Triangolo rosso
La testimonianza di un deportato italiano a Kahla, dove gli schiavi cadevano distrutti dalla fatica e dalla fame
“Avevo 17 anni e vidi mio padre morire di stenti”. La costituzione di una pista d’aerei che avrebbe dovuto far vincere la guerra a Hitler. Una zuppa miserabile per dieci ore di fatica bestiale nel gelo. Poi … apparvero Karl, Anna Bechmann e gli altri
Sette tedeschi, sette esseri umani che ci aiutarono a vivere
di Furio Gabbrielli
“Davanti agli abitanti di Massarosa, il 16 aprile del ‘44, vengono fucilati due giovani ragazzi renitenti alla leva, Domenico Randazzo di Agrigento e Vittorio Monti di Camaiore. In risposta a questo infame gesto, i partigiani Taddei e Bertini prendono d’assalto la caserma dei carabinieri e rapiscono il maresciallo, azione della quale vengono ritenuti responsabili tutti gli abitanti di Massarosa che vengono così rastrellati e deportati in massa.” Tra questi c’era l’autore di questa testimonianza.
Mi ha davvero aiutato, Dio. Anche a tener lontano quel passato che quando ritorna menoma il cervello e la psiche. Dura un momento ma è terribile: rivedo mio padre morente di fame su un pagliericcio pieno di pidocchi, nella baracca dei lager E. Accanto a lui altri morenti di fame, chi scheletrito chi gonfio di nefrite. Io devo lasciarlo in baracca ogni mattina, devo andare a lavorare sulla collina di Walpersberg. Picco e pala per dieci ore, pioggia, vento, neve. Sì, perché io sto ancora in piedi anche se peso trentanove chili alla bilancia dell’infermeria del campo di Grosseutersdorf. Il dottore mi dice che mio padre ed io siamo due lavativi, è già molto che lui permetta a mio padre di restare in baracca. A sera quando rientro non so se è ancora vivo. C’è un fossa comune con calce viva vicino alla baracca, quelli come lui sono tanti. Speriamo che qualcuno mi aiuti a portacelo se è morto. Da solo non ce la farei. Ho diciassette anni. È un dicembre nero e nevoso. A Natale mio padre, gonfio, livido, irriconoscibile, non ha più la forza d’alzarsi. Il dieci gennaio muore. È dal quel giorno del 1945 che mi sforzo di tener lontano quel passato. Per attenuare il trauma. Per restare normale. Ormai ho settant’anni, ci sono quasi riuscito… Dio
mi ha dato una mano.
Agosto 1944 …
Fummo presi nell’agosto del 1944 a Massarosa, presso Lucca (Italia), con pochi panni addosso. Venti giorni più tardi, dopo una sosta a Dachau, eravamo a Kahla, nel lager E, presso il villaggio di Grosseutersdorf. Subito a lavorare sulla collina di Walpersberg. Il clima era mite, avevamo una zuppa a Mittagessen (pranzo) e 300 grammi di pane all’Abendessen (cena), con salame, o margarina o marmellata, qualche volta burro. Tutti eravamo sicuri di sopravvivere, ma sbagliavamo. Già a fine settembre il freddo e i pidocchi cominciavano a mordere. Mancava il tempo di lavarci, e in ogni caso non avevamo né sapone né asciugamano né panni di ricambio. Le docce restavano utilizzate solo dai cucinieri, gli infermieri e i guardiani del campo.
…ottobre...
A ottobre la buona zuppa di Mittagessen fu abolita, ce ne davamo una alle sei del mattino, acqua e rape, una zuppa miserabile che ci dava un terribile Durchfall (diarrea). Con quelle poche calorie in corpo marciavamo per sei chilometri sotto la sorveglianza di uomini armati per andare a lavorare sul cantiere di Walpersberg; per dieci ore, con una sosta di mezz’ora a mezzogiorno per permettere ai guardiani di mangiare qualcosa. A sera sul cantiere ci restituivano l’Ausweis (tesserino) e ci davano l’Abendessen Karte (il tagliando per la cena). Con quel cartellino miracoloso in tasca ritornavamo nel lager E senza alcuna sorveglianza. I guardiani erano sicurissimi che saremmo andati di buon passo alla cucina del lager per aver la cosa che più desideravamo al mondo: una zuppa un po’ sostanziosa, con qualche bella patata. A volte al posto della zuppa c’era un bel pezzo di pane di 300 grammi con un po’margarina o di burro. Ma a metà ottobre la razione di pane passò da 300 a 150 grammi. Mio padre ed io non avemmo mai la fortuna di lavorare negli Stollen (sotterranei) al riparo dal maltempo. Durante le dodici ore di vita all’aperto prendevamo tutto quello che cadeva dal cielo. L’indomani mattina indossavamo i panni bagnati.
...novembre...
A novembre il freddo divenne intenso, ci dettero guanti e mutande lunghe, ma molti di noi cominciarono ad ammalarsi. Il dottore dell’infermeria dava al massimo due giorni di riposo per i più gravi. E da parte sua, il Lagerführer (capocampo) intervenne subito contro i Drückeberger (simulatori, lavativi); chi si dava per malato e restava nel campo avrebbe preso soltanto Halb Portion (mezza razione) del cibo. E fece scrivere sulle baracche in molte lingue «Chi non lavora non mangia». Tra i malati c’era chi andava a lavorare per non morire di fame, spesso qualcuno di loro cadeva di sfinimento durante le ore di lavoro. Solo se moriva sotto gli occhi dei guardiani la sua morte veniva registrata perché il guardiano aveva l’Ausweiss del morto, con nome e foto. Quando invece cadeva e moriva dopo il lavoro, sul sentiero che riconduceva al lager, la sua morte restava spesso sconosciuta, qualcuno infatti si precipitava sul morto o sul moribondo per impossessarsi del suo Ausweis e soprattutto del suo Abendessen Karte per avere due zuppe. Quando il giorno dopo passava la squadra che raccoglieva i cadaveri essa raccoglieva un morto senza nome. Eravamo più d’un migliaio nel solo lager E di Grosseutersdorf.
...dicembre, gennaio...
Nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio i morti aumentavano. Chi non riusciva più ad alzarsi la mattina per andare a lavorare era praticamente alla fine dei suoi giorni. Avveniva che qualche guardiano facesse dello zelo: quando uno di noi cadeva sul cantiere, si prendeva subito una scarica di legnate. Il guardiano voleva assicurarsi che non si trattava di un simulatore. I nostri guardiani erano quasi tutti civili sui sessant’anni e oltre. Ben pasciuti, ben vestiti, ben rasati, con baffi curati, talvolta anche d’aspetto signorile. Ma questo non impediva loro di bastonarci quando lavoravamo fiaccamente. Il più forte picchiatore di tutti era il gran capo, l’ingegnere, un uomo d’una quarantina d’anni, coi denti incisivi prominenti, sempre vestito di nero. Lui voleva mostrare ai guardiani come si trattavano gli Untermenschen (i sottouomini, gli esseri inferiori). Tali infatti eravamo per sporcizia e debolezza fisica. Mi sono domandato tante volte come avveniva che gli uomini d’aspetto così civile potessero mettere tanto zelo in un lavoro che richiedeva di essere tanto bestiale. L’unica spiegazione che mi davo era che questi uomini si erano lasciati robotizzare dalla propaganda perché non avevano avuto il coraggio di reagire alla propaganda stessa. Insomma, erano dei codardi. Ed estendevo questo giudizio a tutti i tedeschi. Dovetti ricredermi quando incontrai Karl e Anna Bechmann, di Kahla. Una mattina la mia squadra fu mandata alla stazione ferroviaria di Kahla per scaricare longarine di ferro dai vagoni e ricaricarle su camion. Dieci ore di questo lavoro senza mangiare sotto una pioggerella freddissima di dicembre. A sera, quando attraversavamo Kahla per rientrare al lager con il nostro miracoloso Abendessen Karte mi sentii mancare le forze. Mi appoggiai a una staccionata di legno presso il cimitero, non so per quanti minuti. I miei compagni mi abbandonarono, avevano troppa fame per occuparsi di me. D’un tratto comparvero davanti a me un uomo e una donna lei un po’più alta, con una grande capigliatura bianca. C’era un po’ di luna, vedevo che mi stavano guardando. Mi avvicinarono, per guardami meglio. «Oh… so jung…» (oh, così giovane) disse lei. La voce era piena di pietà. «Wie alt bis du?» (quanti anni hai?) chiese lui. «Siebzehn», (diciassette) risposi. Mi sembrava un miracolo. Era la prima volta che vedevo dei tedeschi provare pietà. Ciò mi dava forza e lucidità, il mio tedesco diventava efficace, rispondevo a tutto, dicevo chi ero, che i miei compagni mi avevano abbandonato che avevo il mio Abendessen Karte in tasca, che in baracca mi aspettava la zuppa, che pure mio padre mi aspettava… se era ancora vivo. La signora dai capelli bianchi mi disse allora che il suo nome era Bechmann che abitava a Rollestrasse 15, che voleva darmi da mangiare… «Bitte komme. vergiss nicht…» (vieni, non dimenticare) anche domani… Il marito annuiva. Raggiunsi il lager in un baleno, mangiai la mia zuppa, andai alle docce, mi grattai un po’ di sporcizia dalla faccia e dal collo. L’indomani sera da Walpersberg mi precipitai a Kahla, Rollestrasse 15. Frau Bechmann e suo marito mi accolsero con un amorevole sorriso. Mangiai. Due giorni dopo stessa operazione… e poi di nuovo. Mio padre morì il dieci gennaio, ma prima di morire ebbe la certezza che almeno per il momento io non sarei morto di fame. Fu, credo, la più grande gioia della sua vita. Gliela avevano data Karl e Anna Bechmann. Loro non si erano lasciati robotizzare. Avevano conservato il coraggio di avere pietà e di disubbidire a un regime che li voleva crudeli. I Bechmann stavano rischiando ma erano decisi a fare di tutto per salvarmi. Un giorno mi dissero « I vicini si sono accorti che vieni spesso qui… è pericoloso… per un paio di settimane non farti più vedere… vai da Frau Fanny Herzer, ti spetta, ho già parlato con sua figlia Rosemarie… ti daranno da mangiare loro… poi torna a trovarci…» Frau Herzer abitava a Bibraer Strasse con figlia e genitori. A due passi da Walpersberg, facile raggiungerla. Sapevano già tutto di me. A loro si unì frau Hannemann, vicina di casa e parente. Mangiavo da loro anche tre volte la settimana. Poi presi a fare la spola tra loro e i Bechmann. Il miracolo continuava e io stavo fiorendo. Quando arrivarono gli americani ero un diciottenne dall’aspetto quasi normale. Nella baracca del lager, i miei compagni sopravvissuti erano meno della metà, sembravano larve. Karl e Anna Bechmann, frau Hannemann, frau Herzer coi genitori e la figlia Rosemarie. Sette esseri umani che conservarono il coraggio di restare umani in un periodo in cui ai tedeschi si chiedeva di essere inumani. Il mio giudizio su tutti i tedeschi è sempre stato condizionato da queste sole sette persone.
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L’orrore del campo nel libro di un giovane storico
A Kahla, in mezzo ai boschi della Turingia, nel 1944-45 i tedeschi costruivano una pista di lancio per aerei tanto “speciali” che avrebbero dovuto far vincere la guerra a Hitler. Nei boschi c’erano un centinaio di campi di concentramento e in essi varie migliaia di deportati, riserva inesauribile di schiavi. Un giovane professore tedesco di storia, Willy Schilling, nel corso di una ricerca d’archivio scoprì documenti che provavano che quei campi detti «di lavoro» erano, in verità, campi di sterminio: infatti il 63% della mano d’opera vi figurava morta di fame. Un suo libro intitolato “Kahla”, sulla storia della città del 1919 al 1949, Geiger editori, stampato a Horb sul Necker, ha avuto successo fin dalla prima edizione. Successivamente l’autore venne informato che un sopravvissuto italiano, Furio Gabbrielli, poteva testimoniare la condizione disumana cui erano costretti i deportati. Willy Schilling gli chiese - qualche anno fa - una testimonianza “diretta e soggettiva”. Testimonianza che è apparsa nella terza edizione del libro, tradotta in tedesco alle pagine 141-145, che pubblichiamo nel testo originale in italiano.
Da Triangolo Rosso, luglio 2002