Triangolo rosso

Condannato dai giudici londinesi dopo due lunghi processi

L’inglese David Irving

Storico sì, ma anche “razzista e antisemita”

 

Aveva denunciato per diffamazione la ricercatrice americana Deborah Lipstadt che nel libro “Negare l’Olocausto” lo aveva dipinto come un pericoloso “negazionista”. Dovrà pagare 6 miliardi di onorari e spese legali altrimenti finirà in carcere. Un bel libro di David Guttenplan rievoca il lacerante dramma giudiziario svoltosi nell’aula della Royal Court of Justice

di Franco Giannantoni

 

David Irving, “uno dei più pericolosi negatori dell’Olocausto” in circolazione, dopo anni di processi e centinaia di udienze davanti a uno stuolo di avvocati di ogni rango, di cattedratici universitari di tutti i continenti e a quintali di documenti e di testimonianze della seconda guerra mondiale, ha ora un problema in più, quello di raggranellare al più presto sei miliardi di lire (l’equivalente di due milioni di sterline) per pagare le spese processuali e gli elevatissimi onorari degli avvocati della difesa a cui è stato condannato dai giudici del suo Paese, se vuole evitare l’onta del carcere che incombe minacciosa su di lui. Se gli mancassero i mezzi, cosa non improbabile, malgrado faccia affidamento sul successo del suo prossimo libro dedicato a Winston Churchill, una cella è già pronta per accoglierlo. In Inghilterra infatti il debitore che non paga va diritto in prigione. Il tempo a disposizione di Irving per saldare il conto è assai limitato. Il fallimento della sua dissennata e pericolosa iniziativa giudiziaria avviata nel 1996 e raccolta dalla penna del giornalista americano David Guttenplan nel libro Processo all’Olocausto (The Holocaust on Trial, Casa Editrice Corbaccio, pp.333, lire 30 mila) è stato completo: lo storico inglese infatti si è visto respingere nel luglio scorso, questa volta in appello, dall’Alta Corte di Londra le ragioni della querela per diffamazione intentata contro la professoressa americana Deborah Lipstadt, 53 anni, cattedra ad Atlanta alla Emory University (e contro la casa editrice Penguin Books Ltd) che in un saggio del 1994 dal titolo Negare l’Olocausto- Il crescente assalto alla verità e alla memoria (Denying the Holocaust), aveva accusato Irving di voler falsificare la storia negando o sottovalutando il genocidio degli ebrei sotto il nazismo per finalità ideologiche. Secondo il sistema processuale inglese, Irving aveva sfidato Deborah Lipstadt a dimostrare che le camere a gas erano effettivamente esistite, trasformando la querela per calunnia in un vero e proprio processo sul genocidio, sui sistemi con i quali il Reich si era sbarazzato degli ebrei e delle razze giudicate inferiori e, ancora, sulle ragioni per cui gli alleati non fecero nulla per arrestare o mitigare il massacro. Uno scenario a vastissimo raggio che indusse non solo la Penguin Books Ltd, editrice del libro della Lipstadt a investire oltre un milione di sterline in parcelle d’avvocati e altre centinaia di migliaia per procurarsi la testimonianza dei periti ma anche lo stesso stato di Israele a battersi a fondo (con altrettanti ingenti sforzi finanziari) perché le bizzarre tesi di Irving non fossero implicitamente avallate. Non che il 63enne scrittore inglese, ultimo di quattro figli, il padre ufficiale di marina e famoso esploratore, la fanciullezza segnata dalla guerra, nel suo lungo cammino revisionista, ricco di una trentina di libri, dalla biografia del capo della propaganda germanica Josef Gobbels, alla guerra di Hitler, all’apocalisse a Dresda, avesse negato i massacri nazisti, anche se aveva voluto precisare con una tesi alquanto risibile e bizzarra che essi “non erano avvenuti in maniera significativa”. Irving aveva però messo in dubbio, con subdole ricostruzioni storiografiche e con strumentali utilizzi delle fonti documentarie che gli eccidi in tutta Europa fossero stati il frutto di un progetto sistematico, che la “soluzione finale” alle conferenze di Wannsee del 1942 era stata un prodotto della propaganda ebraica ed alleata e che mancava la prova certificata e tranquillante che Hitler avesse impartito l’ordine di procedere al sistematico sterminio (il dittatore fino al 1943, secondo Irving, sarebbe stato tenuto all’oscuro dai suoi ministri della reale portata dei massacri e, comunque, se qualcuno fosse stato in grado di esibire la prova contraria, Irving stesso avrebbe versato molto volentieri la bella somma di mille dollari!). Orgoglioso e testardo, certamente in malafede, visti gli esiti processuali, Irving, ha respinto in ogni momento l’accusa d’essere un “negazionista”. “È stata - ha commentato davanti al giudice Charles Gray - un’accusa particolarmente maligna perché nessuna persona nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, può negare che la tragedia sia veramente accaduta, per quanto noi storici dissidenti possiamo provarci a cavillare sui mezzi usati, la portata, le date ed altri dettagli”. Il problema posto da Irving era stato più sottile, infido, scivoloso. Quando Irving scrive che Hitler non sapeva della soluzione finale, o dice che non c’erano camere a gas ad Auschwitz e che in quattro anni vi furono meno vittime di quelle che furono uccise in una sola notte dal bombardamento alleato di Dresda, quello che fa (secondo lui) non si differenzia dal comportamento di uno storico che vuole persuadere che Lee fu un generale migliore di Grant o di un archeologo che dubita che i greci e che i troiani siano mai giunti davvero a combattere per Elena di Troia. Insomma, per Irving, sono dettagli e non è giusto escludere dal dibattito coloro che si misurano con questo tipo di materia. Se Irving sostenendo questa posizione, ha dimostrato di sapersi muovere con abilità, senza scatenare reazioni forti, facendo in qualche occasione delle concessioni alla controparte, il suo atteggiamento, come detto, è mutato quando gli è stato affibbiato il marchio del “negazionista”.

Il maturo scrittore ha perso la testa

È stato il momento in cui il maturo scrittore ha perso la testa, come fosse stato morso da una tarantola. “È un’etichetta - ha detto ai giudici - questa del negazionista che non ha virtualmente antidoto, meno letale di una siringa ipodermica con del gas nervino conficcata nel collo, ma altrettanto funesto. Per la vittima prescelta è come essere accusato di picchiare la moglie o di pedofilia. È sufficiente che l’etichetta sia applicata ad una persona perché essa si trovi designata come un paria, un emarginato dalla società. È una stella gialla verbale”. Irving per difendersi ha attaccato il movimento ebraico nel mondo, il suo potere finanziario che con il denaro avrebbe messo la sordina alle sue idee sino a giungere a gridare ai giudici che gli ebrei hanno fomentato una cospirazione internazionale avendo lo scopo di screditare le sue idee, operazione in grado di essere ripetuta ogni volta che uno “storico dissidente” osi mettere in discussione quella che deve essere la sola verità. Da qui la sua difesa, rigettata sul querelato, attraverso un meccanismo difficile da governare. “Questo processo, ha spiegato Irving, non verte in realtà su ciò che accadde nell’Olocausto, o su quanti ebrei e altre minoranze perseguitate vennero torturate e condannate a morte. Può essere che io sia totalmente ignorante su alcuni aspetti della seconda guerra mondiale, e vi dico subito che non credo di esserlo, ma che io sia accusato di manipolazione deliberata, di distorsione dei fatti e di errori di traduzione è perverso. I querelati debbono dimostrare, a mio modesto avviso, primo, che una cosa importante è accaduta o esistita; secondo, che io ero consapevole di questa particolare cosa come accaduta o esistita nel momento in cui scrivevo di essa attingendo dai documenti allora in mio possesso; terzo, che io ho allora premeditatamente manipolato il testo, ho cambiato la traduzione e l’ho distorto per quegli scopi che essi sottintendono”. La prima sentenza di condanna era stata emessa dalla Royal Courts of Justice di Londra nell’aula 36 alle 10,30 dell’11 aprile 2000. I due grandi avversari erano regolarmente presenti. Deborah Lipstadt vestiva un austero abito scuro. David Irving era senza giacca, con una camicia a righe bianche e blu e una cravatta a righe blu e gialle, parzialmente coperte da un panciotto grigio e rosso. La sentenza, 333 pagine in 245 paragrafi, lette per due ore ininterrottamente dal giudice Charles Gray, è stata per Irving una autentica mazzata, una sonora sconfitta su tutta la linea, dal tema di Hitler, ad Auschwitz, alla soluzione finale, al bombardamento di Dresda, alle responsabilità della “ notte dei cristalli”. Senza entrare specificatamente nel merito del fatto storico (“non spetta a me formare - ha precisato il giudice Gray - né tanto meno esprimere un giudizio sull’accaduto”), il magistrato inglese aveva smascherato il disegno dello scrittore inglese definendolo “razzista e antisemita”. “Per motivi ideologici – dice testualmente la motivazione - Irving ha travisato le testimonianze e proiettato la figura di Hitler sotto una luce favorevole, negando l’Olocausto, assumendo posizioni antisemite e razziste e legandosi ad elementi neonazisti. Appare innegabile che in assenza di qualsiasi giustificazione o spiegazione attendibile di quanto ha dichiarato o scritto, Irving sia da definirsi antisemita. Le sue parole sono dirette contro gli ebrei, sia individualmente che collettivamente, nel senso che esse sono di volta in volta ostili, critiche e derisorie nel loro riferirsi ai popoli semiti, alle loro caratteristiche fisiche e comportamentali”. Contro questa inequivoca valutazione, David Irving si era rivolto alla Corte suprema mettendo in gioco tutto il suo prestigio e anche il suo futuro, coscio che una nuova sconfitta, avrebbe significato la fine. E così è stato.

L’Olocausto non si tocca, dice la Corte di Londra...

L’Olocausto non si tocca. Tre giudici d’appello hanno respinto l’istanza di annullamento della precedente sentenza, spazzando via, come carta straccia, l’architrave del pensiero negazionista “irviniano”, dalla teorizzazione che il gas Zyklon B non fosse stato fabbricato ed usato per uccidere gli ebrei bensì per motivi igienico-sanitari, al fatto che le camere a gas non fossero tecnicamente abilitate per l’eliminazione di massa e infine, che i documentari americani girati dopo la scoperta dei campi, altro non fossero che versioni hollywoodiane in funzione del processo di Norimberga. Nella storia dell’antisemitismo, il processo “Irving contro Lipstadt”, rimarrà un capitolo fondamentale. Qualcuno ha scritto che David Irving è stato punito dalla giustizia per aver negato il genocidio e che la storia era finita per sua colpa in tribunale. Non è esatto. Lo scrittore inglese è stato condannato per aver costretto un tribunale, con la sua spericolata iniziativa giudiziaria, a pronunciarsi sulla credibilità delle sue tesi storiche. La conclusione, secondo i giudici, è stata che le affermazioni di Deborah Lipstadt non potevano considerarsi calunniose a cominciare da quella che dipingeva Irving come la figura chiave di un movimento teso a riabilitare il nazismo attraverso la negazione della realtà storica dei suoi crimini. David Guttenplan, il cronista Usa, non ha perduto una sola udienza della lunghissima maratona giudiziaria. Ha vissuto ora per ora la complessa battaglia, ha ascoltato a lungo le voci dei due contendenti, ha intervistato il giudice Charles Gray, ha esaminato montagne di atti, mischiato in un’aula zeppa come un uovo a qualche sostenitore con tanto di svastica di Irving, a qualche ebreo osservante con il caratteristico zucchetto, a uomini e donne anziani con i numeri tatuati sull’avambraccio, i sopravvissuti di Dachau, Buchenwald, Bergen-Belsen o Plaszow dove vivevano gli operai di Oskar Schindler. Nel suo libro è possibile ripercorrere quella che non è solo la storia di un processo ma è soprattutto la memoria della Shoah. Scrive David Guttenplan al termine della sua fatica, osservazioni che devono servire ad aiutare chi voglia muoversi, senza perdere la rotta, nell’intricato cammino del grande massacro: “la sentenza ragionata di Charles Gray ha ratificato tutti i punti fondamentali che la difesa cercava di stabilire. Si è dimostrato che David Irving è un bugiardo, un razzista ed un pervertitore dell’evidenza storica, che non è un affidabile interprete di importantissimi eventi storici, bensì un uomo sulla cui parola non si può più contare neanche per il minimo dettaglio. Si è dimostrato anche, seppur solo implicitamente, il diritto degli ebrei e di altri gruppi etnici diffamati a rispondere con impeto, e in forma organizzata, quando sono attaccati”. La sentenza è andata più in là. Ha inchiodato Irving anche sul proprio terreno, sull’utilizzo delle sue fonti, “affermando che, soltanto in base agli elementi probatori a sua disposizione - non alla totalità di essi - i dati storici erano abbastanza chiari da rendere obbligatoria la conclusione che l’Olocausto è effettivamente avvenuto, che Hitler fu come minimo ben consapevole di quanto stava accadendo, e che solo una mente adulterata dai pregiudizi può negare la realtà delle camere a gas di Auschwitz”. “A me sembra corretto e inevitabile, ha concluso il giudice Gray, che la falsificazione della ricostruzione storica sia stata in gran parte deliberata, e Irving fosse sollecitato dal desiderio di porgere i fatti in modo coerente ai propri convincimenti ideologici, anche quando ciò comportasse distorcimento e manipolazione dell’evidenza storica”.

...ma è già in agguato qualche altro negazionista

Dunque, secondo David Guttenplan, almeno sul piano giudiziario, la storia è stata certamente salvata. Ma è stato sufficiente? Irving nella sua opera molesta contro gli ebrei è stato intercettato e reso incapace di fare altro male e il peso del denaro chiamato a sborsare costituirà comunque un forte deterrente. Ma ci saranno certamente altri negazionisti già in agguato che non riterranno di doversi inchinare alla sentenza di Charles Gray, pronti a entrare in azione, a proseguire un’operazione che i sostenitori di Deborah Lipstadt dovranno essere capaci di contrastare. “Si è trattato di una sentenza perversa”, è stato il commento di Irving mentre lasciava l’aula di giustizia da un’uscita secondaria dopo la prima condanna. “Sono molto felice che si sia affermata la verità di quello che ho scritto”, ha replicato Deborah Lipstadt. Parole che sono servite a far ritornare il sorriso anche di fronte ai due milioni di sterline spesi per contrastare Irving. “A volte i principi, ha concluso Anthony Forbes - Watson, editore della Penguin Books Ltd, sono più importanti delle considerazioni economiche”.

 Da Triangolo Rosso, ottobre 2001

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