Triangolo rosso
TESTIMONI DEL ‘900 ANGELO SIGNORELLI METALMECCANICO
Era un numero, diventò un uomo
Giovanissimo apprendista alla Falck fra i protagonisti degli storici scioperi del marzo ’44 La deportazione a Mauthausen e a Gusen - Ha conosciuto tutte le facce del mondo: dalla ferocia bestiale alla solidarietà popolare e a quella anonima nei campi di sterminio Una drammatica lezione di vita, una dura iniziazione all’amore per la libertà
di Ennio Elena
Sul tavolo fra noi due c’è una copia del volumetto nel quale Angelo Signorelli ricorda la vicenda sua e di tanti altri deportati nei campi di sterminio nazisti. S’intitola: A Gusen il mio nome è diventato un numero: 59141. Leggendolo e ascoltando le integrazioni a quel racconto si può completare il titolo: “Era un numero, è diventato un uomo.” Signorelli è ora un gioviale pensionato, dall’aria tranquilla, il volto disteso: è molto difficile immaginare il ragazzo di 17 anni che a Gusen, tempestato di nerbate dagli aguzzini nazisti, resiste alla voglia di urlare per non dare soddisfazione ai suoi torturatori. Il ragazzo nato il 17 agosto 1926 a Grumello del Monte in provincia di Bergamo, trasferitosi nel ‘36 con la famiglia contadina a Monza, assunto nel gennaio ‘41 alla Falck di Sesto San Giovanni come apprendista modellista. “Come si usava in quei tempi”, ricorda, “lavoravo di giorno e alla sera andavo alle scuole professionali per imparare, tra le diverse materie, soprattutto il disegno meccanico, che era ritenuto indispensabile per diventare un bravo operaio.”
Perché, così giovane, poco più che un ragazzo, partecipò a quegli scioperi del marzo ‘44 destinati ad entrare nella storia della Resistenza, e non solo di quella italiana ?
“Bisogna considerare che le condizioni di lavoro e di vita, specie dopo l’8 settembre e la nascita della repubblichetta di Salò, erano molto dure: aumentati i ritmi di lavoro e meno cibo. C’era quindi molto malcontento. Sul lavoro ho conosciuto operai come Spinelli, Borgato, Bordin e altri che erano legati al movimento clandestino antifascista. Fu verso la fine del ‘42 che Spinelli mi parlò di uno sciopero, e mi spiegò che cosa significava questa parola, e disse che presto ci sarebbe stato uno sciopero contro il fascismo, il carovita, la guerra. “Nell’agosto del ‘43 mi ammalai di tifo, restai in ospedale fino ad ottobre e dopo una lunga convalescenza ripresi il lavoro verso la fine dell’anno. Tornato in fabbrica vidi che la situazione era peggiorata; nelle mense il cibo scarseggiava, la disciplina si era fatta intollerabile.”
Che cosa ricorda di quelle giornate di sciopero?
“Ricordo che un lunedì passò la parola d’ordine: alle dieci quando suona la sirena che viene azionata per provare l’allarme aereo, tutti fermi al posto di lavoro ma senza lavorare. Così fino a sera. “La mattina seguente ci presentammo ai cancelli della fabbrica, io lavoravo alla Falck Unione, e vedemmo fascisti armati che avevano piazzato fucili mitragliatori. Alcuni dirigenti ci invitarono ad entrare ma pochi raccolsero l’invito. Così si andò avanti fino al lunedì successivo quando i fascisti tolsero i mitragliatori e si ritirarono. Entrammo in fabbrica e alcuni capi fascisti fecero promesse durante un’assemblea. “Ingenuamente si poteva pensare che la vicenda finisse così. Invece, come si seppe da un mio zio fattorino che come tutti i fattorini aveva le orecchie lunghe, il comando tedesco chiese ai capi della fabbrica l’elenco degli istigatori alla sciopero. “Mio fratello Giuseppe, più anziano di me di due anni, finì nell’elenco perché qualcuno disse che in occasione della prima fermata aveva tolto la corrente. Io non so bene per quale motivo perché a 17 anni era difficile considerarmi un organizzatore di scioperi. Forse, chissà, perché per la malattia era stato a lungo assente.”
L’ARRESTO E LA DEPORTAZIONE
“Io e mio fratello fummo arrestati a casa nella notte dell’11 marzo. Quando la polizia fascista bussò al portone di casa mio fratello mi propose di fuggire; sarebbe stato possibile perché abitavamo al primo piano e c’era una finestra che dava su una strada dietro la casa. Io, ingenuamente, mi opposi, temendo che al nostro posto potessero arrestare papà e mamma. Fummo quindi arrestati e insieme a tanti altri operai della Falck e di altre fabbriche cominciò il lungo e tormentoso cammino verso i campi nazisti. Fra gli altri episodi di quel primo periodo di prigionia ce ne sono due che non posso dimenticare.
L’ispettore spietato – Quando eravamo nel carcere di San Vittore entrarono due ispettori. Avevo diciassette anni, ero molto magro dopo la malattia. Uno dei due mi guardò in faccia e mi chiese quanti anni avessi. Alla mia risposta ‘Diciassette’ disse all’altro: ‘Qui c’è un minorenne, bisogna provvedere. L’altro seccamente ribadì: Macchè minorenne, sono tutti uguali, seguiranno tutti la stessa sorte.’ Non l’ho mai dimenticato e più volte nei momenti di grande sofferenza lo maledissi.”
La gente di Bergamo- “L’altro episodio riguarda la solidarietà popolare. Il 17 marzo venne fissata la partenza da Bergamo, dove eravamo stati trasferiti, per la Germania. “Quel giorno arrivarono i miei genitori che erano riusciti a sapere dove eravamo assieme a molti altri familiari di prigionieri. “Dopo aver dato a ciascuno sei pagnotte ed un fetta di bologna di tre - quattro etti, ci incolonnarono in fila per quattro per raggiungere la stazione. I fascisti e le SS che ci scortavano bestemmiavano, ci minacciavano e ci picchiavano. “Sui marciapiedi i nostri genitori ci accompagnavano facendoci coraggio tra le lacrime; poi, improvvisamente, la gente di Bergamo, che si rendeva conto di che cosa stava accadendo, prima più lentamente, poi più decisamente, incominciò a premere sui lati della colonna; si avvicinava domandandoci: ‘Chi siete, cosa avete fatto, dove vi portano?’; alle nostre risposte manifestarono tutta la loro solidarietà. Molti corsero nei negozi a comprare delle cose per noi, specialmente fiaschi di vino, e, sfidando fascisti e tedeschi, riuscirono a portarceli; fu una cosa meravigliosa: la solidarietà, la speranza e la certezza che la gente onesta era con noi. Dopo tanti anni dico ancora a quella gente che la ricordo e la ringrazio.”
DIVENTARE UN NUMERO
“Dopo quattro giorni di viaggio pieni di sofferenza arrivammo a Mauthausen. Era il 20 marzo 1944, una gran brutta giornata anche per il tempo, cadeva in grande quantità neve mista ad acqua.” Inizia così la durissima vita del deportato Angelo Signorelli, durissima come quella di tutti i prigionieri nei campi di sterminio. I loro racconti sono terribili tessere di un agghiacciante mosaico di sofferenze, dal freddo alla fame, alle percosse, alla morte in agguato ogni giorno, ogni ora. Ricorda Signorelli la tremenda profezia del capo baracca: “Fra tre mesi la metà di voi sarà già morta.” E ricorda la vestizione da prigioniero che raggiungeva il punto più significativo con l’assegnazione del numero di matricola con il triangolo rosso che era il segno dei prigionieri politici e la sigla IT, che significava Italia, “sulla giacca a sinistra e sui calzoni a destra. Anche al polso ci misero una specie di braccialetto col numero di matricola: così da quel momento, dopo averci preso tutto, ci tolsero anche il nome. Ormai eravamo soltanto dei numeri. Il mio numero era: IT 59141.”
Finì nella cava della morte di Mauthausen?
“No, perché venimmo trasferiti a Gusen I, sottocampo di Mauthausen e adibiti alla costruzione di Gusen II. Era un lavoro molto duro e anche pericoloso quando arrivavano i vagoni ferroviari carichi di pietre che servivano per fare le strade e il basamento per le baracche. Dovevamo correre sulla massicciata ferroviaria, arrampicarci sui vagoni e immediatamente cominciare a scaricare buttando giù le pietre (perché su ogni vagone c’erano dei kapò che urlavano e picchiavano) e cercando possibilmente di non colpire gli altri che stavano ancora salendo.”
PASQUA DI BARBARIE
“Il fatto più terribile e crudele avvenne il giorno di Pasqua del 1944: alla fine del lavoro ci contarono e ricontarono più del solito; alla fine si sentì dire che mancava un prigioniero. Allora i kapò si misero alla ricerca, frugando dappertutto e dopo una trentina di minuti lo ritrovarono. Quando lo riportarono tra di noi era ridotto molto male, tutto insanguinato; io e mio fratello eravamo angosciati per quello che doveva succedere; appena arrivati alla baracca arrivò un comandante delle SS che ordinò la sua morte per tentativo di fuga; venne di nuovo picchiato selvaggiamente. Sempre alla presenza del comandante lo fecero portare da quattro amici al lavatoio e venne immerso nell’acqua. I kapò lo hanno affogato tenendo pressata la testa sotto l’acqua. Il suo ultimo sussurro fu: “Mio Dio, i miei figli.” “È stata una morte crudele, spietata. Si chiamava Nada Luigi, lavorava negli stabilimenti torinesi dell’Aeronautica d’Italia. Poi quel misero corpo tutto martoriato fu esposto davanti alla baracca: lentamente ci fecero sfilare attorno per vedere lo scempio compiuto, ammonendoci. “Davanti a tanta crudeltà sentivo dentro di me pena mista a rabbia e paura; era molto difficile accettare e sopportare la terribile realtà che ormai avevamo davanti. Un ufficiale nazista disse, ripetendo la frase diverse volte:“Questa è la sorte e la morte riservata a coloro che tenteranno la fuga o la ribellione.’ Questa è stata la nostra santa Pasqua del 1944.”
PIÙ UMANO IL TEDESCO DEL FASCISTA
“Non sono stato nella cava di Mauthausen ma anche quella di Gusen I dove, finita la quarantena, sono stato mandato insieme ad un’altra cinquantina di prigionieri, era un inferno, il peggior comando del campo. Un prigioniero poteva resistere al massimo tre, quattro mesi.”
Lei per fortuna se l’è cavata.
“Io devo la vita al fatto che ero giovane; erano dieci giorni che lavoravo in cava, ero allo stremo e oramai capivo che si avvicinava la fine. “Ma una mattina, mentre eravamo incolonnati all’esterno della baracca, il segretario che ci contava si fermò improvvisamente davanti a me e mi chiese: “Quanti anni hai?’, io risposi subito ‘Diciassette anni’. “Mi fece uscire dalla fila e mi mandò in baracca dicendo che, avendo meno di diciotto anni, non dovevo lavorare in cava. Tante volte paragonavo quel gesto di umanità compiuto dal tedesco nei miei confronti, togliendomi dalla cava e quindi da morte sicura, all’atto vergognoso dell’ispettore a San Vittore che, di fronte alla sofferenza e nel grande dolore, sentivo veramente di odiare ritenendolo in parte responsabile delle mie sventure. Personalmente ho ritenuto il segretario tedesco un uomo di grande umanità, l’ispettore italiano un uomo cattivo e senza umanità.”
In quei momenti terribili ha mai pensato: Ma chi me l’ha fatto fare di scioperare, adesso potrei essere a casa tranquillo e invece…
“Sinceramente non l’ho mai pensato. Lo sciopero non me lo impose nessuno, fu una mia libera scelta.”
CRUDELTÀ E SOLIDARIETÀ
“Scampato alla cava, venni destinato al blocco n. 11 e impiegato nel “comando giardinieri” dove lavorava un gruppo di trenta o trentacinque giovani russi, jugoslavi, francesi e altri. Dovevamo sistemare il verde attorno alle baracche delle SS che si trovavano all’esterno di Gusen II e alle baracche della Wehrmach. “Anche lì assistetti ad un episodio di terribile crudeltà. I kapò picchiavano e non ci si poteva ribellare pena la morte. Un giovane italiano che era arrivato da poco si ribellò ad un kapò che lo picchiava, ferendolo con un temperino. Lo pestarono a sangue, poi arrivò un ufficiale delle SS che gli sparò due colpi di pistola nelle ginocchia e infine, dopo tanto soffrire, lo affogarono. Una morte spaventosa come quella che avevo visto a Pasqua.” Nel diario di Signorelli tra i numerosi episodi di sconvolgente barbarie appaiono talvolta gesti di umana e confortante solidarietà.
Un pacco per voi - “ Un giorno” racconta “mentre assieme a Galbani stavamo sistemando il verde attorno ad una baracca militare ed eravamo soli, con un gruppo di SS a circa cinquanta metri da noi, sentimmo una voce dall’interno che ci parlava e ci diceva:’ Italiani, continuate a lavorare, non guardate, altrimenti capiscono che vi sto parlando. Quando passate dal deposito immondizie guardate e trovate un pacco per voi, e anche per i prossimi giorni troverete qualcosa. Vi saluto e vi auguro buona fortuna.’ “Eravamo sotto la finestra, e dopo qualche minuto abbiamo guardato dentro, ma la baracca era completamente vuota. Così per sette giorni di seguito abbiamo trovato in quel posto pane, salame e margarina che abbiamo diviso tra noi giovani affamati. “Abbiamo molto ammirato e apprezzato il coraggio, o forse solo la pietà, di quel soldato tedesco verso di noi, perché in quel momento rischiava la vita: se lo avessero scoperto lo avrebbero fucilato. Lo ricordo sempre, senza averlo mai visto, per la grande solidarietà dimostrata nei nostri confronti”.
Piove una banconota - “Un fatto che ha quasi dell’incredibile, cui non ho mai saputo dare una spiegazione, mi accadde una domenica pomeriggio d’agosto: erano circa le quattro del pomeriggio e faceva molto caldo; ero seduto sulla sponda del mio letto a castello, avevo la testa tra le mani e pensavo in special modo alla mia mamma e a mio fratello Giuseppe: ‘Che fine avrà fatto, sarà vivo ancora? Ci saremmo visti ancora?’, quando improvvisamente un foglio mi cadde sulla testa e tra le mani. Lo guardai e rimasi allibito: era una banconota tedesca, erano marchi, non ricordo quanti, forse cento o duecento. Mi guardai in giro, non c’era nessuno; i letti sopra di me erano vuoti, la finestra era aperta; guardai fuori, era tutto deserto; in baracca non vedevo nessuno; allora presi la banconota e la nascosi nel pagliericcio. Avevo anche paura, perché avere dei soldi era considerato tentativo di fuga, e la condanna era la morte. Uscii, e andai in cerca di Galbani. Lo trovai e solo a lui raccontai tutto.”
Com’è finita questa storia che ha veramente dell’incredibile?
“È finita che decisi di rischiare e parlai con un prigioniero politico tedesco al quale diedi i soldi. In cambio per dieci giorni consecutivi mi diede un pane intero, che dividevo con Galbani e altri, fra i quali il nostro caro amico russo Pavan Fiodorov.”
“MA DIO ESISTE VERAMENTE?”
“Un giorno una lunga colonna di deportati arrivò al campo di Gusen I: erano tutti ebrei ungheresi e cecoslovacchi. Il fatto più crudele era che tra di loro c’erano molti bambini al di sotto dei dieci anni. Il vederli camminare così piccoli e indifesi, col volto scavato da precedenti sofferenze, era una realtà così tragica che anche dentro di me lasciava come un vuoto di grande pietà, sconforto e amarezza. Una volta che ero particolarmente demoralizzato, rivolto a Galbani dissi; ‘Noi preghiamo Dio, ma chissà se esiste veramente; e perché permette queste cose?’ Una voce dietro di me rispose: ‘Ragazzo, io sono un prete, e qui siamo tutti uguali. Non è Dio che permette queste cose, Dio lascia agli uomini la libertà di decidere il bene o il male, e sono gli uomini attualmente al potere in Germania i responsabili di queste atrocità.’ Il prete era don Narciso Sordo, deportato a Mauthausen e a Gusen I per aver aiutato dei partigiani, e in seguito morto a Gusen I.”
“POTREMO PENSARE DI ESSERE CREDUTI?”
“Un giovane ebreo ungherese chiese il permesso al kapò di andare al gabinetto e costui rispose “no” (perché per andare al gabinetto dovevamo chiedere il permesso). Quel giorno si stava lavorando a portare via la terra, accoppiati con una draga; dopo averla riempita, egli si allontanò e, non potendosi più trattenere, si chinò per fare il proprio bisogno in modo veloce; ma in quell’attimo il kapò si girò e lo vide, con una spaventosa risata gli fece raccogliere con le mani ciò che aveva fatto: doveva buttarlo in alto e stare sotto con la bocca aperta. Poi, sempre ghignando e urlando, incominciò a picchiarlo; il povero ragazzo inciampò nei pantaloni, che non aveva avuto il tempo di tirare su, e fu la sua fine: venne massacrato a nerbate senza pietà. Erano fatti così raccapriccianti e crudeli che anche noi dicevamo: ’Se avremo la fortuna di sopravvivere, come potremo raccontare cose così orribili e pensare di essere creduti?’”
OGNI PATATA, UNA NERBATA
“Il lavoro per la sistemazione delle patate è stato uno dei più terribili eseguiti a Gusen I: tutti i giorni, per molti giorni, arrivavano una decina di vagoni ferroviari carichi di patate, che dovevano essere sistemate nei posti che avevamo preparato: la distanza dai vagoni alle buche era di circa duecentocinquanta metri; le patate le trasportavamo con delle draghe di legno della capacità di circa un quintale. Noi, uno davanti all’altro, eravamo quasi sempre di corsa, perché c’erano dei punti fissi sul percorso dove si mettevano i kapò che picchiavano continuamente e il correre era l’unico modo per prendere meno botte. Se uno cadeva e non era capace di rialzarsi lo massacravano senza pietà”. Dopo un intervallo molto più leggero lavorando all’allevamento dei conigli e due ricoveri in infermeria, Signorelli ritorna al lavoro delle patate nel gennaio del ‘45 che, ricorda, “fu micidiale; molti furono i morti, stroncati da fame, lavoro, botte e tanto freddo.
Più che la paura poté la fame -”Verso la metà di gennaio uno spagnolo che lavorava al comando falegnameria mi fece la proposta di rubare le patate; si trattava di portarle in un posto da lui stabilito, e alla sera in campo me ne avrebbe dato la metà di quelle che portavo, cotte. Ne parlammo io e Galbani e nelle nostre condizioni di affamati mettemmo da parte la paura e accettammo: avevamo le mutande lunghe, le legavamo al di sopra delle caviglie e, magri come eravamo, con i calzoni larghi, era quasi impossibile accorgersi delle patate.” Il traffico si svolse regolarmente per circa due mesi. “Ma un giorno, all’angolo della baracca dove portavo le patate, incrociai il comandante fuhrer SS di quel comando che, quando mi misi sull’attenti, si accorse delle patate e toccandomi le gambe con i suoi stivali disse: ‘Perché rubi le patate ?’. Mi venne spontanea questa risposta: ‘non posso mangiare il pane per malattia, così rubo le patate.’ “Ci furono circa due minuti di silenzio - il comandante in quel momento poteva decidere qualunque cosa - io stavo sempre sull’attenti: avevo tanta paura ma dentro di me ero consapevole di affrontare il mio destino con coraggio. Il comandante mi fissava nel modo cupo che loro avevano nei confronti delle persone che ritenevano inferiori. Sono stati minuti lunghissimi. Finalmente disse.‘Vieni!’ Lo seguii, mi riportò al posto di lavoro, chiamò il kapò, parlarono e infine disse: ‘Ogni patata una nerbata.” Contarono le patate che avevo addosso ed erano 42. Il kapò cominciò la tremenda punizione sotto lo sguardo del comandante; io, appoggiato con la testa su uno sgabello, contavo mentalmente i colpi, stringendo i denti per non urlare; al ventiquattresimo colpo sono svenuto, rotolando per terra. Il kapò mi buttò un secchio d’acqua addosso, barcollando mi sollevai ed egli, urlando, mi diede un calcio nel sedere e disse : ‘Al lavoro’. “Il comandante non disse nulla e tornai al lavoro. Dopo tanti anni pensando a quel fatto non riesco ancora a capire se il kapò era stanco o se ha voluto risparmiarmi.”
LA NOTTE DELLA STRAGE
A marzo nel campo si diffonde la sensazione che presto sarebbe finita insieme alla paura che i nazisti preparino la soluzione finale. Una sentimento rafforzato da un altro terribile episodio. “La sera del 22 o 23 aprile, dopo la giornata di lavoro, rientrati in campo, dopo l’appello andammo alla nostra baracca e come al solito tutti erano schierati per l’appello e noi ci unimmo a loro. Dopo le solite formalità di conta e riconta, di cappello su e giù e le solite botte, restammo lì inquadrati più a lungo del solito. Eravamo allarmati, stava succedendo qualcosa. Dopo le otto chiamarono noi giovani che ancora lavoravamo dando ad ognuno la propria razione di pane. Accompagnati da un kapò andammo alla baracca n. 12. Quella notte mi sono svegliato e ho sentito dei colpi di pistola. Pensai al peggio, con paura.
Ma come, non siete morti?
“Alla mattina, presentandomi al comando di lavoro, gli spagnoli della baracca 23 che lavoravano con noi dissero: ‘Ma come, voi non siete morti?’ e raccontarono l’accaduto: verso le dieci avevano svegliato gli occupanti della baracca 24 per andare alla doccia, dicendo che dovevano partire per un altro campo. Al ritorno entrarono nella baracca tutti nudi: i vestiti sarebbero stati riconsegnati la mattina dopo disinfettati, ma di notte nella baracca fecero entrare il gas. Non tutti dormivano e alcuni si accorsero di quello che stava succedendo: aprirono le finestre cercando un’impossibile via per salvarsi, ma ad ognuna erano stati messi i cosiddetti “pompieri” con delle sbarre di ferro che spaccavano la testa di chi tentava di passare. Alcuni ci riuscivano ma venivano abbattuti dalle SS schierate con le pistole spianate e tutti furono uccisi. “Erano tanti, e tra di loro c’erano anche 50-60 italiani. Alla sera sono andato alla baracca n. 24 e ho visto tutti quei cadaveri, uno sopra l’altro come fossero dei bastoni con il numero scritto in nero sulla schiena o sullo stomaco. Li conoscevamo quasi tutti, eravamo in baracca assieme da circa un mese, erano conciati male, avevano sofferto tanto ma resistevano. Si capiva che la liberazione era vicina, ma per loro non ci fu pietà”.
PERCHÈ LA MEMORIA ABBIA UN FUTURO
Il 5 maggio del ‘45 la liberazione del campo, e prima del ritorno in Italia il rischio di morire per un’intossicazione di carne da cavallo, perché, come dice il titolo di un noto libro sui campi di sterminio: Si fa presto a dire fame.
Fu difficile il reinserimento nella vita normale?
“I primi tempi evitavo di parlare di quell’esperienza, volevo dimenticare. Mia madre mi vegliava perché nel sonno mi agitavo, parlavo e gridavo in tedesco. Poi, piano, piano…” Signorelli ritornò in fabbrica ed è andato in pensione nel 1981: “Quarant’anni di Falck” dice con orgoglio operaio. Sposato, ha due figli e due nipoti.
Lei è uno dei più attivi fra i superstiti che vanno nelle scuole per raccontare ai giovani quell’esperienza. Non più dimenticare, ma ricordare.
“Sì. Devo però dire che all’inizio soffrivo molto nel ricordare quei fatti. Ogni volta tornavo a casa sconvolto perché parlando provavo un gran batticuore, qualcosa che quasi mi impediva di proseguire. Tanto che mia moglie un giorno mi disse: ‘Ma non continuare, se soffri così’”. Posa una mano sul volumetto del suo diario, “Vede, questo racconto l’ho interrotto più volte, ho preso i fogli e li ho buttati. Li ha raccolti e conservati mia moglie. Sono state pause di mesi. Provavo troppa sofferenza nel ricordare. Poi questo dolore si è molto attenuato e adesso sono tranquillo.”
Quando va nelle scuole non ha paura, come aveva al campo, di non essere creduto tanto sono terribili i fatti che racconta ?
“No, i ragazzi vengono numerosi, sono attenti e fanno molte domande.” Dovrei chiedergli perché malgrado quella sofferenza abbia continuato ad andare nelle scuole e finito il diario. Non glielo chiedo perché mi pare che la risposta sia scontata: perché la memoria abbia un futuro.
Da Triangolo Rosso, ottobre 2001