi. Quando rientra in Italia non ha più nessuno. Passerà diversi anni in una clinica per recuperare la salute, poi, tornata a Genova, sposa un giornalista dell’Unità, A.G. Parodi e dal loro matrimonio nascono due figlie, Maria Luisa e Bice. Sono loro che dopo la morte dei genitori, hanno conservato la drammatica testimonianza della madre per poi consegnarla alla rivista di Enrico Deaglio.

La fuga della famiglia Weiller

Anche la famiglia Weiller rischiò di fare la stessa tragica fine, ma ciò non avvenne. Lasciata Binasco immediatamente dopo l’8 settembre, i Weiller fuggono in Val d’Ossola con la speranza di raggiungere la Svizzera. Anche la loro è un’odissea, cambiano continuamente paese cercando di sfuggire ai fascisti e ai tedeschi. A Villadossola, quando tutte le speranze di trovare rifugio in Svizzera sembrano svanite, Guido Weiller – allora poco più che adolescente ma già molto intraprendente – decide di prendere contatto con i partigiani. Sa che in quella zona ci sono gli uomini del comandante Beltrami, un architetto milanese salito in montagna per combattere i fascisti. Guido riesce ad identificarlo lo avvicina e direttamente gli dice: “Siamo una famiglia di ebrei. Chiediamo protezione”. E Beltrami gli risponde: “Siete sotto la mia protezione. Io rappresento il governo italiano. I miei uomini sono acquartierati a Damasca. Qualunque cosa vi succeda salite anche voi a Damasca. Se io non ci fossi chiedete del mio vice, il tenente Lino, che sarà avvertito stasera”. Così i Weiller si uniscono ai partigiani e con loro rimarranno diversi mesi. L’intera famiglia si rende utile (Guido si distinguerà aggiustando armi e preparando ordigni esplosivi, mettendo in mostra tutta la sua abilità tecnica che dopo la guerra farà di lui un ingegnere estroso e geniale). I Weiller rimangono con i partigiani della Val d’Ossola finché un imponente rastrellamento di fascisti e tedeschi li costringe a disperdersi e a mimetizzarsi. Tutta la famiglia è un gravissimo pericolo e i partigiani decidono di farli fuggire in Svizzera. La loro vita è salva. Anche se – come scrive Guido – “mi è rimasto dell’esperienza partigiana un intimo cruccio: quello di aver lasciato la formazione, di avere abbandonato il posto di combattimento, di ‘essere scappato’”. Comunque farà in tempo a tornare in Italia per consegnare a Milano all’aiutante di Luigi Longo, il 28 aprile, la prima serie di immagini giunta in Italia dei campi di sterminio nazisti.

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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