Triangolo rosso

Il tradimento dei suoni nei lager nazisti

Arte e dittatura La musica sfruttata per legittimare l’orrore

 

di Gabriele Manca

 

Nel Trionfo della morte di Pieter Brueghel il Vecchio, uno scheletro timpanista scandisce e ritma, con entusiastica partecipazione, l’avanzata dell’orrida, misera schiera di esseri nudi e inermi, sicure vittime di un inevitabile sterminio. La musica è qui strumento di dolore, espressione di un ferreo rituale, elemento di terrore e insieme di marziale disciplina, di inesorabile ordine.

 

Che la musica sia ordine supremo del caos sono in molti ad averlo detto, del resto l’armonia, come ci ricorda il musicologo Van Vlasselaer, non è forse violenza addomesticata? Non è forse una simultaneità di ordine e conflitto? Non è il dominio del soggetto sull’ordine del mondo? Nell’inferno concentrazionario la musica ha espresso la dualità che le è implicita, tragicamente. Nella affermazione del concetto di musica elevata e spirituale, contrapposta alla musica degenerata (Entartete Musik), voce disarticolata di una umanità depravata e subumana, i nazisti sottolineano proprio questo carattere “tirannico”di affermazione dell’ordine superiore sull’informe e belluino dell’”altra musica”. Ma il nazismo fa di più: la musica non è più solo strumento di propaganda nell’ascesa della razza superiore; la musica diventa arnese di annientamento, attrezzo insanguinato di sterminio. Musica e crimine, come ricorda Paul Celan nella sua Fuga della morte, sono indissolubilmente abbracciati. L’”armonia”, il “bello”, il “sublime” esistono nei Campi in quanto marcatori di differenza, di discriminazione, contro quella umanità azzerata descritta da Primo Levi. La musica scandisce il ritmo della vita dei Lager, accompagna gli internati alle camere a gas, giustifica le atrocità proprio rappresentando la superiorità dello spirito sull’animale, del sublime sull’abbietto, del nobile sul degradato. Per contro, gli stessi nazisti, usano canzoni popolari, melodie ebraiche o canzoni da cabaret come ironica musica di accompagnamento alla ferocia e alla violenza quotidiane.

Usata anche come strumento “anti-panico”

Fania Fenelon racconta della sua esperienza di componente dell’orchestra femminile di Auschwitz, compagine ideata proprio per accompagnare,” rasserenandoli”, i condannati alle camere a gas, con una funzione in parte rituale in parte “anti panico”. La grande importanza data dai nazisti a questo genere di formazioni è dimostrata proprio dal ruolo privilegiato riconosciuto ai membri che ne facevano parte. Essi godevano infatti di diritti impensabili in quei luoghi, come biancheria e abiti puliti, doccia giornaliera e cibo accettabile, per suonare “...musica allegra e leggera per ore, senza interruzione, mentre i nostri occhi seguivano la marcia di migliaia di persone verso le camere a gas e i forni crematori.” Una fotografia scattata a Mauthausen fissa un grottesco e tragico corteo di musicanti, in tenuta a righe verticali e zoccoli di legno, che precede un carretto trainato da due internati sul quale viene trasportato un evaso dal campo, condannato alla forca. L’orchestrina del campo suonava continuamente la canzone J’attendrai ton retour. La messa in scena grottesca aveva in questo caso l’unica funzione di deridere e annientare la dignità del condannato e dei partecipanti alla assurda processione. Molto veniva chiesto a questi musicisti. Dovevano suonare per ore durante gli appelli, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche. E dopo l’appello gli altri internati dovevano raggiungere i lavori loro assegnati, camminando a tempo di marcia; alla sera, poi, tornavano alle baracche, esausti, accolti ancora dall’orchestrina, che, ancora, scandiva il ritmo dei loro passi. La musica era d’obbligo per tutti gli eventi ufficiali, come gli annunci del Lagerführer, o per l’accoglienza giornaliera ai carichi umani di nuova carne da macello. Si doveva dare ai nuovi arrivati l’impressione di essere in un luogo non troppo orribile, nella loro “nuova casa”. E l’orchestra suonava quando le nuove vittime venivano scelte per essere spedite direttamente nelle camere a gas. Si doveva suonare per le temute Selectionen di sani e malati, questi ultimi separati da chi poteva lavorare ancora il giorno successivo. Inoltre, i musicisti dovevano far musica per lo svago e il divertimento dei loro stessi carnefici. Il numero di suicidi tra i musicisti delle orchestre era molto elevato.

Le melodie, uno dei “rituali” del lager

La musica diventa così accompagnamento e forse legittimazione rituale di atrocità incomprensibili anche alle menti più perverse, componente di una scenografia, di una folle messa in scena. La ritualità era un aspetto essenziale nella gestione dei Lager e la musica è di sicuro una componente essenziale ad ogni forma di ritualizzazione. La ritualizzazione ha reso possibili le atrocità nei Campi di concentramento. Ma la musica assume anche, nei campi nazisti, un ruolo di “ormeggio della memoria”, un luogo di ricostituzione della dignità perduta, un mezzo per ritrovare una socialità calpestata dall’angoscia della sopravvivenza. La musica ristabilisce la cooperazione, il rapporto tra i diversi ruoli; ricrea il tessuto intellettuale in persone che hanno come unico scopo la pura esistenza in vita. La musica è il contatto con la normalità, con la vita civile e religiosa, con le passioni, le competenze, le specializzazioni, lo studio, le idee. La musica può esistere anche in assenza di mezzi e di strumenti. Le melodie ebraiche, le canzoni popolari, i motivi più o meno celebri del repertorio classico, aleggiavano di continuo prima nei ghetti, poi nei campi di concentramento e infine nei campi di sterminio. La musica è tempo vissuto e ricreato nel momento dell’ascolto. La musica rinasce, o sopravvive, quasi per autocombustione e diventa presto “l’arte della resistenza spirituale”. Una giovane ebrea greca, che lavorava nella area agricola di Auschwitz, aveva un splendida voce e ogni giorno cantava per i soldati SS. Quando cantava i prigionieri sospendevano il lavoro e per qualche istante entravano in un mondo di serena bellezza. Quando realizzarono che il suo canto sollevava lo spirito degli internati, i nazisti gettarono la ragazza ai cani. Terezin, Theresienstadt in tedesco, località a nord di Praga, fu mostrato nel 1944 a una delegazione della Croce Rossa Internazionale come Campo modello. I prigionieri apparivano in buone condizioni fisiche e ben nutriti, la vita quotidiana ben organizzata, continuamente impegnati in varie occupazioni, intenti a vendere e comprare con una speciale moneta ad uso interno del campo. La vita culturale risultava particolarmente ricca con frequenti concerti di musica classica, spettacoli di cabaret, esecuzioni di musica jazz. Al centro dello spiazzo principale di Terezin era stato allestito un palco per i concerti della banda.

La tragica ironia della messa in scena: a Terezin, prima dello sterminio una grande libertà espressiva

Questo simulacro di città aveva lo scopo di persuadere gli osservatori della infondatezza delle voci sulle atrocità nei campi nazisti. Hitler volle così consegnare al mondo una immagine di città ideale, affidata soprattutto ai prigionieri ebrei, in cui la vita comunitaria, le arti, la cultura e la musica fossero coltivate senza restrizioni né condizionamenti. Ma nonostante non fosse un campo di sterminio come Auschwitz, Terezin, “il ghetto-paradiso”, non offriva condizioni sopportabili. Sovraffollamento, denutrizione situazione igienico-sanitaria infima, rendevano la vita nel Campo insopportabile: dei 140 000 internati, 33 000 morirono di stenti e malattie e 87 000 furono trasportati nei campi di sterminio. A sottolineare la tragica ironia di questa orribile messa in scena, fu proprio la grande libertà culturale e di espressione accordata agli artisti che vi erano internati. Spesso si trattava di musicisti, esecutori, solisti, attori di grande notorietà e livello che avevano la possibilità di esibirsi anche in quel repertorio che “fuori” era considerato degenerato e, perciò, proibito. Pur essendo una tappa del viaggio dei deportati verso l’annientamento,Terezin diventa uno straordinario punto di incontro di artisti di diversa estrazione. L’assoluta inaccessibilità del Campo, la decisione comunque di sterminio presa dai nazisti, l’origine rigorosamente selezionata dei reclusi, fecero di questo luogo un’ isola nella quale soprattutto la musica poteva riprendere il suo corso interrotto. Grazie all’ingegno e alla passione degli artisti internati, si poté ricominciare a scrivere musica, a eseguirla, magari con strumenti costruiti con materiali di recupero, e ad ascoltarla. Dopo la lunga giornata di lavoro ci si poteva dedicare alle attività artistiche nella totale libertà: venivano scritti lavori su temi ebraici, composizioni jazz, pieces di cabaret, opere di “Entartete Musik”: i nazisti appoggiavano e sfruttavano questo rifiorire delle espressioni artistiche, con cinica sapienza, a fini, come si è già detto, puramente propagandistici. Venne girato anche un documentario sulle magnifiche condizioni di vita di questa “cittadella delle arti”. Una delle scene più agghiaccianti di questo film intitolato “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt” (Il Furer dona una città agli ebrei) è l’esecuzione dello Studio per orchestra d’archi di Pavel Haas, seguita da entusiastici applausi del pubblico. La composizione, breve, intensamente contrappuntistica fu composta da questo importante compositore céco, allievo di Janàcek, per l’orchestra d’archi che Karel Ancerl, famoso direttore d’orchestra miracolosamente sopravvissuto, era riuscito a organizzare a Terezin. Pavel Haas morirà ad Auschwitz solo due mesi dopo la realizzazione del film. A Theresienstadt era nata la folle illusione di una vita normale. Altri grandi compositori ripresero a scrivere opere di grande importanza e qualità; stupisce davvero la furiosa vena creativa in una situazione assurda e violenta quale era, nonostante tutto, quella del “ghetto-paradiso”. Oltre al già citato Haas, musicisti di solida carriera, quando non di vero e proprio successo, lavorarono intensamente nei tre anni di vita “artistica” del Campo di Terezin. Victor Ullmann era sicuramente il più famoso. Già allievo di Arnold Schônberg, Ullmann, anche egli céco, scrisse in quegli anni la sua opera più importante, “L’Imperatore di Atlantide”, che sarà però rappresentata solo nel 1975 ad Amsterdam. Nell’opera viene inscenato il combattimento tra l’Imperatore (con ogni probabilità Hitler) e la Morte, protettrice della vita. Anche grazie al bel testo espressionista, scritto dal giovane poeta Peter Kien proprio a Terezin, Ullmann riesce a denunciare l’assurda realtà del Campo, della Germania e del mondo tutto. Victor Ullmann morirà ad Auschwitz nell’ottobre del 1944; dell’agosto dello stesso anno è il suo saggio intitolato Goethe e il Ghetto, scrive tra l’altro: “Theresienstadt è stata, e ancora lo é, maestra di Forma. Prima, quando non sentivamo né l’impatto né il fardello della vita materiale perché attutiti dal benessere, questa magica conquista della Civiltà, ci era facile concepire forme artistiche di una grande bellezza. Ma è qui, a Terezin, dove nella quotidianità ci tocca vincere la materia facendo appello al potere della forma, dove tutto ciò che ha rapporto con le Muse contrasta così straordinariamente con l’ambiente in cui viviamo, che si trova il vero insegnamento dei Maestri. E più avanti dice: “...in nessun modo ci siamo seduti a piangere sulle rive dei fiumi di Babilonia; e che il nostro sforzo per servire rispettosamente le arti è stato proporzionale alla nostra volontà di vivere malgrado tutto.”

I coristi deportati, le repliche interrotte

Attenzione a parte richiedono le esecuzioni della musica di repertorio nel campo di Terezin. Ricorderemo alcune rappresentazioni di opere nella riduzione per pianoforte, con tanto di coro e solisti vocali, come La serva padrona di Pergolesi, Il flauto magico di Mozart, La sposa venduta di Smetana, Il Rigoletto e La Tosca. L’opera per l’infanzia Brundibar, scritta nel 1939 da Hans Krasa, anche egli internato a Terezin, e morto ad Auschwitz nel 1944, fu rappresentata per ben 55 volte dai bambini del Campo. Una scena di questa opera fa parte del già citato documentario “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt”. Il direttore d’orchestra Rafael Schöchter riuscì a eseguire tre volte una versione per soli, coro, harmonium e due pianoforti del Requiem di Verdi. Le repliche dovettero essere interrotte perché la maggior parte dei coristi fu deportata nei campi di sterminio dell’est. I nazisti ebbero certo l’abilità di sfruttare la necessità vitale del fare musica di musicisti professionisti (in un primo momento la musica era rigorosamente proibita e il possesso di uno strumento era punito con la morte anche a Terezin; i primi concerti nel Campo erano perciò clandestini.); tuttavia, probabilmente, non si resero conto di aver innescato una macchina formidabile di resistenza.

Da Triangolo Rosso, luglio 2002

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