Triangolo rosso

Le memorie di Damira Titonel pubblicate a cura dell’Università di Bordeaux

Le nostre storie Una ragazza trevigiana di una famiglia di emigrati

Dalla Resistenza francese al campo di Ravensbruck

 

di Bruno Enriotti

 

La lettura del libro di Damira Titonel (La libertà va conquistata - Un’emigrata trevigiana nella Resistenza francese) proprio nei giorni in cui la città di Treviso è all’attenzione del nostro Paese (e del mondo) per la barbara attività del sindaco leghista Gentilini, nemico giurato dei lavoratori extracomunitari senza casa ci riporta di colpo ad un’altra Treviso, a un’altra Italia. Un’Italia poverissima e antifascista, costretta ad immigrare, la cui memoria ci aiuta ancor oggi a non subire quei “mutamenti genetici” che spingono a schierarsi dalla parte del disimpegno, del qualunquismo politico, del disprezzo di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini che hanno avuto la sventura di nascere nella parte più povera del mondo.

Damira Titonel nasce in un paese povero, dal quale si fugge alla ricerca di un lavoro più sicuro. Quando la sua famiglia, nel 1925, lascia il suo paese – Refrontolo in provincia di Treviso – Damira non ha ancora due anni. I Titonel, oltre ad essere poveri, sono anche orgogliosamente socialisti e vanno a lavorare come contadini nel sud-ovest della Francia, nel paese di Monclar d’Agenais. Una zona – nel Lot - et - Garonne – a forte immigrazione italiana, come ci illustra Carmela Maltone dell’Università di Bordeaux in un saggio che accompagna il libro della Titonel e di cui pubblichiamo nelle pagine seguenti alcuni passi. Il racconto di Damira si divide in due parti. La prima è la storia della sua infanzia, della difficoltà che incontra la sua famiglia – padre, madre, nonno, tre figli – ad inserirsi in una realtà tanto diversa da quella trevigiana, dove tutto è più difficile, a cominciare dalla lingua che se per gli adulti è un ostacolo sormontabile solo con tanta fatica, per i bambini diventa invece rapidamente il parlare di tutti i giorni, subito usato coi compagni di giochi. E proprio i bambini si faranno maestri dei genitori. I suoi ricordi più netti sono legati soprattutto alla miseria, una condizione esistenziale che non era rimasta nel Trevigiano (“Eravamo poverissimi – scrive – tanto che quando nel 1928 è nato mio fratello Armand, io avevo dunque cinque anni, non potevamo comprare nemmeno un po’ di zucchero”), e ai frequenti discorsi degli adulti contro Mussolini, ad indicare quanto fosse diffuso l’antifascismo fra gli italiani della zona. Proprio per il suo antifascismo il padre di Damira verrà aggredito e percosso dalle Croci di Fuoco, l’organizzazione dell’estrema destra francese. Damira cresce e si sposa con un italiano di origini bergamasche, entrando in un mondo che le era estraneo. “Mio marito era un uomo di cultura molto diversa dalla nostra – racconta – forse perché mio padre era socialista e quindi aveva delle idee più avanzate. Mio marito ha sempre dato del voi ai genitori e anch’io dovevo usare il voi con loro e non dovevo parlare quando parlavano gli uomini. A casa dei miei non era così. Le nostre madri erano entrambe credenti ma a me sembrava che non credessero nella stessa religione, tanto era diversa la loro maniera di praticarla”. Damira continua comunque a difendere le sue idee e gradatamente anche il marito le fa proprie e con queste idee allevano i loro figli. Con l’occupazione della Francia da parte dei nazisti, i fratelli Titonel entrano nella Resistenza. Damira si unisce a loro nella 35a Brigata FTP-MOI (Francs-Tireurs-Partisans Main d’Oeuvres Immigrèes) che prenderà poi il nome di Marcel Langer, il primo comandante arrestato e ghigliottinato dai nazisti. Dapprima le affidano quelli che Damira chiama “piccoli compiti”: attaccare di notte manifestini, diffondere stampa clandestina; poi passa ad un ruolo di maggiore responsabilità e diventa una staffetta che tiene i collegamenti con i diversi gruppi di partigiani. Cade nelle mani dei nazisti nel corso di una di queste missioni. Viene percossa, torturata e a lungo incarcerata. È rinchiusa con altre sue sei compagne: due rumene, un’olandese, una francese, una polacca e una fiamminga e lei italiana. Quando il direttore del carcere entra nella cella e dice ironico “Questa è la Società delle Nazioni”, Damira ribatte pronta “Nossignore, è l’Internazionale”. Deportata nel campo di concentramento di Ravensbruck, Damira vi rimane fino all’arrivo dell’Armata Rossa subendo con le altre migliaia di deportate oltre alle privazioni, le angherie più umilianti per una giovane donna. Il ritorno a casa è festoso (padre Titonel come nella parabola biblica uccide il vitello più grasso) e al tempo stesso doloroso per i tanti compagni che sono caduti. Damira Titonel continua anche nella Francia liberata il suo impegno politico (presidente di una associazione partigiana, consigliere comunale del Pcf nel suo Paese) anche quando, avendo chiesto la licenza per aprire una piccola tabaccheria, si sente rispondere che potrà averla solo se smetterà di fare politica. Quella di Damira è una vita esemplare e significativamente al suo libro – edito in Francia a cura dell’Università di Bordeaux con il titolo Ecrire pour les autres e in Italia su iniziativa dell’Istituto per la storia della Resistenza della Marca Trevigiana – è stata aggiunto una commovente memoria di Franca Trentin (sorella di Bruno e figlia del prof. Silvio, emigrato in Francia dopo aver dovuto lasciare la cattedra universitaria per essersi rifiutato di giurare fedeltà al fascismo). Franca e Damira appartengono a mondi socialmente diversi, ma intimamente accomunati dagli stessi ideali. Senza mai essersi conosciute hanno operato nella stessa zona, hanno combattuto le stesse battaglie, hanno dimostrato in tempi difficilissimi quale sia stato il valore della parte migliore dei nostri immigrati in terra di Francia.

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Franca Trentin

“COSÌ UGUALI E COSÌ DIVERSE”

 

Damira Titonel, l’autrice di questo diario, è legata a me – e non me l’aspettavo – da molte similitudini di situazioni: stesso periodo dell’arrivo in Francia, 1925-1926: eravamo molto piccole l’una e l’altra, io del dicembre 1919, lei del luglio 1923. Abbiamo lasciato le stesse terre, molto vicine. Venezia, Treviso, Conegliano, nessuno ci ha chiesto nulla, i nostri padri avevano deciso così, erano antifascisti e perseguitati, ed era giusto che non fossimo separati. E noi – anche questo ci univa – eravamo fiere di loro, del loro coraggio, della loro abnegazione, anche se questo significava miseria, difficoltà. E siamo approdate nella stessa zona di Francia, vicinissime, nel sud-ovest, io ad Auch e a Tolosa, lei in cittadine più piccole. Forse avremmo potuto sfiorarci, soprattutto alla stazione di Tolosa che frequentavo spesso, la Gare Matabiau, dove Damira venne arrestata per poi essere successivamente deportata nel campo di Ravensbruck, dove vivrà esperienze indicibili. Anch’io sono stata una staffetta come lei, giravo  in bicicletta o nei treni, per trasportare armi, per trasmettere messaggi, abbiamo l’una e l’altra rischiato molto. Ma, nonostante tutto questo, la nostra vita è stata totalmente diversa. Lei, una contadina poverissima e straniera, isolata nella sua campagna e nei lavori umili e urgenti che la famiglia richiedeva, con un’ossessione primaria: riuscire a far mangiare i bambini. La mia, una vita di una piccola borghese in esilio che doveva solo studiare anche se era povera, era tutta diversa. La rinuncia volontaria di mio padre a un mestiere di prestigio, il professore universitario, la rinuncia volontaria a questo posto rassicurante per scegliere la vita di operaio rappresentava per l’ambiente intellettuale dei francesi un alone di eroismo e di disinteresse che li spingeva a circondarci di premure e di aiuti.

 

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Parla la curatrice del volume

QUANDO DA TREVISO EMIGRAVANO IN FRANCIA

 

Tra Ottocento e Novecento il sud-ovest della Francia, territorio compreso fra l’oceano Atlantico e il Mediterraneo, conosceva un progressivo declino della natalità e un’inesorabile diminuzione della popolazione. Il ripopolamento ad opera di immigrati stranieri di origine latina, ed in particolare italiana, apparve alle autorità e ai proprietari locali il male minore. Tra il 1923 e il 1936, 83.000 contadini italiani, prevalentemente veneti, friulani, lombardi e piemontesi, andarono a ripopolare terre e paesi di quelle regioni. Questo flusso migratorio venne attivato principalmente dalle catene familiari e paesane e ciò spiega il motivo per cui in alcune province del sud-ovest gli emigranti avessero una medesima origine geografica. Gli emigranti arrivati nel Lot-et-Garonne provenivano essenzialmente dal Veneto e dal Friuli e in particolare dall’area geografica collocata tra le province di Treviso e di Udine. Nel 1926, a Monclar d’Agenais , un paesino di collina del Lot - et - Garonne, su 59 emigrati italiani 40 provenivano da Pieve di Soligo, Refrontolo, Follina e San Pietro di Feleto, località quasi limitrofe della provincia di Treviso. Tra questi pionieri vi era la famiglia di Damira Titonel autrice delle testimonianze raccolte nel libro La libertà va conquistata. Il padre di Damira, Cesare Titonel, contadino di Refrontolo (Tv), era partito con tutta la famiglia nel gennaio del 1925, qualche mese dopo l’espatrio del fratello Pietro. I Titonel furono schedati dal Casellario Politico Centrale a partire dal 1928: l’occhiuta polizia fascista li aveva dunque seguiti anche in terra straniera, dopo che, in Italia, avevano dovuto subire, in quanto militanti socialisti, le violenze squadristiche; un’esperienza drammatica che sicuramente ebbe un certo peso nella decisione di partire. La testimonianza di Damira Titonel è anche espressione di un itinerario di integrazione tra i più coinvolgenti e di grande portata simbolica. Damira, al pari di altri giovani emigrati appartenenti alla seconda generazione, entra nella Resistenza con una doppia identità, una ereditata e l’altra acquisita, ma il suo impegno politico la porterà al consolidamento del sentimento di appartenenza alla nazione francese. Esso costituisce il miglior passaporto per sentirsi ed essere considerati francesi. Le posizioni assunte da questa avanguardia di emigranti ebbero, dopo il conflitto, ripercussioni positive sulla ripresa del processo di integrazione dell’intera comunità emigrata.

CARMELA MALTONE

Università di Bordeaux III

Da Triangolo Rosso, dicembre 2002

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