Triangolo rosso
Il “Sopravvissuto di Varsavia”
Nella musica di Schönberg la tragedia della Shoah
di Paolo Petazzi
Schönberg compose A Survivor from Warsaw in pochi giorni, tra l’11 e il 23 agosto 1947, su commissione della Koussevitzky Music Foundation; la prima esecuzione (cui l’autore non poté assistere per motivi di salute) fu diretta da Kurt Frederick ad Albuquerque (New Mexico) nel novembre 1948 e suscitò una enorme impressione, che si ripeté alla prima europea, diretta a Parigi da René Leibowitz. Racconta Leibowitz in una testimonianza del novembre 1949: “Quando avevo diretto la prima esecuzione europea del Sopravvissuto di Varsavia, venne da me un ascoltatore e disse: “Si sono scritti interi volumi, lunghi saggi, molti articoli su questi problemi, ma Schönberg in otto minuti ha espresso molto di più di quanto finora chiunque abbia saputo fare”. Infatti in questi pochi minuti di musica, che non hanno perso nulla della loro sconvolgente forza espressiva, convergono le esperienze di una ricerca musicale intensissima, che nel 1947 era giunta alla più avanzata maturità, ma anche la lunga riflessione di Schönberg sulla questione ebraica nei suoi aspetti politici e religiosi. Quando Schönberg compose A Survivor from Warsaw (il terzultimo pezzo nel suo catalogo), la guerra era finita da due anni, il processo di Norimberga si era concluso nell’ottobre 1946, e tutto il mondo ormai sapeva dello sterminio nei lager di milioni di ebrei. Schönberg non si era mai fatto la minima illusione sulla possibilità di convivere con il nazismo, aveva lasciato la Germania nel 1933 e in quello stesso anno a Parigi aveva voluto conferire un sigillo solenne e pubblico al suo ritorno alla fede dei padri. Era soltanto un ultimo suggello formale di una ricerca iniziata circa dieci anni prima: Schönberg, che nel 1898 si era convertito al protestantesimo, e che in seguito si era accostato alla teosofia, nel corso degli anni Venti, aveva sentito il bisogno di approfondire la propria identità ebraica. La svolta aveva coinciso con una recrudescenza di manifestazioni di antisemitismo in Austria e in Germania (e ad equivoci legati a questo problema è legata anche la rottura di Schönberg con Kandinsky nel 1923). Ai problemi dell’antisemitismo, del sionismo, della creazione di uno stato ebraico (che Schönberg riteneva indispensabile, senza legarlo però a un ritorno nelle terre della Bibbia), il compositore dedicò fin dagli anni Venti, numerosi scritti e un dramma teatrale, La via biblica, che anticipa per alcuni aspetti, la problematica del Moses und Aron (1930-32). In un solo caso, prima del Sopravvissuto di Varsavia, Schönberg compose un’opera direttamente antinazista, la Ode to Napoleon del 1943, dove il sarcasmo dei versi di Byron contro Napoleone va riferito a Hitler. Ma nel Sopravvissuto il compositore torna a confrontarsi anche con le proprie radici religiose, culturali e umane (dopo Moses und Aron e Kol Nidre). Egli stesso scrisse il testo, sulla cui origine lasciò un appunto che si legge nella prima pagina dell’autografo: “Questo testo si basa in parte su notizie che ho ricevuto direttamente o indirettamente”. È, significativamente, una indicazione assai vaga, e la reticenza sulle fonti fa pensare che il testo, più che trasfigurare molto liberamente uno specifico fatto di cronaca, sia ideato nei dettagli essenziali dal compositore, tanto inseparabile appare dal progetto musicale. Il testo fu scritto in inglese con le frasi dei nazisti in tedesco e con l’ebraico dello Shema Yisroel nel coro conclusivo. La narrazione è affidata a una voce recitante, la cui parte è ritmicamente ben definita; ma assai diversa dallo Sprechgesang del Pierrot lunaire (qui l’autore non indica note da intonare con emissione “parlata”: in una lettera a Leibowitz del 12 novembre 1948 scrisse: “non bisogna mai cantare, bisogna che non sia mai chiaramente avvertibile una precisa altezza di intonazione: ciò significa che la scrittura indica solo il modo accentuazione del testo”). La concezione del testo appare inseparabile da quella della musica per la natura stessa del percorso che l’una e l’altra delineano con un linguaggio di sconvolgente evidenza espressiva. Nel testo come nella musica l’entrata del coro segna una cesura netta, e nella prima parte c’è un rapporto assai stretto tra la narrazione del recitante e le invenzioni musicali, gesti di incisiva evidenza evocativa, che non corrono peraltro il rischio della banalità descrittiva. Così i graffianti motivi di fanfara che all’inizio caratterizzano i nazisti, non appaiono soltanto deformazione di musica militare; ma sono immagini di forza lacerante e angosciosa. La frammentata brevità dei motivi non consente, nella prima parte, molte altre nette individuazioni (e ciò vale anche per le inflessioni di semitono che si legano alla sofferenza degli ebrei). Con sconvolgente originalità questa musica non sembra concedere più nulla al tematismo tradizionale, procedere per zone definite da coagulazioni timbriche e ritmiche, tra fremiti, addensamenti, desolate rarefazioni, aspre impennate, gesti taglienti. Solo per contrasto sulle parole “the old prayer they had neglected for so many years” emerge brevemente al corno con la sua continuità e ampiezza di respiro l’inizio della melodia su cui poi il coro intonerà lo Shema Ysrael. È la prefigurazione della grande cesura che segna una svolta nettissima nel testo e nella musica, con l’entrata del coro alla battuta 80 (su un totale di 99: dunque a tre quarti del pezzo; ma l’effetto sembra dilatarsi ad una durata molto più grande di quella reale). Al momento in cui gli ebrei devono contarsi prima di entrare nella camera a gas, e sono costretti a farlo sempre più rapidamente, si delinea con l’evocazione del galoppo di cavalli selvaggi un intensissimo crescendo fino ad un insostenibile culmine di tensione, che si risolve nella grandiosa entrata del coro, resa ancora più efficace dalla lingua in cui canta: lo Shema Ysrael irrompe in ebraico come una affermazione di fede e di speranza, di una libertà interiore sulla quale nulla possono gli aguzzini nazisti. Schönberg fa intonare dal coro maschile all’unisono, la parte iniziale del testo (Deuteronomio 6, 4-7) della preghiera e dichiarazione di fede che appartiene alla quotidianità di ogni ebreo credente e che dovrebbe rappresentare il suo ultimo pensiero al momento della morte. Alla lacerata drammaticissima frammentazione della prima parte, segue così una sorta di blocco monolitico di stupefacente energia, dove la continuità della linea del canto è l’epicentro degli interventi dell’orchestra. È uno dei momenti decisivi che illuminano il fondamentale rapporto di Schönberg con la religione ebraica trasfigurando senza il minimo rischio di retorica, l’orrore stesso del racconto precedente.
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Il testo della composizione musicale
Il “Sopravvissuto di Varsavia”
Non posso ricordare ogni cosa. Devo essere rimasto senza conoscenza per la maggior parte del tempo. Ricordo solo il momento grandioso in cui tutti cominciarono a cantare, come per un precedente accordo, l’antica preghiera per tanti anni trascurata, il credo dimenticato! Ma non ho ricordi di come riuscii a vivere per tanto tempo sottoterra nelle fogne di Varsavia. Quel giorno cominciò come al solito: sveglia quando era ancora buio. Fuori! Che aveste dormito o che l’ansia vi avesse tenuti desti tutta la notte. Si era stati separati dai figli, dalla moglie, dai genitori, senza sapere che ne fosse di loro: come si poteva dormire? Le trombe di nuovo – Fuori! Il sergente sarà furioso! Uscirono; alcuni molto lentamente, i vecchi, i malati; alcuni con intimorita agilità. Hanno paura del sergente. Si affrettano più che possono. Invano! Troppo rumore, troppa confusione – e mai abbastanza in fretta! Il Feldwebel grida: “Achtung! Stilljestanden! Na wirds mal? Oder soll ich mit dem Jewehrkolben nachhelfen? Na jutt; wenn ihrs durchaus haben wollt!” (Attenzione! Zitti! Allora ci decidiamo? O devo dare una mano con il calcio del fucile? Va bene! Se proprio lo volete!). Il sergente e i suoi sottoposti colpivano tutti: giovani o vecchi, tranquilli o agitati, colpevoli o innocenti. Era penoso sentirli gemere e lamentarsi. Li udivo sebbene fossi stato picchiato selvaggiamente, tanto che non potei evitare di cadere. Tutti noi che eravamo a terra e non riuscivamo a stare in piedi, fummo colpiti sulla testa. Devo essere rimasto senza conoscenza. La cosa successiva di cui mi resi conto, fu un soldato che diceva: “Sono tutti morti”; allora il sergente diede ordine di toglierci di mezzo. Giacqui in disparte – semicosciente. Era sopravvenuto un grande silenzio – paura e dolore. Allora udii il sergente gridare: “Abzahlen!” (Contarsi!). Cominciarono lentamente e irregolarmente: uno, due, tre, quattro – “Achtung!” gridò di nuovo il sergente, “Rascher! Nochmal von vorn anfangen! In einer Minute will ich wissen, wieviele ich zur Gaskammer abliefere! Abzahlen!” (Più presto! ricominciare da capo! in un minuto voglio sapere quanti ne porto alla camera a gas! Contarsi!). Ricominciarono, dapprima lentamente: uno, due, tre, quattro, poi sempre più veloci, tanto veloci che alla fine il suono sembrava quello di un galoppo di cavalli selvaggi, e d’un tratto, in mezzo a tutto questo, cominciarono a cantare lo Shema Yisroel.
Da Triangolo Rosso, ottobre 2001