Triangolo rosso

La testimonianza di una sopravvissuta allo sterminio

Terezin I disegni del ghetto

Carta e pastello mentre se ne andava l’infanzia 

 

di Pietro Ramella

 

Theresienstadt (in ceco, Terezin) nella Repubblica Ceca, è a poco più di 60 chilometri a nord di Praga. La città fu trasformata nel 1780 in una fortificazione militare, chiamata con il nome dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa d’Asburgo. Theresienstadt era costituita dalla Fortezza Grande dove erano alloggiati i soldati, dalla Fortezza Piccola destinata a prigione di avversari politici o prigionieri di guerra e da un certo numero di case civili e negozi. Con lo scoppio della guerra, la Germania occupò questa parte della Cecoslovacchia; e dal giugno 1940 i nazisti usarono la Fortezza Piccola per torturare ed uccidere ebrei e oppositori. Nel novembre 1941, fecero della fortezza Grande una “Colonia ufficiale ebrea”, in realtà un campo di concentramento, prima per gli ebrei di Boemia e Moravia, in seguito per quelli di mezza Europa. Compresi dei vecchi ebrei tedeschi, cui i nazisti avevano promesso una “casa di ritiro di stato” quando avessero terminato il periodo di deportazione. Dal ‘41 al ‘45, furono deportati a Terezin circa 140.000 ebrei, 35.000 vi morirono per le inumane condizioni di vita – fame, malattie e terrore. Con il tempo, Terezin divenne una specie di campo di raduno, un’orribile stazione di trasferimento ad Auschwitz ed ai vari lager di sterminio dell’Europa dell’Est, dove morirono in ottantamila. La disumana esperienza non fu risparmiata ai bambini ebrei di ogni età. Subito dopo il loro arrivo nel campo, venivano loro vietati scuola, trasporti pubblici, piscine pubbliche, campi sportivi. Portando la stella gialla di Davide essi dovevano immediatamente capire di essere degli esclusi. Terezin fu la stazione di trasferimento di 15.000 bambini sotto i 15 anni. Il registro ufficiale del campo mostra una media di circa 3.000 sempre presenti. Il numero variò da 2.700 (luglio ‘42, maggio ‘44), a 3.900 nel luglio ‘43. Considerando il numero di 1.600 prima della fine della guerra nell’aprile 1945, la popolazione di 800 bambini nell’ottobre 1944, sembra eccezionalmente bassa. Dietro questo numero c’è la probabilità che a settembre ed ottobre di quell’anno ci sia stata una deportazione massiccia ad Auschwitz. Novemila bambini, soprattutto verso la fine della guerra, furono infatti trasferiti da Terezin ai campi della morte. Tra questi 1.200 quasi tutti orfani da Bialystok, (Polonia), arrivati nell’agosto 1943, per i quali era stato detto che sarebbero serviti come ostaggi in eventuali negoziati con gli alleati. Nonostante la situazione senza speranza – o proprio a causa di questa – i maggiorenti ebrei in Terezin riservavano speciali attenzioni ai bambini e ai giovani. Secondo le statistiche dal dicembre 1942, circa 2.000 dei 3.500 bambini vissero in “case” dentro al campo, mentre altri restarono con i genitori od altri parenti. Dei 15.000 bambini portati a Terezin e più tardi deportati ad Auschwitz, solo 100 sopravvissero. Tra di essi Helga Weissova. Era nata il 10 novembre 1929, a Praga, dove suo padre Otto Weiss, lavorava come impiegato alla banca di stato e la madre, Irena Fuchsova, era sarta. Un mese dopo il suo tredicesimo compleanno, il 10 dicembre 1941, fu deportata insieme ai genitori nel ghetto di Terezin con uno dei primi trasporti e vi rimase per circa tre anni. In seguito fu trasferita ad Auschwitz, Freiberg e Mauthausen, dove fu liberata nel maggio 1945 dagli americani. Il padre era morto e lei ritornò a Praga con la madre. Ha studiato all’Accademia delle Belle Arti ed è un’artista professionista. I suoi lavori sono apprezzati in tutto il mondo. Nel 1954 ha sposato il musicista Jirì Hosek e dalla loro unione sono nati due figli. Ora ha tre nipotini. I lavori artistici su Terezin sono una testimonianza della sua crudele e sofferta esperienza. Guerra e deportazione rappresentano infatti un tema che ha accompagnato una vita intera influenzando la sua creatività.

Un libro racconta... “Descrivi ciò che vedi”

L’artista spiega nel libro “Zeichne, was du sieshst” (“Disegna ciò che vedi” – Wallstein Verlag, Gottingen, 1998, pp. 168), l’origine del suo impegno artistico. “Disegna, ciò che vedi”, fu il consiglio di mio padre quando io gli mostrai di nascosto, nella baracca degli uomini, il disegno dei bambini che facevano un pupazzo di neve. Quel pupazzo di neve fu, in effetti il mio ultimo genuino disegno come bambina. A causa della frase di mio padre e per una mia motivazione interna, sentii il dovere da allora di catturare nei miei disegni la vita di ogni giorno nel ghetto. Avevo la sensazione che da quel momento finiva la mia infanzia. Io disegnai molto nella “casa delle ragazze” L410, dove il mio posto era a mezzo di tre piani di cuccette alla finestra con una vista sulla strada. Con il blocco sulle ginocchia disegnai da questa cuccetta ogni cosa che vidi. Feci solo alcuni piccoli disegni fuori, disegni a matita, alcuni delle strade e dei cortili delle baracche. “Un blocco, una scatola di acquerelli, colori e matite”, ricorda Helga,” “erano nel mio bagaglio nel viaggio a Theresienstadt. I colori mi durarono per circa tre anni. I primi disegni sono fatti su carta di buona qualità, che avevo portata da casa, più tardi usai qualsiasi carta sono riuscita a trovare. Ho fatto circa 100 disegni. Gli artisti adulti lavoravano nel cosiddetto “Zeichenstube” (studio), dove erano impegnati in diversi disegni tecnici, grafici, piantine, manifesti, ecc. Così essi avevano accesso al materiale artistico di cui avevo bisogno. Mio padre me ne portò di lì occasionalmente. In segreto essi facevano dei lavori d’arte. Nascosero questi dipinti in vari posti (un certo numero è stato salvato) e alcuni sono usciti di nascosto dal ghetto. Se i disegni venivano scoperti, gli artisti con i loro familiari erano mandati alla Fortezza Piccola. Qui venivano uccisi o mandati in altri campi di concentramento. Io fui fortunata che nessuno cercò i miei disegni nella casa delle ragazze. Nello stesso tempo in cui facevo i disegni che documentavano la vita di ogni giorno nel ghetto, scrivevo le mie esperienze. Quando nel 1944 fui deportata ad Auschwitz con mia madre, tre giorni dopo mio padre, lasciai i disegni e il diario a mio zio, che li nascoste e li salvò”. “Immediatamente dopo la liberazione, nell’estate del 1945”, scrive ancora Helga Weissova “mentre tutto era ancora fresco nella mia memoria completai le mie note su Theresienstadt con i ricordi delle esperienze vissute negli altri campi, dove non avevo avuto la possibilità di scrivere o disegnare. Poiché non ci sono fotografie di quei tempi, i disegni sono la sola testimonianza visuale. Io spero di aver creato una grafica, convincente e permanente testimonianza di quei tempi, in modo che il passato non venga dimenticato e che cose simili non accadano più in futuro.” Nel libro sono riportati 46 dei 100 disegni che la Weissova concepì durante il suo internamento e 6 in chiusura eseguiti dopo la sua liberazione dal campo di sterminio di Mauthausen. Ogni disegno è corredato da un breve commento che descrive la situazione vissuta in quel momento. Si va dalla “Lista di proprietà”, in cui i genitori sono impegnati nella compilazione di un inventario dei loro beni, all’arrivo alla fortezza, alla descrizione delle baracche con i dormitori. Poi scene di vita quotidiana quali la cottura e la distribuzione dello scarso cibo (Helga ci trasmette anche il “menù”; al mattino surrogato di caffé, a mezzogiorno patate con salsa, alla sera caffé o zuppa, 20 grammi di margarina o un cucchiaino di marmellata), la pulizia delle baracche e dei cortili, fino alla preparazione dei trasporti per il trasferimento dei prigionieri ai campi di concentramento. Ogni commento rivive la drammaticità della situazione, fame, malattie, umiliazioni, morte, compreso l’inutile arrivo della Commissione della Croce rossa internazionale, a cui i nazisti permettevano di vedere solo quello che volevano. Toccanti i disegni di fantasia: Helga sogna per il suo 14° compleanno una terra di latte e miele, o di poter tornare a Praga, oppure che una enorme torta arrivi da Praga sui carri funebri, che nel ghetto servivano per trasportare tutto: dal cibo ai morti. Anche quest’opera, che si affianca alla più famosa “Poesie e disegni dei bambini di Terezin 1942/1944”, pubblicata nel 1959 dal Museo ebraico di Stato di Praga e proposta in Italia dalla Lerici Editori di Milano nel 1963, contribuisce a mantenere viva la memoria contro i “negazionisti” e quanti si sono imposti il “compito” di riscrivere la storia, forti anche del consenso concesso ad un uomo della destra post-fascista che non ha esitato a rivalutare Benito Mussolini, definendolo il “più grande statista italiano del secolo XX”. È bene non dimenticarlo, come è bene ricordare che il fascismo privò per lunghi anni della libertà il popolo italiano, quello libico e quello etiope; imprigionò, uccise, torturò gli oppositori politici, scatenò a fianco del nazismo una guerra sanguinosa come mai era accaduto prima. E collaborò servilmente con i nazisti per avviare allo sterminio avversari politici e indifesi concittadini. Tragica e orribile conclusione di una aberrante teoria razzista.

Da Triangolo Rosso, luglio 2002

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