Triangolo rosso

VENANZIO GIBILLINI RACCONTA

Nel caos del bombardamento tentammo la fuga dal campo

 

Trasportati da Kottem (Dachau) in una stazione poi attaccata dagli aerei – Ma il sogno di libertà di cinque compagni di sventura svanì ben presto – Bastonati, “esposti” e chiusi in una buca tra acqua e fango – Per fortuna la liberazione era vicina.

 

Tutto cominciò all’alba. Dopo il solito, estenuante appello del mattino, formarono un kommando di circa 50 prigionieri. Da Kottem (sottocampo di Dachau) ci condussero alla stazione di Kempten e ci stiparono su un carro bestiame con destinazione Mimmingen. In quei giorni di fine aprile del 1945, la fabbrica in cui solitamente lavoravamo (aerei Messerschmitt) era stata bombardata e pertanto eravamo disponibili per qualsiasi altro lavoro, il più delle volte si trattava di lavori di sterro. Quel kommando doveva rimuovere le macerie sulla massicciata ferroviaria, sinistrata dai bombardamenti dei giorni precedenti nei pressi della stazione di Mimmingen. Il viaggio durò circa un’ora. Entrammo in stazione contemporaneamente al suono delle sirene che segnalavano lo stato d’allarme aereo. Pochi minuti dopo il suono cambiò il divenne il segnale di acuto allarme. In un baleno ci trovammo sotto un bombardamento a tappeto. Nel fuggi fuggi generale in cerca di ripari, anche gli SS e i kapò erano spariti. Non vedendo più quei malvagi guardiani, a Eugenio, Selmi e a me balenò l’idea di tentare la fuga. E mentre il bombardamento infuriava ci allontanammo dalla stazione verso la campagna. A noi si aggregarono anche due slavi. Sempre più decisi a fuggire, tutti e cinque continuammo la corsa verso i boschi e le colline circostanti. La giornata era splendida, piena di sole. Mentre scappavamo incontrammo dei lavoratori francesi, tutti ragazzi molto giovani. Quando ci videro arrivare vestiti da “zebrati”, capirono subito le nostre intenzioni. Così “bardati” ci avvertirono che avremmo fatto poca strada: occorrevano dei vestiti “civili”. Poi parlottarono tra loro e ci dissero di aspettarli. Intanto il bombardamento continuava sollevando nel cielo un fumo nero e denso. I ragazzi francesi tornarono con un fagotto che contenevano tute da meccanico e baschetti. Per il travestimento, decidemmo di salire su un colle, per raggiungere un capanno. Avremmo però dovuto passare davanti ad una contadina che aveva portato al pascolo alcune mucche. I ragazzi francesi intuirono un pericolo e, augurandoci buona fortuna, si allontanarono. Noi cinque ci incamminammo verso il capanno, mostrandoci indifferenti per la presenza della contadina, che apparentemente era solo intenta alle sue mansioni. Nel frattempo il bombardamento era cessato. Raggiunto il capanno ci sbarazzammo delle nostre “zebre” rivestendoci con gli abiti civili. Sbirciando attraverso le fessure della baita, ne scoprimmo un’altra poco distante, che giudicammo più sicura. Decidemmo di raggiungerla. Lì contavamo di restare nascosti per tutto il giorno abbandonando il nascondiglio dopo il tramonto. Per la direzione da prendere ci avrebbe orientati il tuonare del cannone, che arrivava dalla zona del fronte. Travestiti con gli indumenti da lavoratori “liberi”, uscimmo dal primo rifugio per raggiungere l’altro capanno, situato leggermente più in alto. Ma all’improvviso sentimmo gridare “Alt!” e, sorpresi vedemmo il sergente del lager con un altro SS dirigersi verso di noi. Quel brusco comando aveva cancellato il nostro sogno di evasione e di libertà. Gli aguzzini erano a pochi metri. Ancora un “Alt!”, poi un po’ titubanti di fronte al nostro abbigliamento, ci domandarono se eravamo dei civili francesi. Noi, impauriti, non rispondemmo. Allora ci chiesero i documenti ordinandoci sbrigativamente anche di toglierci il baschetto: le teste rapate e la “strasse” ci tradirono. Non potevamo in nessun modo smentire la nostra provenienza. Mi riesce difficile ricordare e descrivere quei momenti. Gli aguzzini cominciarono a colpirmi con pugni e calci. Il sergente armato di bastone, si scagliò contro di me. Io cercavo di impietosirlo lamentandomi, ma niente calmò la sua brutalità. Non ricordo come terminò la bastonatura. L’amico Eugenio, che era stato a sua volta bastonato, mi disse in seguito che avevo la testa immersa in un ruscello, e che fu lui ad aiutarmi a riemergere impedendomi di affogare. Gli aguzzini vollero sapere dove avevamo nascosto le nostre divise da galeotti, ci obbligarono a recuperarle ed a indossarle, ma solo parzialmente in modo che fosse, così, più evidente la nostra condizione di fuggiaschi. Ci riportarono in città; ci condussero in un magazzino di alimentari sinistrato dal bombardamento, riempirono di cibarie un carrettino che dovemmo poi spingere. Sempre bastonandoci, e sempre di corsa, ci portarono ancora verso le colline. Il tormento di quella strada in salita non finiva mai. Guai a rallentare il passo, venivamo continuamente colpiti. Arrivammo finalmente davanti ad una villetta, ci fermarono e ci fecero sdraiare in un prato davanti all’ingresso. Dalla villetta, uscì una donna, insieme alla quale le due SS scaricarono il carrettino. Poi i tre si sedettero su una panchina davanti a noi. Probabilmente per loro era il momento del pranzo, così aprirono qualche scatoletta e mangiarono, chiacchierando e ridendo. Noi eravamo sfiniti, affamati, distrutti da quell’interminabile mattinata. Speravamo che si fossero degnati di darci almeno l’avanzo. Invece il sergente preferì gettare le croste di pane alle galline che razzolavano nel giardino. Beati quei pennuti!. Noi contavamo meno di loro. Non ricordo con quale mezzo tornammo nel lager. Ricordo però che quando tornammo era ancora chiaro. Ci schierarono davanti al reticolato, vicino al cancello d’entrata, affinché tutti i prigionieri dei vari kommando che rientravano potessero vederci così conciati. Due militari anziani, facevano da guardiani. Assistemmo all’appello serale dei deportati, invidiandoli perché sarebbero poi tornati nelle baracche. Qualcuno di noi osò chiedere ai due militi quale sarebbe stata la nostra sorte. Con indifferenza ci risposero che, molto probabilmente, saremmo stati fucilati. Eravamo talmente distrutti che la risposta non ci fece paura. Era ormai buio quando vedemmo il comandante del lager allontanarsi dalla Kommandantur. Dove fosse andato quella sera non lo sapemmo mai. Quando tornò con nostra grande sorpresa le SS ci fecero entrare nel campo. Era giunto il momento della punizione, che chiamavano bunker. Fummo portati dietro le baracche dove esisteva una buca sottoterra. Gli aguzzini alzarono un coperchio di ferro, come quelli delle fogne. Scendemmo utilizzando una scaletta, poi sentimmo il coperchio che si chiuse sopra le nostre teste. Eravamo terrorizzati. Dopo qualche interminabile minuto, sentimmo dell’acqua scrosciare. Ci abbracciammo aspettando la nostra sorte. Ad un certo punto l’acqua, che aveva raggiunto il livello di qualche centimetro, cessò di affluire. Ci trovammo nel buio più profondo, bagnati, infreddoliti, bastonati, affamati e inebetiti. Rimanemmo naturalmente in piedi, sempre abbracciati per evitare di cadere addormentati nell’acqua. Così trascorse quell’interminabile notte, fino a quando sentimmo aprirsi il coperchio. La luce del nuovo giorno illuminò la nostra prigione: lo spazio era di pochi metri quadrati totalmente coperti dal fango. L’apertura della buca segnò la fine della punizione. Ricordo perfettamente che era una stupenda mattinata, illuminata da un sole primaverile. Quel tepore ci ristorava, ma cominciai ugualmente a tremare. Era il contrasto tra il tepore che mi rinvigoriva e la notte cupa trascorsa in quella buca umida e fredda. Sono convinto che se la disfatta della Germania non fosse stata vicinissima (qualche giorno dopo infatti sarei stato libero) o se la nostra fuga fosse avvenuta qualche settimana prima, nessuno di noi cinque l’avrebbe raccontata.

Da Triangolo Rosso, dicembre 2002

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