Triangolo rosso

Una sezione centrale d’appello della Corte dei Conti interpreta a modo suo le leggi del ’38 e un’altra declassa a “campo di lavoro” quello di sterminio di Muldorf

Ma per gli ebrei la legge è disuguale

Niente indennizzo per la bambina espulsa da scuola

 

di Gigi Marcucci

 

La legge è uguale per tutti, ma solo se non sei ebreo e non hai perso anni di scuola a causa delle leggi razziali del 1938. Il professor Rafael Levi, lo ricorda con rabbia, parlando di un’ondata di revisionismo che coinvolge da anni oscuri travet del ministero del Tesoro poi ribattezzato dell’Economia. Oggetto, l’assegno speciale di 760 mila lire che spetta per legge ai cittadini di origine ebraica che dopo il settembre del ‘38 non poterono più frequentare le aule scolastiche. La madre del professor Levi non l’ha mai ottenuto, mentre due sue sorelle lo ricevono grazie a sentenze emesse da due diverse istanze della Corte dei Conti. Anche loro però hanno dovuto fronteggiare i ricorsi ministeriali che negavano un diritto che oggi appare scontato. La magistratura contabile, da parte sua, non ha mai trovato l’accordo sull’argomento, emettendo negli anni sentenze contraddittorie. Ad aumentare la confusione, contribuisce la speciale Commissione istituita presso la presidenza del Consiglio, che da circa un anno ha dato luce verde agli indennizzi per chi ha subito una forma sottile - ma non per questo meno atroce – di persecuzione. “In questo modo - spiega il professor Levi - si sono create almeno quattro categorie di cittadini, a seconda che le loro ragioni siano state accolte o respinte, prima dal ministero e poi dalle diverse sezioni della Corte dei Conti”. Le valutazioni che hanno portato al moltiplicarsi dei contenziosi non sono chiare. In generale, gli assegni di benemerenza concessi ogni anno non superano i 2 miliardi e 600 milioni di lire, una parte minima del bilancio dello Stato. I cittadini ebrei che ne hanno diritto sono circa 2000: ammesso e non concesso che tutti facciano richiesta dell’assegno speciale, non sembrano costituire una minaccia per i conti del professor Tremonti. Eppure, entro la prima settimana di marzo, le Sezioni unite della Cassazione dovranno spendere una parola definitiva sul caso di una bambina ebrea che nel settembre del ’38 fu espulsa dalle scuole del Regno. Il suo nome è Nella Padoa, viveva a Bologna e in quel periodo avrebbe dovuto cominciare a frequentare la quarta elementare. Un giorno fu convocata in segreteria, dove le mostrarono il registro. Accanto al suo nome era comparso un timbro: “Razza ebraica”. Le porte della scuola si chiusero per Nella e la sua sorella minore, di due anni più giovane. Nel ‘43, all’arrivo dei tedeschi, le due bambine trovarono rifugio a Modena, presso una famiglia. Tradite da una soffiata, furono bloccate dai fascisti e rinchiuse in carcere in attesa di un treno piombato destinato ai campi di sterminio. Fortunatamente partigiani e americani furono più tempestivi dei nazisti e le due sorelle Padoa vennero liberate. Dal 1955 la legge italiana riconosce a entrambe lo stato di perseguitate, ma a questo punto i loro destini, per la giustizia italiana, si separano. La sorella di Nella, trasferitasi a Genova, vede accolte le proprie ragioni dalla locale sezione della Corte dei Conti. L’istanza di Nella, che è rimasta a Bologna, viene respinta da diversa sezione della stessa magistratura. Da qui il ricorso su cui le Sezioni unite si pronunceranno nei prossimi giorni. “Non parlerei di antisemitismo, secondo me ci troviamo di fronte a un tipico esempio di ottusità burocratica”, dice Lucio Pardo, presidente della Comunità ebraica di Bologna. “È evidente che chi ha perso anni di scuola ha subito un danno”, continua Pardo, “io stesso, che sono del ‘36, non potei frequentare l’asilo e i primi tre anni di scuola elementare. Per la mia istruzione non ci furono problemi, perché mia madre era un’insegnante e mio padre un preside. Furono bravissimi e mi fecero vivere l’arrivo dei tedeschi e la fuga in Svizzera come una grande avventura. Quello che è mancato a me, come agli altri bambini ebrei, è stato un periodo fondamentale per la socializzazione. Perché una cosa è imparare a confrontarsi e a difendersi quando si è piccoli, un’altra è farlo a 20 o 30 anni”

 

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C’è chi in Italia riscrive la storia

Niente vitalizio: non era prigionia ma solo lavoro

 

di Aldo Pavia

 

C’è chi proclama che bisogna riscrivere la storia. C’è chi presenta disegni di legge per dire come andranno riscritti i libri di storia. C’è chi, zitto zitto e senza clamori, la storia già la riscrive. Una sezione centrale di appello della Corte dei Conti, per respingere il ricorso di un richiedente l’assegno vitalizio spettante ai deportati nei campi di sterminio, ha ritenuto non sufficiente giudicare in merito alla condizione vissuta in deportazione ma, animata da una irresistibile vocazione per la verità storica, ha voluto pronunciarsi sulla natura, la vera natura, dei KZ. Ecco la sentenza: Muldorf non è un KZ. È, in sostanza, un campo di lavoro, con una direzione del cantiere assegnata alla Todt. Poveri parlamentari tedeschi! Che figura da ignoranti hanno fatto nel ritenere Muldorf, sottocampo di Dachau, un KZ, inserendolo tra i 1640 che con legge federale e pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale tedesca del 1977, hanno riconosciuto essere campi “destinati allo sterminio”. E ancora, sempre nella sentenza: in Muldorf erano impiegati, accanto ai “non volontari”, ossia soggetti precettati, e a lavoratori coatti, anche lavoratori civili liberi. La si smetta, quindi, di parlare di “sterminio”. I signori con su il petto la matricola di Dachau erano “non volontari” precettati al lavoro. Perché, vedete, l’interpretazione vera della legge è che: la vigilanza delle SS o della Gestapo non costituisce elemento decisivo per l’attribuzione del beneficio, occorrendo, altresì, la dimostrazione dell’attribuibilità, “ab initio”, della destinazione ai fini di sterminio del campo. E ancora: la particolare durezza della gestione della prigionia non è idonea ad integrare il requisito di legge, che esige una destinazione del campo ai fini di sterminio. Secondo questa sezione d’appello i campi di concentramento in quegli anni avevano caratteristiche diverse sia per i soggetti che vi erano interessati sia per la conseguente diversa disciplina in guisa che, solo per taluni campi, era ipotizzabile la “soluzione finale programmata”. Ma allora, quali erano questi campi di sterminio? “Il legislatore ha inteso limitare la fruizione del beneficio in questione ai casi in cui tale evento (lo sterminio, ovviamente, ndr) sia stato deliberatamente e programmaticamente attuato, mediante predeterminate esecuzioni di massa”. Nessuna esecuzione di massa (o poche), nessuno sterminio. Ma allora come la mettiamo con i milioni di assassinati “per lavoro”? Semplici “non volontari” precettati. Adesso sapete, amici deportati nei KZ, chi eravate in realtà. Dopo mezzo secolo, finalmente, la Corte dei Conti, dall’alto di una profonda dottrina storica, vi ha e ci ha illuminati. Adesso aspettiamo solo che il ministero del Tesoro vi chieda la restituzione di quanto “indebitamente percepito”. Volutamente non esprimo il mio parere su questa sentenza. Lascio a voi “non volontari” precettati il diritto di esprimervi opportunamente. Spero a voce alta.

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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