Triangolo rosso

GILBERTO SALMONI

DAL LICEO A BUCHENWALD

 

di Ennio Elena

 

Non è sempre un luogo comune quello secondo il quale i sogni muoiono all’alba: quasi sessant’anni fa successe a Gilberto Salmoni, ai suoi genitori, al fratello, alla sorella ed al cognato che cercavano scampo in Svizzera. Salmoni, ha affidato i suoi ricordi ad un volumetto significativamente intitolato La gioventù offesa, che ha come sottotitolo Ebrei genovesi ricordano e raccoglie una serie di testimonianze. Quella che riguarda la sua vicenda e quella della sua famiglia è stata stesa da lui personalmente. Così Salmoni ricorda quel drammatico momento: “Mio nonno, che aveva 77 anni, fu lasciato in una casa di riposo di Genova gestita dalla Curia. Il resto della famiglia raggiunse con un lungo viaggio Bormio, dove ci aspettavano le guide. Giusto il tempo per una cena e poi in cammino in una notte buia. Il percorso era lungo; pioveva. Salendo di quota subentrò la neve che diventava sempre più fitta. Camminavamo a fatica, affondando ad ogni passo. Iniziò ad albeggiare, il cielo si era liberato delle nubi; si preannunciava una giornata splendida. La montagna era bellissima. La discesa ci avrebbe portato in Svizzera. Trovammo un rifugio abbandonato e le due guide decisero che potevamo riposarci un po’. Mentre cercavamo di recuperare un po’ di energia sentimmo: ‘Mani in alto. Uscite uno per volta’. Due fucili spianati, bombe a mano pronte. Erano due miliziani fascisti.”

La domanda

Scrive Salmoni ed è una domanda che ancora ricorre mentre si svolge il nostro colloquio: “Quante volte sono tornato a pensare a quei momenti ed alle alternative che avremmo potuto scegliere: continuare il cammino senza fermarci, prima di tutto, oppure ingaggiare una lotta non facile, ma nemmeno impossibile, Certo, eravamo senza armi, ma c’erano le due guide, uomini di montagna giovani e forti, mio fratello e mio cognato, anch’essi persone energiche e decise. I miei genitori, mia sorella, che era incinta, ed io eravamo stanchi e provati e così…ora eravamo avviati verso la prigionia, ormai rassegnati, ognuno con i suoi pensieri e le sue fantasie, ormai vinti. “I due repubblichini, con la loro impresa che avrebbe portato alla morte tre di noi, si erano procurati un bel gruzzolo: per ogni ebreo consegnato o segnalato c’era una taglia considerevole. Mia madre, più tardi, si rivolse a loro e, citando Manzoni, disse: ‘I fratelli hanno ucciso i fratelli,’ Fu zittita con urli, proteste e improperi.”

Così finisce un mondo

In quel rifugio abbandonato, mentre si annunciava un giorno di sole e di libertà, finisce la prima parte di una delle tante vicende che per gli ebrei italiani

hanno significato il crollo di un mondo che era sempre stato. Gilberto Salmoni all’epoca delle leggi razziali, aveva dieci anni. Una vita tranquilla, a Genova, di una tranquilla famiglia: il padre funzionario del ministero dell’Agricoltura, il fratello, più anziano, studente in medicina, la sorella che aveva ultimato gli studi scolastici e studiava privatamente il tedesco ed il pianoforte, il nonno che aveva un’attività commerciale di prodotti alimentari ed uno “scagno” (un ufficio). Il piccolo Gilberto la domenica andava spesso gratuitamente allo stadio perché era compagno di banco di Guido De Prà, figlio del leggendario portiere del Genoa, e gli assomigliava per cui veniva fatto passare come suo fratello. Poi arriva l’ondata razzista. Il padre è licenziato, il fratello si è laureato ma non può esercitare la professione privatamente e fa il rappresentante di una casa farmaceutica pur frequentando per ottenere la specializzazione in urologia l’ospedale di San Martino (dal quale verrà cacciato); Gilberto non può frequentare il liceo D’Oria com’era in programma e si iscrive ad una scuola svizzera; gli affari del nonno vanno a rotoli.

Il battesimo

“Un giorno del 1940” racconta Salmoni “mia madre mi disse che l’indomani avrei fatto vacanza perché mi avrebbe portato nella chiesa di San Giovanni di Prè per il battesimo; in quel modo, forse avrei potuto frequentare, l’anno dopo la scuola statale. Io non mi opposi. La mia famiglia non era religiosa ed io ero già fondamentalmente non credente e consideravo quell’operazione come una questione formale di poca importanza. In quella occasione credo di essere stato un po’ imbarazzato ma pensavo che la decisione presa dai miei genitori fosse corretta.” Nel ‘42 Genova viene colpita da pesanti bombardamenti aerei e la famiglia sfolla a Bogliasco e Gilberto può infine approdare al liceo D’Ora “perché un po’ con carte vere, un po’ con carte false, risultavo ‘accettabile’”

Una prigione dorata

Con l’armistizio dell’8 settembre ‘43 e la calata in massa dei tedeschi in Italia comincia la caccia serrata all’ebreo. La famiglia Salmoni viene ospitata da amici, gli Isetti, in una villa di loro proprietà sulla collina di Celle Ligure, località turistica della Riviera di Ponente. Si sono riuniti tutti, anche il fratello Renato che a Roma è riuscito a sfuggire ad un’incursione dei nazisti nel Seminario Lombardo, pure protetto dall’extraterritorialità. Saltuariamente arriva anche il marito della sorella. L’ospitalità è concessa a patto che gli ospiti non si facciano mai vedere e quindi non escano. Avrebbero pensato a rifornire i rifugiati due parenti degli Isetti che, per precauzione, facevano la spesa in due posti diversi per non far sospettare la presenza di tanta gente nella villa. “Vivemmo a Celle”, ricorda Gilberto Salmoni, “rinchiusi in una prigione dorata per circa sei mesi. Nell’aprile del ‘44 si venne a sapere che l’esercito tedesco intendeva requisire le ville sulla collina.

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In cammino verso il lager

 

I nostri amici pensarono a come farci fuggire per poi tentare l’espatrio in Svizzera.” Una tappa a Busalla e uno ad Orbassano ospiti di coraggiosi amici degli Isetti in attesa del tentativo drammaticamente fallito in vista della libertà.

Un percorso obbligato

Nei racconti dei deportati c’è un percorso obbligato, sia pure con una serie di variazioni. Arresto, primo carcere disponibile, San Vittore a Milano, campo di concentramento di Fossoli, località emiliana vicino a Carpi, lager. Anche questo fu l’itinerario percorso dalla famiglia Salmoni. Ricorda Gilberto Salmoni: “Fummo condotti a Bormio, dove gli uomini furono separati dalle donne. Da Bormio ripercorremmo la Valtellina a ritroso, incatenati. A Tirano i repubblichini che ci avevano catturato ci consegnarono alla Gendarmeria germanica. Da lì fummo portati alla prigione di Como, di nuovo incatenati. Tra i nostri compagni di cella c’erano persone di valore, antifascisti, partigiani. Davano l’impressione di essere coraggiosi e determinati.” Il tempo di prendere confidenza con i ritmi e le usanze del carcere e trasferimento a San Vittore dove “le celle erano ‘accettabili’ e spesso restavano aperte.”

Il diversivo

Quando si è in carcere prigionieri dei tedeschi, anche essere destinati ad un compito pericoloso come quello di cercare bombe di aereo inesplose può diventare un diversivo che allontana dalla mente i pensieri sul presente ed il futuro. Così Gilberto Salmoni, il fratello ed alcuni altri giovani ebrei vengono fatti uscire, incatenati, da San Vittore e condotti a Lambrate, dove c’era l’Innocenti, a cercare bombe inesplose scavando con piccone e pala. “La sensazione di essere lavoratori in semilibertà ci faceva respirare a pieni polmoni” ricorda Salmoni. Un diversivo perché, “a mezzogiorno si mangiava alla mensa della fabbrica, serviti e riveriti come personaggi importanti: la classe operaia e gli ingegneri ci manifestavano apertamente la loro solidarietà.” Trovata la bomba, ritorno a San Vittore con interrogatori accompagnati da violenze al fratello ed al cognato e poi partenza per il campo di concentramento di Fossoli. Il cognato, cattolico, resta a San Vittore dal quale evaderà e combatterà, restando ferito, da comandante partigiano nel Piacentino.

Il fuggiasco massacrato

Nel campo, oltre alle baracche dei prigionieri, c’erano capannoni adibiti a caserma delle SS e per questo ci fu un mitragliamento di aerei americani nel corso del quale rimase gravemente ferita la sorella che venne salvata ma perse il figlio. “Accadde un giorno”, ricorda, “che fu catturato un prigioniero che era fuggito. Al consueto appello della sera erano riunite alcune centinaia- o migliaia- di persone. Il fuggiasco fu portato davanti a noi, costretto a camminare come se ci passasse in rivista e, seguito da quattro o cinque SS, picchiato selvaggiamente tra cadute e lamenti. Era uno spettacolo insostenibile. Il pover’uomo sanguinava e cadeva continuamente e continuamente era obbligato a rialzarsi per offrire un più facile bersaglio. Le donne cominciarono ad urlare ma furono zittite e minacciate: il fuggiasco doveva continuare il suo cammino fino ad essere finito.”

Buchenwald

Ai primi di agosto il campo di Fossoli viene evacuato. La famiglia Salmoni si divide ancora. Il padre, la madre e la sorella vengono deportate ad Auschwitz il campo di sterminio dal quale non faranno ritorno, Gilberto ed il fratello a Buchenwald. Con cinica ironia il vice capo del campo di Fossoli, Han Haage, dice ai prigionieri: “Finora siete stati in villeggiatura, ora andrete in campi meglio organizzati.” Nel viaggio i deportati conoscono uno degli episodi di umana solidarietà che erano frequenti e che rappresentavano squarci di luce in quel cupo panorama: a Verona della gente sconosciuta gettò del pane “allora merce rara.” E a Buchenwald inizia la vita del deportato nel campo di sterminio. Numero di matricola: 44.573 quello di Gilberto, 44.529 quello del fratello, altri numeri distanti: “come mai? Scoprimmo poi che erano numeri riciclati di prigionieri morti; più volte riciclati: Ci diedero anche un triangolo rosso con la I per Italia; significava che, come ‘misti’, eravamo considerati prigionieri politici.” Poi la quarantena la cui assurdità, rileva Salmoni, “era resa più evidente da un grosso cartello:’Ein Laus dein Tod’, un pidocchio la tua morte. In realtà entrammo nel lager senza pidocchi e lì li prendemmo. Non avevamo malattie; lì molti si ammalarono e morirono.”

La dura “routine

Scarsità di cibo, difficoltà a lavarsi, lavoro duro, lunghe attese per l’appello, in balia delle SS, violenze: la solita, dura routine dei campi di sterminio. Per i fratelli Salmoni un po’ mitigata per il loro trasferimento in una baracca di francesi e belgi dove c’era un’atmosfera “di forte cameratismo: gli antifascisti, la maggior parte dei quali erano stati partigiani, avevano stabilito regole di solidarietà che mi avevano fortemente colpito: i francesi ed i belgi, anche se di rado, ricevevano pacchi personali dalla Croce Rossa. Il destinatario ritirava sapone e sigarette e il resto veniva diviso. Trovammo compagni simpatici. Il morale era alto e a me sembrava di vivere in mezzo agli eroi, eroi umani.”

Per sopravvivere

Come tutti i prigionieri dei campi di sterminio, Gilberto ed il fratello capiscono rapidamente che “il segreto della sopravvivenza era cercare di lavorare il meno possibile. Il territorio grande ed il numero di guardiani ormai esiguo ci permettevano momenti di sosta. L’arrivo delle SS di sorveglianza era segnalato in ‘codice’ e, al segnale, si riprendeva a lavorare. I compagni di prigionia ci dicevano che eravamo arrivati nel momento del bengodi, che la vita era diventata più tollerabile. Il numero dei guardiani era fortemente diminuito e gli atteggiamenti meno crudeli e sadici. Ma si continuava a morire: il crematorio lavorava a tempo pieno.”

“Ci ammazzeranno tutti”

Gilberto Salmoni annota due sentimenti contrastanti nell’animo dei deportati: da un lato il continuo passaggio delle “fortezze volanti” americane dava la netta sensazione che i nazisti stessero perdendo la guerra; dall’altro la convinzione che i prigionieri non avrebbero visto la vittoria perché le SS avrebbero ucciso tutti prima dell’arrivo degli Alleati.

Un piccolo contributo

Essere definito prigioniero politico mentre a differenza della maggior parte dei compagni di prigionia, non aveva combattuto costituiva motivo di disagio e così, “dato che come manovale, aiutante muratore dovevo trasportare dei mattoni su una carriola, se non vedevo SS nelle vicinanze vuotavo il contenuto della carriola in un dirupo dove i mattoni si fracassavano: era la mia piccola azione di guerra, il mio piccolo contributo per la vittoria.”

I binari di Weimar

“Non si era mai in una situazione stabile. Ogni giorno il destino poteva riservare una svolta. Così un mattino ci trovammo a partire per Weimar, la città vicina. Lì, nella stazione ferroviaria, dovevamo sostituire i binari e sistemare le traversine. La zona di lavoro era delimitata da SS con cani che non ci perdevano d’occhio un istante. Il lavoro era pesantissimo e non si poteva fare un attimo di sosta. Poche settimane ci avrebbero portato a non reggerci più in piedi e a precipitare rapidamente verso una condizione di scheletri morituri. Mio fratello aveva conosciuto un prigioniero che lavorava negli uffici e riuscì a farci assegnare a lavori meno gravosi e al riparo: lui in sartoria a rappezzare indumenti, io a scaricare patate”. I due fratelli riescono a restare insieme a Buchenwald fino alla liberazione.

La liberazione

I prigionieri si rendono conto da molti segni che gli alleati si stanno avvicinando. Ritorna la domanda: che cosa succederà? “Il comando” ricorda Salmoni “ci informò che sarebbe iniziata l’evacuazione del campo. Allora uscì allo scoperto un’organizzazione interna clandestina che si era preparata a fronteggiare quell’evenienza. L’ordine era: resistenza passiva. Se gli internati di una baracca venivano chiamati in piazza d’appello per la partenza bisognava rifiutarsi in ogni modo possibile. Nei primi giorni di aprile iniziarono le chiamate per l’evacuazione. Si udivano spari e raffiche per uccidere o intimidire chi si ribellava. La nostra baracca non fu chiamata. “Gli avvenimenti incalzano. “Le SS erano ormai pochissime e timorose. Il crematorio non fumava più. Intorno all’undici aprile vedemmo alcuni internati con i fucili in mano. Poche ore dopo arrivò una jeep con due americani a bordo. Eravamo liberi. Ci raccontarono che l’organizzazione interna dei prigionieri, nota a pochi, aveva ordinato l’insurrezione poche ore o pochi giorni prima dell’arrivo degli americani. Alcune SS erano state fatte prigioniere. I fucili che avevamo visto nelle mani degli internati erano stati trafugati dalle fabbriche o dai depositi, trasportati in campo e nascosti, durante un pesante bombardamento dell’agosto del ‘44”.

L’orrore

“Gli americani furono sconvolti da quello che trovarono” ricorda Gilberto Salmoni: “Anche noi, denutriti ma che avevamo ancora un po’ di forze andammo ad aiutare i nostri compagni più malandati. Quando entrammo in quello che veniva chiamato ‘il piccolo campo’ ci rendemmo conto che era un ammasso di morti e morituri, ancora nelle baracche. Il comando americano, pochi giorni dopo la liberazione, obbligò la cittadinanza di Weimar a visitare il campo e a prendere visione di quella terribile realtà. Constatammo che la cantina sotto il crematorio era una grande sala di tortura. Quanti nostri compagni erano finiti lì, all’insaputa di tutti.”

Desiderio di vendetta

Naturalmente c’era un comune sentimento di vendetta nei prigionieri. “Quando vedemmo un gruppo di SS chiuse in un recinto, andammo a vedere se c’era qualche nostra conoscenza. Un internato, che aveva riconosciuto un aguzzino, entrò nel recinto e cominciò a malmenarlo. Ma l’organizzazione politica degli internati era bene operante. Uno dei responsabili disse:’Non comportiamoci come loro. Saranno processati e condannati secondo giustizia.’” Amaro il commento. “I maltrattamenti finirono ma sappiamo tutti come andarono poi le cose.”

Il ritorno

Sarà per un caso o per un perverso destino ma, nota Salmoni, “mentre i prigionieri delle altre nazioni partirono rapidamente restarono solo le nazionalità di seconda categoria, tra le quali la nostra”. Finalmente a metà giugno i fratelli Salmoni riescono a partire ospitati da due ex prigionieri tedeschi che erano riusciti a mettere insieme una Mercedes e ad avere buonibenzina dagli americani. A Monaco ritrovano la signora Crovetto, che avevano conosciuto interprete al campo di Fossoli, la quale gli dice che il resto della famiglia appena arrivato ad Auschwitz era stato selezionato per la camera a gas. È la terribile conferma di quanto avevano temuto quando i congiunti erano saliti sul carro bestiame che recava sul portellone quel nome sinistro. Dopo molte difficoltà tornano a Genova dove trovano le casa occupata da due donne che spariscono rapidamente. “Mandammo un telegramma a mio cognato a firma Renato e Gilberto. Pensavamo che avrebbe capito. Invece quando ci raggiunse ci chiese subito di nostra sorella. Quando seppe che era morta cadde a terra svenuto.”

È stato difficile il reinserimento in quella che si chiama vita normale?

“In superficie no. Mi fu di molto aiuto la circostanza che mio fratello si sposò pochi mesi dopo il nostro ritorno, Vissi con loro parecchi anni nel nostro vecchio appartamento di via Ippolito d’Aste. Il legame affettivo con mio fratello era fortissimo. Una volta disse: ‘Siamo una sola persona’. Questo, la presenza affettuosa di mia cognata e poi la nascita di due nipotini mi aiutarono a tirare avanti.”

Si può dare un futuro alla memoria, fare in modo che non sia un semplice, anche se doveroso, omaggio ai caduti, un’utile informazione ai giovani ma poi finisca in una pur commossa ritualità?

“Si può a condizione che la memoria diventi una scuola di educazione democratica, che la rievocazione di quegli orrori rappresenti una specie di ‘vaccinazione’ contro le manipolazioni. E non mi riferisco solo e tanto a quelle che riguardano l’Olocausto, le persecuzioni dei nazisti e dei fascisti. Ogni giorno abbiamo bisogno di conservare e sviluppare il nostro spirito critico su ciò che leggiamo sui giornali o ascoltiamo alla televisione. Il torpore dello spirito critico, l’accettazione indiscriminata delle informazioni che ci arrivano in gran copia da più parti sono un fertile terreno per la disinformazione e possono rappresentare la premessa per gravi involuzioni. Per questo il ricordo non deve mai essere separato dalla nostra capacità di interpretare il presente.”

Al suo ritorno ha conseguito la maturità, ha lavorato per quasi vent’anni all’Italsider, si è laureato in ingegneria e in psicologia, si è sposato, ha due figli e tre nipotini. Una persona pienamente integrata. Eppure nelle righe finali del Suo La gioventù offesa scrive: “Tutti dicevano che ero molto bravo perché avevo ripreso a studiare senza perdere tempo e sembravo bene integrato. Soltanto parecchi anni dopo mi sono reso conto di aver vissuto un lungo periodo da disadattato. Forse lo sono ancora.” Perché sente questa condizione?

“Perché mi rendo conto che non sono d’accordo né su certe affermazioni né su certi comportamenti. In quegli anni terribili ho conosciuto valori come la solidarietà, la fratellanza, li ho conosciuti in circostanze nelle quali ognuno appariva veramente per quello che è, senza possibilità di finzioni. Questi valori, questi sentimenti che portano ad aiutarsi, anche a dividere il poco pane li vedo progressivamente sparire, sostituiti da una gerarchia di pseudo valori, dove l’essere sta nell’avere e nel parere. Per questo mi sento disadatto ad un certo tipo di società. E per questo dico che ricordare deve soprattutto aiutare a capire.”

Da Triangolo Rosso, luglio 2002

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