Triangolo rosso
Dal 1939 al 1944 gli esuli della guerra di Spagna furono rinchiusi qui. Per finire a Dachau
Il governo francese internò a Le Vernet repubblicani spagnoli, ebrei e antifascisti
di Pietro Ramella
Le Vernet d’Ariège è un piccolo comune, a metà strada tra Tolosa ed i Pirenei, che non meriterebbe l’interesse degli storici se sul suo territorio non fosse stato istituito un campo che fu, nel corso degli anni, campo d’internamento, di detenzione e di transito per i lager hitleriani. Creato nel giugno 1918, su un vasto appezzamento di terreno distante due chilometri dal paese, come campo d’addestramento per le truppe coloniali, subito dopo trasformato in campo di prigionia per militari tedeschi ed austriaci; quindi, nel periodo tra le due guerre, utilizzato come deposito di materiale militare. Nel febbraio 1939, dato il grave stato d’abbandono, le autorità della Sanità militare dapprima non autorizzarono l’internamento dei repubblicani spagnoli in fuga dalla Catalogna, ma il prefetto, pressato dalla necessità di decongestionare Saint Cyprien ed Argelès sur Mer e di evacuare i campi d’accoglienza sui contrafforti dei Pirenei, ricorse ai competenti ministeri ottenendo l’autorizzazione ad internarvi i novemila anarchici della 26ª Divisione Durruti, che per ultimi avevano lasciato la Spagna.
Il campo si presentò ai miliziani come un’immensa spianata di fango, senza ricoveri, salvo una ventina di baracche in rovina. Sguazzando in questa fanghiglia e tremando di freddo, soprattutto la notte quando la temperatura scendeva a meno 10 gradi, i rifugiati si protessero alla meglio con ripari di fortuna. Ricevettero il loro primo pasto (una pagnotta di pane e l’immancabile scatola di sardine) tre giorni dopo il loro arrivo. I primi lavori consistettero nel recintare di filo spinato il campo e nel costruirvi a fianco un cimitero, che accolse i primi morti. Le croci portavano, oltre i nomi dei sepolti, delle scritte incise con il temperino, come: “Adios, Pedro. I fascisti volevano bruciarti vivo, ma i francesi ti hanno fatto morire di freddo in pace. Perciò viva la democrazia”. Le proteste delle organizzazioni della sinistra portarono ad un miglioramento dell’alimentazione, se non in qualità almeno in quantità. Gli internati avevano diritto ad una bevanda calda, caffé o tè, a delle lenticchie, dei piselli secchi e della pasta e ad una porzione di carne, una volta il giorno, con una pagnotta di pane. Non ebbero mai verdure fresche né zucchero, eccetto quello delle bevande calde; da qui i numerosi casi di scorbuto e di avitaminosi. L’amministrazione non fornì piatti e posate, cosicché gli internati utilizzarono delle vecchie scatole di conserva per sostituire le prime e fabbricarono cucchiai e forchette di legno per mangiare. La mancanza d’igiene favorì lo sviluppo dei parassiti, i rifugiati furono infestati da pulci e pidocchi, molti contrassero la scabbia o altre malattie della pelle. Altra gravissima mancanza fu quella sanitaria, il campo all’inizio non aveva alcuna struttura per ricoverare malati o feriti. Soltanto nel mese di maggio iniziò la costruzione di quaranta baracche, nove delle quali furono riservate all’ospedale-infermeria. La bonifica del terreno e le sistemazioni di prima necessità (acquedotto, servizi igienici, cucine, illuminazione) furono opera degli internati, così “da procurare loro un diversivo con il lavoro”. Le infrazioni alla rigida disciplina del campo erano duramente punite con soggiorni negli Hippodrome o Picadero, dove la pena consisteva nell’obbligo di restare in piedi con le mani legate dietro la schiena, qualsiasi fossero le condizioni atmosferiche e la durata della punizione. Era inoltre vietato introdurre cibo, sigarette e coperte. Una volta scontata la punizione, l’internato poteva, a discrezione del comandante del campo, essere mandato alla prigione di Perpignano al castello di Collioure. A seguito dell’inumano trattamento, protrattosi per oltre venti giorni, due condannati morirono, l’organizzazione interna degli internati decise di intervenire e alla successiva punizione iniziò un movimento di protesta che coinvolse tutto il campo, per cui il comandante fu obbligato a mettere fine al supplizio.
Questi “indesiderabili” forza lavoro per i militari
Consci della forza del numero, le agitazioni si moltiplicarono per contrastare le brutalità ed angherie quotidiane. Tale stato di cose spingeva molti rifugiati ad evadere; tra aprile e giugno si stima che fuggirono in media tre o quattro internati al giorno. I rischi e le scarse possibilità di successo non li dissuadevano dal tentare la fuga perché, anche se erano ripresi, erano tradotti davanti al tribunale di Foix che, di regola, li condannava ad un mese di carcere da scontare nel penitenziario locale, che i reclusi preferivano al campo di Le Vernet d’Ariège. Ogni giorno si facevano quattro appelli per accertare prontamente eventuali evasioni. Gli internati erano tenuti a fare il saluto militare quando incontravano un ufficiale o a togliersi il cappello alla presenza di una guardia. Una volta la settimana gli occupanti d’ogni baracca dovevano assistere inquadrati all’alzabandiera; era questa una corvé quanto mai fastidiosa e ridicola per gli anarchici, ma poiché gli internati per la maggior parte erano catalani e nella loro lingua la parola drap (bandiera in francese) significava straccio, malignamente affermavano di andare a salutare lo straccio francese. Il governo una volta constatata l’impossibilità di liberarsi di questi indesiderabili promulgò una serie di disposizioni per regolamentarne l’utilizzo in lavori utili alla comunità: impiego nell’industria o nell’agricoltura ma soprattutto in lavori alla Linea Maginot, dove furono impiegate la maggior parte delle 220 Compagnies de travailleurs étrangers (250 uomini militarizzati agli ordini d’ufficiali francesi) di recente costituzione. Considerati anche quanti erano partiti per l’America o rientrati in Spagna, nei campi erano rimasti duecento spagnoli tra “indesiderabili malati cronici o invalidi” oltre ai centosettanta della C.T.E. incaricata dei lavori di sistemazione del campo.
La Francia entra in guerra
La Francia, nel frattempo entrata in guerra contro la Germania, decretò l’internamento dei tedeschi residenti in Francia, dei sospetti, degli apatrides e degli stranieri soggetti a misura d’espulsione. Tra i sospetti erano compresi soprattutto i comunisti, per effetto del patto di non aggressione firmato tra Germania ed Unione Sovietica il 23 agosto 1939 patto che aveva determinato lo scioglimento del Partito comunista francese e l’arresto dei suoi membri. Gli elementi definiti dangereux furono rastrellati in tutta la Francia; a Parigi vennero concentrati nel complesso del Roland Garros, prova generale della ben più tragica retata del Velodromo d’Inverno del 16/17 luglio 1942, caricati su vagoni di terza classe, agganciati ai normali treni di linea e portati a Le Vernet, dove i primi arrivarono il 12 ottobre. Era l’inizio della politica d’esclusione che avrebbe toccato il massimo con il regime di Vichy. I giornali francesi li definirono “la schiuma della terra”, espressione utilizzata da Arthur Koestler, che sarà “ospite” del campo per circa tre mesi, come titolo del libro in cui racconterà la sua esperienza, di cui riportiamo qui sopra un brano. Numerose personalità intellettuali, artistiche e politiche vi furono internate tanto che il campo fu definito, una delle capitali intellettuali della Resistenza europea. Le vie d’uscita erano o accettare di lavorare per i tedeschi nell’Organizzazione Todt e poi evadere o fuggire direttamente dal campo. Tedeschi ed italiani – e questa è una delle pagine più nere della storia di Francia – vennero consegnati ai rispettivi governi e se per i secondi si trattò in massima parte di venire confinati a Ventotene (oltre 750 reduci della guerra di Spagna finirono al confino nelle isole italiane), i primi conobbero la terribile esperienza dei campi di sterminio, dove diversi morirono. Il governo francese non fece che dare seguito a quanto stabilito nell’articolo 19 della Convenzione d’armistizio, ma avrebbe potuto aggirare tale disposizione trasferendo i prigionieri ai campi dell’Africa del nord, anzi fornì alla Gestapo l’elenco aggiornato degli internati.
Tutti internati nel campo
Troppo lungo sarebbe elencare le personalità politiche che transitarono per il campo. Voglio ricordare tra gli italiani Luigi Longo, Leo Valiani, Giorgio Braccialarghe, Felice Platone, Francesco Fausto Nitti, Eugenio Reale. Gli intellettuali furono i protagonisti dell’animazione culturale del campo (corsi d’istruzione pubblici, letture commentate, rappresentazioni teatrali, tavole rotonde) e lasciarono memorie agghiaccianti della vita nel campo. Tra questi, oltre al prima citato Arthur Koestler, Max Aub, Friedrich Wolf, Gustav Regler, e altri. Dal campo uscirono clandestinamente poemi, romanzi, opere teatrali, che, diffusi nel mondo libero, impressionarono l’opinione pubblica contribuendo così ad attirare l’attenzione sulla vita nei campi di concentramento francesi. Nel giugno del 1940, per la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia, vi furono internati anche un migliaio d’elementi fascisti residenti nell’Exagone, associati delle cosiddette “Case del fascio”. Le autorità francesi dimostrarono un’assurda indifferenza accomunando nelle stesse baracche i seguaci del Duce e i reduci delle Brigate internazionali. Coabitazione che durò poco più di un mese, perché per effetto dell’avvenuto armistizio tra la Francia e l’Italia i fascisti vennero liberati il 17 luglio 1940. Altri internati particolari furono i russi bianchi arrivati tra il maggio del 1940 e il giugno del 1941. Si trattava di membri d’organizzazioni monarchiche russe, ferocemente anticomunisti che si erano dichiarati a favore degli alleati contro Hitler. Dal 1942 il campo cominciò ad accogliere ebrei francesi e stranieri rastrellati nei dipartimenti dei Pirenei, maquisards, guerrilleros spagnoli e membri delle reti di spionaggio e di passaggio dei Pirenei. Molti degli antinazisti evasero grazie ad una rete di favoreggiatori esterna che forniva documenti, mezzi di trasporto, denaro e contatti con la Resistenza. Per molti ebrei invece il campo fu solo una sosta di transito per i campi di Compiegne o di Drancy, da dove poi erano avviati in Germania.
L’intervento della Croce Rossa svizzera per salvare i ragazzi
Da Le Vernet dal 1942 al 1944 partirono direttamente per Auschwitz e Dachau nove convogli (n. 18, 19, 21, 28, 29, 30, 31, 64, 65) dei 696 partiti per “destinazione ignota” dal 1941 al 1944, carichi di 75.000 ebrei ed 81.000 resistenti. In un caso la Croce Rossa svizzera riuscì a salvare una quarantina di ragazzi internati nel campo per essere deportati. Nel 1940 l’Organizzazione di Soccorso ai ragazzi della Croce Rossa svizzera aveva raccolto in Belgio novanta ragazzi ebrei, tedeschi ed austriaci, che al momento dell’invasione tedesca del 1940 erano stati trasferiti in Francia a Seyre (Haute-Garonne) e poi nel febbraio 1941 a La Hille (Ariège). Il 27 agosto 1942 quaranta giovani di età superiore ai sedici anni furono arrestati per ordine del prefetto e la sera stessa condotti a Le Vernet. Immediatamente il direttore della Croce Rossa svizzera, Maurice Dubois, partì per Vichy, mentre sua moglie andava a Berna. L’intervento a Vichy riuscì a fermare la partenza dei giovani per la deportazione, mentre la signora Dubois chiedeva l’intervento del governo svizzero in quanto i giovani di Le Hille erano sotto la protezione elvetica. Le autorità svizzere minacciarono la Germania di non accogliere soldati tedeschi feriti o malati se i giovani non fossero stati rilasciati. Il 2 settembre 1942 i giovani furono liberati, per intervento diretto di Hitler, e ritornarono a Le Hille. Tutti gli internati validi, non ebrei, vennero a più riprese ingaggiati nell’Organizzazione Todt, tanto che a fine maggio 1944 nel campo non restavano che alcune centinaia di uomini non adatti ai lavori pesanti in quanto vecchi, malati od invalidi, tra questi diversi mutilati della guerra di Spagna. In quel mese erano partiti “per l’Est” gli ultimi ebrei mentre gli spagnoli validi erano stati trasferiti al lager di Nordeney nell’isola anglo-normanna di Aurigny.
La partenza del treno fantasma, 54 giorni per arrivare a Dachau
Il 15 giugno i tedeschi occuparono il campo ed il 30 deportarono i quattrocento internati rimasti con quello che passò alla storia come il train fanthôme, da cui molti riuscirono ad evadere, tra gli altri Francesco Fausto Nitti, ex comandante di battaglione nella guerra di Spagna, arrestato e condannato per appartenenza alla Resistenza francese, che racconterà la sua avventura in “Cheveaux 8 – Hommes 70”. Il treno partito da Tolosa il 2 luglio 1944 arriverà, dopo ben 54 giorni di peripezie attraverso mezza Francia a Dachau il 25 agosto ma avrà perduto lungo il tragitto circa un quarto dei suoi originari viaggiatori, alcuni vittime di mitragliamenti aerei, ma oltre un centinaio evasi in situazioni diverse. Il 15 agosto il campo ormai vuoto viene occupato dal maquis e diventa campo di prigionia per i soldati tedeschi e della Legione del Turkestan. L’ultimo comandante, che per uno strano gioco del destino era l’omonimo del campo (si chiamava, infatti, Vernet), fu arrestato dopo la Liberazione, ma venne successivamente liberato per avere come tanti altri funzionari di Vichy “non aver manifestato attività antinazionali” (il caso Papon fa testo in proposito). Tra gli internati originari di 54 nazionalità, c’erano combattenti delle Brigate internazionali, repubblicani spagnoli, stranieri viventi in Francia, rifugiati politici. Alcuni divennero in Francia ed in Europei i responsabili militari di numerosi maquis che lottarono per liberare la loro patria. Altri, artisti e scrittori, impegnati nel loro Paese nella lotta contro il fascismo hanno contribuito durante l’internamento con le loro opere a difendere i Diritti dell’uomo. Tutti hanno aiutato a ristabilire la pace e la democrazia in Europa. Attualmente vi sono ancora 157 tombe delle originarie 213, le cui targhe riportano oltre il nome, la nazionalità del defunto, in maggioranza spagnoli e russi, 17 italiani, poi lo statunitense Eduard Jules Ferrand, il polacco Mathieu Krolak, il cinese Li Tchang Kouang Toung, il finlandese Kossola, l’etiope Tekle Hagos e altri. Per decreto del 1992 del presidente della Repubblica francese Le Vernet rappresenta il Memoriale nazionale dei campi d’internamento in Francia.
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Un piccolo museo, un grande cimitero
Un piccolo ma interessante museo nei locali della Mairie di Le Vernet, voluto dall’Amicale des anciens internés du camp du Vernet d’Ariège, raccoglie documenti, scritti, disegni e libri, mentre un plastico ricostruisce la struttura del campo, di cui non resta che il piccolo cimitero alla cui entrata è stato eretto un monumento dedicato “Alla memoria dei combattenti antifascisti conosciuti e sconosciuti morti per la Libertà dei Popoli”. Una targa ricorda i deportati ebrei, mentre un’altra è dedicata “Alla memoria dei resistenti europei internati al Campo di Vernet d’Ariège dal 1939 al 1944”.
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“La schiuma della terra”:
così Arthur Koestler racconta l’internamento nel campo
Erano in parte gli ultimi mohicani delle Brigate Internazionali, e in parte gli esuli politici di tutti i paesi europei fascisti. La Sûretè che non aveva mai smesso di essere lo strumento della politica di Bonnet e Laval e che dal settembre 1939 aveva la sua bottiglia Vichy pronta per la vendita, decise che la prima cosa da fare nella guerra contro Hitler era di mettere sottochiave gli antinazisti notori. Per far digerire all’opinione pubblica questo pogrom personale della Sûretè fu condita con un venti per cento di malfattori autentici, magnaccia, trafficanti, travestiti ed altri ceffi del mondo equivoco di Montmartre. Ma il restante ottanta per cento che avevano gettato al letamaio era composto da coloro che questa guerra l’avevano iniziata per proprio conto nel 1930 e anche prima; coloro che avevano bevuto l’olio di ricino di Mussolini, e che si erano stesi sui cavalletti della tortura della Siguranza a Bucarest; che si erano seduti sui banchi del ghetto di Lvov e avevano conosciuto le sferze d’acciaio delle SS a Dachau; che avevano stampato volantini clandestini antinazisti a Vienna e Praga e, soprattutto, che avevano combattuto durante il preludio all’Apocalisse in Spagna. Il campo di Le Vernet d’Ariège occupa circa venti ettari. La prima impressione entrandoci era di una massa di filo spinato e ancora di filo spinato. Correva tutt’intorno al campo con triplice recinto e attraverso ad esso in varie direzioni con trincee parallele. Il terreno era arido, pietroso e polveroso quand’era bello, coperto di fango da entrarci fino alle caviglie quando pioveva, gibboso di zolle gelate quando faceva freddo. Le baracche erano costruite con tavole di legno coperte da una specie di carta impermeabile. Ciascuna baracca ospitava duecento uomini, ed era lunga trenta metri e larga cinque. Il mobilio consisteva in quattro ripiani di assi, due inferiori e due superiori, ognuno largo circa due metri, che correvano lungo i due lati lunghi e lasciavano uno stretto passaggio nel mezzo. Tra il ripiano inferiore e superiore c’era uno spazio di circa novanta centimetri, sicché quelli del ripiano inferiore non potevano mai stare in piedi. Per ciascuna fila dormivano cinquanta uomini con i piedi verso il passaggio. Le file erano divise in dieci scomparti dalle travi di legno che facevano da impalcatura al tetto. Ogni scomparto conteneva cinque uomini ed era largo due metri e mezzo, di modo che ogni persona disponeva per dormire di uno spazio di cinquanta centimetri. Ciò significava che cinque dovevano dormire di fianco, nella stessa direzione, e se uno si voltava dovevano voltarsi tutti. Le assi erano coperte di un sottile strato di paglia, e la paglia era l’unico arredamento mobile della baracca. Era, di fatto, una capanna. Non v’erano finestre ma solo pezzi rettangolari segati dalle assi delle pareti e che servivano da imposte.
(Arthur Koestler, Il Mulino, 1989)
Da Triangolo Rosso, dicembre 2002