Triangolo rosso
RAPPORTO GENERALE COMMISSIONE ANSELMI
OLTRE DUE ANNI DI ATTIVITÀ
Con decreto del presidente del Consiglio dei ministri il 1° dicembre 1998 è stata istituita una commissione alla quale è stato affidato “il compito di ricostruire le vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni di cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati.” La commissione, presieduta dall’on. Tina Anselmi, ha concluso i suoi lavori il 30 aprile 2001, dopo ventotto mesi di attività. La commissione ha naturalmente esaminato una grande mole di documenti ed ha contattato direttamente o indirettamente numerosi organismi in grado di fornire documentazione utile ai fini della ricerca. La commissione ha svolto un’attività complessa dovuta in primo luogo alla vastità delle spoliazioni ed alla gravità gradualmente crescente dei provvedimenti razziali ed ha dovuto affrontare, come sottolinea la presidente, “difficoltà connesse con la dislocazione degli archivi, con la loro parziale distruzione dovuta ad eventi eccezionali, con il loro mancato riordino”. Ciò malgrado, dice Tina Anselmi, “sono in grado di affermare che la commissione ha raccolto una vasta documentazione di oggettivo interesse.” Da rilevare tra l’altro la validità dell’iniziativa governativa di affidare ad una commissione il compito di esplorare un aspetto che non era mai stato affrontato in termini complessivi. A conclusione dei suoi lavori la commissione ha rivolto alcune raccomandazioni fra le quali: che le istituzioni pubbliche e private operanti nel settore culturale e scientifico sviluppino la ricerca storica sulla persecuzione antiebraica fascista e nazista in Italia; il sostegno a tutte le iniziative che, anche attraverso la conservazione della memoria delle vittime della Shoah in Italia, operano per creare una coscienza civile ed un’attitudine permanente e consapevole al rispetto dei diritti personali e sociali.
LE SPOLIAZIONI DEI BENI DEGLI EBREI IN ITALIA
Quando i soldi sanno di lacrime e sangue
Parlando il 6 settembre 1934 a Bari, Mussolini irrise l’ideologia razziale nazista, affermando di “guardare con sovrana pietà a talune dottrine d’Oltralpe”. Due anni dopo quelle dottrine cui il duce guardava con “sovrana pietà” cominciarono a diventare precise disposizioni che anticipavano la legislazione persecutoria. Nel dicembre ‘36 gennaio ‘37 Mussolini si espresse contro nuove collaborazioni di ebrei al suo quotidiano Il popolo d’Italia. Nel ’38 Mussolini impartì ai capi di gabinetto dei ministeri della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica una direttiva ufficiale per la non ammissione di ebrei nelle accademie militari. Nell’agosto del ‘38 il ministro dell’Educazione nazionale vietò il conferimento di supplenze e incarichi di insegnamento a “docenti di razza ebraica”, salvo eccezioni da lui medesimo autorizzate. Nel settembre del ‘38 la Confederazione fascista dei lavoratori del credito e della assicurazione chiese ai segretari delle Unioni interprovinciali della stessa di “sottoporre” al federale le proposte di “eventuali ulteriori assunzioni … di elementi di razza ebraica.”
Il censimento
Premessa indispensabile al varo delle leggi contro gli ebrei era naturalmente il censimento di coloro che avrebbero dovuto essere perseguitati e dei loro beni. Il censimento, effettuato il 22 agosto 1938, accertò la presenza in Italia di 58.412 residenti nati da almeno un genitore ebreo o ex ebreo, suddivisi in 48.032 italiani e 10.380 stranieri residenti nel nostro Paese da oltre sei mesi. La successiva definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” ridusse il numero degli assoggettati alla persecuzione a circa 51.100. Censite le persone si passò nell’autunno del 1938 ai primi censimenti dei beni, soprattutto per quanto riguarda i depositi bancari, ma non in modo generalizzato.
La svendita de “il Piccolo”
Vista la gran brutta aria che tirava, ci furono naturalmente vendite, svendite, ristrutturazioni del patrimonio per renderlo esportabile. Nell’agosto del 1938 il capo della polizia segnalava ai prefetti che “gli ebrei starebbero procedendo …al disinvestimento dei loro beni non strettamente liquidi, reinvestendo il ricavato nell’acquisto di gioielli e anche di oro…” Di fronte alla possibilità che i perseguitandi emigrassero con i loro capitali resi liquidi o più semplicemente li trasferissero in Paesi dove non c’era rischio di persecuzione, fu aumentata la vigilanza su di essi, specie quella confinaria. Il caso più clamoroso di svendita segnalato è senza dubbio quello del quotidiano triestino il Piccolo. Nel periodo estate – autunno 1938, a conclusione di una complessa trattativa, il giornale, che il proprietario a luglio valutava anche 15 milioni di lire, venne ceduto per due milioni e alcune compensazioni.
I “discriminanti”
Contrariamente al significato negativo che questo termine assume, risultava invece positivo in relazione al censimento degli ebrei del ‘38, perché circa 6.500 di essi ottennero il provvedimento di “discriminazione” che comportava l’esenzione da un ristretto numero di norme persecutorie.
La grande persecuzione
Autunno 1938. Sono passati quattro anni dal discorso di Bari e le “talune dottrine d’Oltralpe”, dopo il prologo, sono diventate le ispiratrici della persecuzione contro gli ebrei. Mussolini non vuole essere secondo a Hitler nell’antisemitismo. C’è un’intensa campagna di stampa e quelli che prima erano episodi significativi ma limitati diventano un’implacabile offensiva a tutto campo. Il cerchio della persecuzione si stringe, la vita per gli ebrei diventa più difficile, giorno dopo giorno, e per parecchi di essi impossibile.
Scacciati - Circa 8.100 ebrei non furono ammessi a risiedere in Italia. Circa la metà lasciò il nostro Paese entro il marzo 1939. Coloro che non potevano ottemperare all’obbligo di lasciare l’Italia (occorreva infatti che ci fosse un’altra nazione disposta ad accoglierli e i soldi per pagarsi il viaggio) non avevano altra scelta che il lavoro clandestino e l’impoverimento raggiunse dimensioni spaventose.
Licenziamenti - Entro il 4 marzo 1939 licenziati tutti i dipendenti pubblici di “razza ebraica”, ossia impiegati dello Stato, delle province, dei comuni, delle aziende municipalizzate, ecc. Per gli insegnanti e gli altri dipendenti scolastici la data del licenziamento fu il 14 dicembre 1938. I professori universitari ordinari e straordinari espulsi furono 96, pari al 7 per cento dei componenti la categoria; gli insegnanti delle scuole medie e superiori che seguirono la stessa sorte furono 279. I licenziamenti non risparmiarono neppure gli ufficiali in servizio: dall’esercito ne furono espulsi 81, 27 dalla marina. In genere i licenziati avevano diritto alla pensione o ad un’indennità di licenziamento. Poi tocca a tutti gli ebrei impiegati in enti e imprese parastatali o privati ma controllati o sostenuti dallo Stato. Le misure persecutorie non risparmiano niente e nessuno: impiegati in scuole private, banche di “interesse nazionale”, imprese private di assicurazione. I cittadini italiani di “razza ebraica non discriminati” non potevano essere dirigenti di aziende situate in Italia interessanti la difesa della nazione. Lo stesso divieto per amministratori
o sindaci di queste aziende. E se dall’agosto del ‘39 gli ebrei non possono più esercitare la professione di notaio e di giornalista ai divieti non sfuggono neppure quelli impiegati negli alberghi.
Terra bruciata - Terra bruciata per coloro che esercitavano una serie numerosa di professioni: medico chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, ingegnere, architetto, ecc. Se non erano “discriminati” e purché non noti antifascisti e di “specchiata condotta morale” dal marzo del ‘40 vennero iscritti in elenchi speciali e abilitati ad esercitare la professione “esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica”, tranne casi di comprovata urgenza. I “discriminati” vennero iscritti in elenchi aggiunti; tutti furono esclusi dalla possibilità di esercitare per conto di enti pubblici.
Diritti d’autore
Nell’agosto del 1938 viene vietata l’adozione nelle scuole medie di libri di testo d’autore o coautore di “razza ebraica”, divieto esteso nel febbraio del ‘39 anche alle carte geografiche murali. Le opere di autori ebrei vengono progressivamente escluse dai programmi dei teatri lirici e di prosa, dalle trasmissioni musicali della radio, dai cataloghi delle case discografiche, dalle sale cinematografiche, fino ad essere bandite dall’intero settore dello spettacolo. Le case editrici cessano pressoché del tutto di pubblicare nuove opere di autori ebrei tra la fine del ’38 e gli inizi del ‘39; nel febbraio del ‘40 ritirano quasi tutte quelle già in commercio. Il 30 settembre del ’38 viene reso noto l’elenco degli autori scolastici vietati che comprende 114 nomi È il caso di rilevare come queste ultime misure persecutorie abbiano impoverito non solo gli interessati ma anche il panorama culturale del Paese.
Il suicidio di Formiggini
Una delle vittime illustri dei provvedimenti persecutori è stato, fra gli altri, il giornalista ed editore modenese Angelo Fortunato Formiggini. Formiggini creò una serie di collane: Classici del ridere, Medaglie, Apologie, Profili. Pubblicò nel ‘28 un Chi è con successive edizioni. Fondò l’Istituto Leonardo per la propaganda della cultura italiana. Scrisse nel ‘23 “La piccozza filosofica del fascismo”. In segno di disperata protesta contro le leggi razziali che colpivano la sua attività si tolse la vita gettandosi dalla torre Girlandina.
Anche i colombi viaggiatori
Persino l’allevamento di colombi viaggiatori era proibito agli ebrei (per il timore che usassero i volatili per intese col nemico?) insieme a tutte le attività lavorative possibili e immaginabili tra le quali: raccolta di rottami metallici, vendita di libri scolastici, guida turistica, interprete, affittacamere, titolare di agenzia viaggi e turismo, esercizio di pensione, esercizio bar e spacci di alcolici (esteso successivamente ai coniugi ariani subentranti), commercio oggetti antichi e d’arte e di libri usati, persino la gestione di scuole di ballo. Con questi divieti e molti altri che si susseguirono nel tempo agli ebrei veniva impedito di lavorare e quindi di vivere.
Il dramma degli ambulanti
Il divieto di esercitare questa attività venne stabilito il 30 luglio 1940 e il 12 novembre dell’anno dopo esteso ai coniugi “di razza ariana subentranti”, il che significava impossibilità di vendere la licenza. In termini numerici l’esclusione dal commercio ambulante fu la più consistente. In particolare riguardò Roma dove la misura, secondo l’Unione delle comunità israelitiche italiane, colpiva “circa 900 capi-famiglia del popolino, tutti con moltissimi figli ed altre persone a carico (e l’Unione aggiungeva che, “in mancanza di ogni possibilità di trovare una via di uscita a questa loro situazione potrebbe spingere parecchi a procacciarsi in modo illecito i mezzi della vita per loro e i loro congiunti.”
Speriamo che sia maschio
Nella ricerca di nuove restrizioni all’attività degli ebrei nel novembre-dicembre 1942 fu deciso che i coniugi di “razza ariana” in nessun caso potevano subentrare al coniuge di “razza ebraica” e che il coniuge “ariano” di un matrimonio misto poteva conservare o ottenere la licenza solo se questi era il maschio della coppia.
La fame
Nel dicembre del 1940 gli ebrei furono esclusi dall’elenco dei poveri, e cioè non poterono usufruire dell’assistenza pubblica; prima del 1942 le famiglie bisognose di razza ebraica furono escluse, salvo casi eccezionali, dall’assistenza invernale” prestata dagli Enti comunali di assistenza; dal luglio 1938 cessò il contributo statale di 11.500 lire a favore degli asili infantili israelitici. Nel marzo del ‘42 venne addirittura proibito agli ebrei di acquistare carne di bassa macellazione presso l’apposito spaccio del rione Trastevere. Del resto già alla fine del 1938 un dirigente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane parlava di “impellenti dolorose necessità di tanti correligionari stranieri divenuti improvvisamente indigenti, mentre comincia ad avanzarsi lo spettro dell’indigenza di correligionari connazionali colpiti dai recenti provvedimenti.”
Dopo i beni, la vita
L’ebreo non è più un diverso ma un nemico. Alla persecuzione dei diritti e dei beni subentra quella delle vite. La data in cui avviene questo radicale, drammatico cambiamento, è il 14 novembre 1943 quando si riunisce a Verona l’assemblea del nuovo partito fascista repubblicano (Pfr) che approva un “manifesto programmatico” nel quale si stabilisce: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.” Le affermazioni programmatiche trovano pronto riscontro nei provvedimenti persecutori decisi dalla Repubblica sociale Italiana (Rsi), lo stato fantoccio creato dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, meglio noto come “Repubblichetta di Salò” dal nome della località gardesana dove aveva sede il governo. Trovano applicazione da parte della Rsi e dei tedeschi i quali, dopo l’8 settembre, istituiscono nelle regioni nordorientali del Paese due “zone” speciali: la zona di operazione Prealpi, comprendente la province di Bolzano, Trento e Belluno e la zona di operazione litorale adriatico comprendente le province di Udine, Gorizia,Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. In esse assumono sia la responsabilità militare che quella civile. Nel resto della penisola (tranne naturalmente il Sud dove si erano trasferiti il governo Badoglio ed il re in seguito alla precipitosa fuga da Roma l’8 settembre) la responsabilità civile viene assunta dalla Rsi. Secondo i dati del rapporto le persone residenti nell’Italia centrale e settentrionale classificate di “razza ebraica” e assoggettate alla persecuzione delle vite furono circa 43 mila , suddivise in circa 8 mila stranieri e 35 mila italiani. Di esse circa 500 riuscirono a passare la linea del fronte e a raggiungere le regioni meridionali; altre 5.500-6.000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera; circa 7.700-7.900 vennero arrestate nella penisola per poi essere deportate o uccise in Italia: più precisamente vi furono 6.720 deportati oggi identificati (5.896 uccisi e 824 sopravvissuti), 680-880 deportati dei quali non è stato possibile appurare i nomi (presumibilmente per lo più uccisi) e 299 uccisi in Italia per eccidio o comunque per responsabilità dei persecutori. Circa 29.000 persone classificate “ di razza ebraica” vissero in clandestinità fino alla Liberazione e circa un migliaio partecipò alla Resistenza.
Arresti, deportazioni, eccidi
La nuova fase della persecuzione antiebraica fu gestita solo dai tedeschi nelle due “zone speciali”, dapprima dai soli tedeschi e poi da questi assieme agli italiani nelle altre regioni. Tra metà settembre e i primi di ottobre i tedeschi procedettero all’arresto e all’internamento di ebrei del Cuneese, all’uccisione di 56 ebrei sulla sponda piemontese del lago Maggiore, al rastrellamento di ebrei in provincia di Ascoli Piceno, a Trieste, a Roma, in Toscana e nel triangolo Torino-Genova- Milano. Gli ebrei arrestati dai tedeschi e dagli italiani vennero raggruppati in carceri o campi della penisola e poi deportati ad Auschwitz. Inizialmente i convogli partirono dalle località degli arresti; dal febbraio del ’44 dai campi di concentramento degli ebrei arrestati: Fossoli di Carpi, in provincia di Modena, e poi, dall’agosto 1944, a Bolzano-Gries. Nel litorale adriatico gli ebrei arrestati dai tedeschi vennero concentrati a Triste, dapprima nel carcere del Coroneo e poi nel campo della Risiera di San Sabba: da lì furono deportati ad Auschwitz.
“Maledetti figli di Giuda”
Il 30 novembre ‘43 il ministro dell’Interno della Rsi diramò un ordine con il quale veniva disposto l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei… a qualunque nazionalità appartengano” e il loro internamento “in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.” L’indomani cominciò l’allestimento dei campi ed i questori iniziarono ad effettuare gli arresti. Successivamente venne deciso di escludere dall’internamento i membri di famiglie miste, i malati gravi e gli ultrasettantenni. Tra i provvedimenti adottati contro il “nemico” ebreo ci fu l’aumento della sorveglianza al confine con la Svizzera. Il comando della II legione “Monte Rosa” della guardia nazionale repubblicana confinaria, fiero dei 58 arresti eseguiti “dai primi di ottobre ad oggi” e dei rilevanti valori sequestrati”, il 12 dicembre ‘43 scrisse al capo della provincia di Como: “ È così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica – rifugio di rabbini- tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste (sic!) è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia nazionale repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi, con qualsiasi tempo ed in qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati, vigilano per sfatare (sic!) ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda.”
Sequestro e confisca
L’ordine di polizia del ministro dell’Interno del 30 novembre stabiliva, oltre all’arresto e all’internamento degli ebrei, che “tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica sociale italiana la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche”. La confisca dei beni venne decisa con un decreto legislativo del 4 gennaio 1944. Il decreto riguardava i beni di tutte le persone fisiche classificate di “razza ebraica”, sia italiane, anche se discriminate, sia straniere, anche se non residenti nella Rsi. Esse non potevano possedere nel territorio della Rsi “aziende di qualunque natura… terreni… fabbricati… titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie… altri beni mobiliari di qualsiasi natura.
Persino i fascisti si vergognavano
I decreti di confisca venivano pubblicati sulla Gazzetta ufficiale d’Italia ed elencavano tutti i beni posseduti dall’ebreo: aziende, terreni, fabbricati, crediti vari, valori depositati nelle banche, mobili di arredamento, soprammobili, stoviglie, lenzuola, vestiario, spazzolini da denti, ecc. Verso la fine di aprile 1944 il ministro dell’Educazione nazionale segnalò alla presidenza del Consiglio dei ministri che la lettura di decreti di confisca elencanti “2 paia di calze usate” o , “1 bandiera nazionale, 1 bidè, 1 enteroclisma”, o ancora “una maglia di lana fuori uso, 3 mutandine usate sporche” ecc. suscitava “negativi apprezzamenti.” Successivamente i ministeri competenti avvisarono i capi delle province (nuova denominazione dei prefetti, N.d.r.) che “una elencazione molto particolareggiata dei beni… non appare assolutamente opportuna” e che “la descrizione di tali oggetti è troppo dettagliata e minuziosa, sì da comprendere indumenti intimi: oggetti di scarsissimo valore o strettamente personali e tali che la enunciazione può determinare e determina commenti che sarebbe bene evitare.”
Furti e saccheggi
Se fino all’8 settembre ’43 la spoliazione dei beni degli ebrei avvenne, pur con i suoi odiosi aspetti persecutori, quasi esclusivamente ad opera dello Stato sulla base di norme stabilite, dopo tale data subentrò l’arbitrio. Nota infatti il Rapporto come il processo di spoliazione venisse “affidato, da un lato, all’iniziativa di istituzioni fortemente indebolite e quindi sempre più governate dall’arbitrio dei funzionari ad esse preposte e, dall’altro, all’intervento di soggetti privati, portati ad approfittare di più o di meno della loro vicinanza ai perseguitati in difficoltà, alle loro famiglie e alle loro cose.” “Abiti da sposa, corredi, giocattoli, quadri, strumenti musicali, intere biblioteche: la scomparsa di oggetti con un valore simbolico e affettivo oltre che materiale, rappresentò per molti la sparizione del proprio passato, della tradizione familiare, l’ennesima manifestazione di un taglio netto con la vita precedente, di un mondo definitivamente perduto. Così come le abitazioni private anche molti negozi, dai grandi magazzini alle modeste botteghe di quartiere, erano stati oggetti di ruberie e devastazioni per opera di nazisti e fascisti di Salò.” Episodi del genere si verificarono in numerose province dell’Italia centro-meridionale. Il più clamoroso, e anche il più noto, è quello compiuto contro gli ebrei romani ai quali i tedeschi, nel settembre ’43, imposero una taglia di cinquanta chili d’oro in cambio della salvezza, impegno tradito ventuno giorni dopo.
“Come, dobbiamo anche pagare? !”
Per gestire e liquidare i beni ebraici espropriati, nel 1939 venne istituito l’Egeli, sigla che significa Ente di gestione e liquidazione immobiliare che, essendo stato incaricato anche di altri compiti dopo lo scoppio della guerra come la gestione di beni di cittadini di nazionalità straniera, cesserà la sua attività soltanto nel 1997. L’Ente per la gestione dei beni espropriati si avvalse anche dell’attività di una serie di banche. Secondo il rapporto sul finire del 1946 i beni ebraici furono quasi tutti restituiti ma allora si pose lo spinoso problema delle richieste ai cittadini espropriati delle spese di gestione, avanzate dall’Egeli o dalle banche. Si calcolava che a tutto il 1947 i compensi dovuti all’Egeli ammontassero a più di 22 milioni di lire cui andavano aggiunti 3 milioni e 300 mila lire relativi ai beni gestiti extra Egeli. Le richieste sollevarono forti proteste da parte degli interessati, sostenuti dall’Unione delle comunità israelitiche italiane, i quali chiedevano l’annullamento da parte dello Stato di quanto preteso argomentando in sostanza: “Come, ci hanno depredato e dobbiamo anche pagare ?!”
Lettera di protesta
In una lettera all’Unione delle comunità israelitiche del ’48, Arrigo Vita scrive: “…vi segnalo che l’Istituto S.Paolo di Torino mi ha richiesto la somma di L. 18.650 per la gestione del mio alloggio… durante il periodo nazifascista… Ho rifiutato di pagare ritenendo che l’Egeli abbia avuto la funzione di campo di concentramento per i nostri beni…”. Un’altra lettera, dai toni molto più duri, della quale non viene citato il mittente, venne inviata al San Paolo il 23 novembre 1947 e dice: “ Con disinvoltura ora …definite il governo della Repubblica sociale ‘sedicente governo’ mentre lo avete fedelmente servito interpreti ed esecutori di tutti i soprusi escogitati dai nazifascisti contro i perseguitati razziali… “Ma affinché non vi sembri questa mia uno sfogo polemico per disconoscere le Vs/’benemerenze’ desidero raccontarVi alcune Vs/ responsabilità nei ns/ confronti come saggio di ciò che sarà accaduto a quasi tutti gli altri; gli assassinati senza eredi non hanno più voce e lasciano per ora a voi il godimento dei frutti dei loro beni… “Il 5 febbraio 1944 presenti Vs/ funzionari e si direbbe col Vs/ compiacente e indifferente consenso, è avvenuto che nazifascisti bene informati saccheggiassero masserizie e arredi nell’alloggio di mia madre e negli uffici delle mie società… Il 26 agosto con colpevole infingardaggine e leggerezza avete consentito la preordinata asportazione dei mobili dall’ufficio della ditta con lo scempio di preziosissimi e insostituibili documenti di archivio, documenti, ecc. oltraggiosamente svuotati per terra e abbandonati alla loro inevitabile dispersione… E così andarono perduti tutta la corrispondenza dei miei cari defunti, manoscritti e poesie inediti di letterati miei amici, libri, documenti notarli ecc. e una collezione di 2000 francobolli antichi... “La cosiddetta Vs/ gestione si è limitata a cristallizzare gli affitti nella misura di quelli del 1934… “Ed ora dopo oltre 21 mesi ci presentate in forma perentoria un conto globale di oltre il doppio di quanto faticosamente percepito. A parte la questione morale che segnalerò al ministero delle Finanze, sarebbe inammissibile far pagare alle vittime della persecuzione le spese di una gestione escogitata a loro danno da aguzzini, per impadronirsi delle proprietà di candidati alle camere a gas. Vi segnaliamo il fatto che noi non vi abbiamo nominati ns/ tutori.” Di fronte a numerose prese di posizione come questa neppure la riduzione del 50 per cento delle somme richieste annunciata nel 1951 veniva giudicata soddisfacente dall’Unione.
Il compromesso - Anche se nel rapporto non si hanno indicazioni più precise, sembrerebbe che si sia giunti ad un compromesso proposto in modo informale dall’Unione. Il ministero del Tesoro, sulla base di sue valutazioni etiche, economiche, giuridiche, perveniva alla conclusione di abbandonare ogni azione di recupero dei crediti rappresentati dai compensi di gestione a carico dei proprietari già perseguitati e a puntare all’incameramento dei beni degli ebrei non rivendicati dagli aventi diritto dopo l’abrogazione delle leggi razziali
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Per la prima volta nel libro di Enrica Basevi
Ed ecco la storia delle infami spoliazioni
Enrica Basevi, I beni e la memoria. L’argenteria degli ebrei: piccola “scandalosa” storia italiana (con scritti introduttivi di Amos Luzzatto e Roberto Finzi), Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2001, pp. 194, 24.000 lire.
Michele Sarfatti
Ho incontrato e conosciuto Enrica Basevi nel corso dei lavori della commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, la “commissione Anselmi”, istituita dal presidente del Consiglio dei ministri D’Alema per riferire sulla spoliazione avvenuta in Italia dal 1938 al 1945 ai danni degli ebrei, attiva dal dicembre 1998 all’aprile 2001. Abbiamo, noi della commissione Anselmi, aperto serie archivistiche mai consultate e fascicoli già noti. Siamo entrati negli archivi dello Stato e delle banche, abbiamo ricevuto documentazione dalle compagnie di assicurazione e dalle poste, abbiamo scritto a uffici della giustizia e a case editrici, ci siamo interessati a vicende individuali e abbiamo seguito i processi generali. Abbiamo così ricostruito come si svolse la spoliazione e come si svolse la successiva opera di restituzione. E abbiamo fatto ciò tenendo presente che avvenne una vera e propria “persecuzione del lavoro e dei beni” degli ebrei, ma che essa non fu, ahimé, l’aspetto principale della persecuzione antiebraica. In sostanza cosa accadde? Nel 1938-1943 accadde che gli ebrei che lasciarono la penisola, per espulsione o per decisione “volontaria”, vennero depauperati con strumenti doganali e che gli ebrei che rimasero nella penisola vennero depauperati con divieti lavorativi sempre più estesi, con la progressiva riduzione dell’assistenza pubblica, coll’esproprio economicamente punitivo di quote di proprietà immobiliare. Nel 1943-1945 accadde che agli ebrei venne confiscato “legalmente” ogni “bene” posseduto: denaro contante, azioni, titoli pubblici, depositi bancari, polizze assicurative, diritti economici d’autore, terreni, case, mobili, culle, soprammobili, argenteria, gioie, quadri, tappeti, stoviglie, pellicce, vestiario, materassi, coperte, lenzuola, spazzolini da denti, automobili, biciclette, macchine da scrivere, macchine fotografiche, generi commestibili, arredi di negozi, merce di negozi, macchinari industriali, merce immagazzinata, bandiere d’Italia, cauzioni per il noleggio di apparecchi telefonici, orologi d’oro e di metallo, certificati dati come corrispettivo (punitivo) degli espropri immobiliari del 1938-1943, mutande pulite e sporche, depositi effettuati in occasione di concessioni commerciali, fitti arretrati di inquilini, centrini da tavola, valigie, eccetera. Ovvero: tutto quanto di pregiato e di vile fa parte della vita e in qualche modo costituisce la vita stessa. E sempre nel 1943-1945 accadde che le confische vennero precedute, accompagnate e, qualora incomplete, seguite da furti, saccheggi e distruzioni. L’azione della dogana nel 1938-1939 fu molto utile allo stato fascista. Non è stato possibile appurare quanto abbia fruttato e forse non sarà più possibile appurarlo, causa la distruzione di documenti all’epoca classificati “ordinari”, ma i valori sequestrati agli ebrei contribuirono certamente, nel loro piccolo, all’attuazione delle politiche interna ed estera del regno. I licenziamenti del 1938-1943 furono oggettivamente molto utili ai non ebrei, già duramente colpiti dalla crisi economica, dagli effetti delle sanzioni, dalle ricadute delle imprese belliche. I furti del 1943-1945 furono molto utili a chi li effettuò, sia che li utilizzasse per se stesso sia che li utilizzasse per il proprio ruolo nella Repubblica Sociale Italiana. Le case confiscate nel 1943-1945 furono molto utili ai capi delle province che poterono alloggiare i comandi militari tedeschi o i caporioni fascisti fuggiti dalle città liberate evitando di ricorrere alle case dei concittadini “ariani”. I depositi bancari confiscati agli ebrei di Ferrara furono molto utili a quel capo della provincia, che li utilizzò per esigenze della guardia nazionale repubblicana (in effetti si trattò di prelievi temporanei, poi restituiti alle banche; ma in tal modo egli evitò di ricorrere ad impolitici prestiti forzosi da parte di ferraresi “ariani”. I documenti razziati in qualche archivio di comunità ebraiche furono molto utili ad alcuni commercianti che li usarono per avvolgere i generi commestibili venduti. Culle e calze furono talora ridistribuite a bisognosi, rendendoli così grati verso le autorità repubblichine. E dopo la guerra cosa accadde? Accadde che vi fu una restituzione talora completa, talora parziale, talora nulla. In termini generali, si può dire che la gran parte dei beni è stata restituita e che le mancate restituzioni si annidano nei beni delle famiglie interamente distrutte dalle deportazioni o ignare dei beni posseduti dal parente deportato, nei beni degli stranieri espulsi o uccisi, nei beni oggetto di furti, distruzioni, vendite deprezzate, ecc. Vi sono poi dei beni rimasti o finiti in possesso dell’amministrazione pubblica e da essa non restituiti per ignavia o effettiva volontà. Tra questi rientrano gli argenti artistici di Alessandro Basevi, oggetto dello “scandaloso” libro scritto dalla figlia Enrica (alla quale va riconosciuto il merito di aver fatto sempre prevalere la serietà della studiosa). Si tratta del primo libro dedicato a una vicenda italiana di mancata o incompleta restituzione di un bene razziato a una persona all’epoca classificata di “razza ebraica”. La collezione di argenteria venne razziata a Genova dai nazisti, ricomparve alla fine della guerra in Alto Adige, finendo infine nelle mani dell’agenzia pubblica Arar (Azienda recupero e alienazione residuati bellici). Il libro parte dal trafugamento degli oggetti e narra la battaglia postbellica del padre contro l’Arar (cioè contro lo Stato) per rientrarne in possesso. Chi lo aprirà, appurerà di persona che il risultato della battaglia non costituisce motivo di orgoglio. Anche perché l’autrice ci documenta che la rivendicazione (“reclamo” o “pretesa”, nel linguaggio burocratico dell’epoca) dei beni razziati fu ostacolata anche da persone come Ernesto Rossi – presidente dell’Arar – che pure erano state indubitabilmente contrarie alla campagna e all’azione antisemita. Così avvenne che l’Arar classificò “residuato bellico” di pertinenza statale tutta l’argenteria degli ebrei abbandonata dai tedeschi in ritirata, si trasformò in vera e propria controparte degli ebrei rapinati, iniziò a vendere all’asta l’argenteria di Alessandro Basevi dopo aver saputo che questi la stava rivendicando, pretese infine (e ottenne) da questi una taglia non lieve al momento della riconsegna degli oggetti non ancora venduti. L’argenteria venduta all’asta dall’Arar non apparteneva solo a Basevi. In complesso l’Arar (e quindi lo Stato) ottenne un introito minimo di otto milioni di lire, nel 1947-1948 (pag. 134). L’argenteria riconoscibile come ebraica (per la forma degli oggetti o per ornamenti e lettere) fu invece restituita, ma solo dopo lunghe, faticose e offensive trattative. Al termine della lettura, il lettore non potrà evitare di far proprie le considerazioni fatte dell’autrice nel corso della narrazione, come: “Per quanto riguarda la questione ebraica, si può prudentemente anche avanzare una ipotesi: che anche all’interno delle forze ciellenistiche, salvo eccezioni, sia stata praticata una sottovalutazione, o una rimozione di fatto dell’urgenza di por mano con completezza al problema del reintegro dei perseguitati, con tutti gli aspetti connessi” (pag. 44); o: “Quello che stupisce quando si leggono oggi questi documenti, e si osserva in particolare l’atteggiamento dei dirigenti dell’Arar (…) è il fatto che non sorga mai un atteggiamento legalitario nei confronti degli ebrei, di nuovo cittadini italiani a tutti gli effetti (pag. 105). In conclusione va riferito che contro questo libro serio e amaro si è levata alta la spada critica dell’irrefrenabile Sergio Romano, il quale sul Corriere della Sera del 26 giugno scorso lo ha accusato di essere “giudeocentrico”, confermando così la propria appartenenza al corpo degli ambasciatori dell’antico Stato mentale di giudeofobia.
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UNA FRA LE PAGINE PIÙ SCONVOLGENTI DELL’ULTIMO CONFLITTO MONDIALE
“Ogni ebreo che scappa ha il suo prezzo”
di Franco Giannantoni
Per superare la frontiera, gli “spalloni” incassavano fra le 5 e le 20 mila lire per persona, a seconda della professione. Seimila furono gli ebrei che riuscirono a raggiungere la Confederazione Elvetica, seicento furono respinti. Gran parte dei beni delle vittime divenne patrimonio “privato” della Rsi e degli occupanti. Alla Liberazione, la Svizzera fece pagare il costo dell’internamento ai suoi “ospiti”.
Generalità e dati statistici
Alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, secondo gli studi più recenti, si sarebbero trovati in Italia circa 45 mila persone che, per la Direzione generale demografia e razza del ministero dell’Interno, si potevano definire di razza ebraica; circa 6.500 erano stranieri o apolidi. Alla proclamazione della resa dell’8 settembre 1943 sarebbero stati nel Paese circa 43 mila ebrei, dei quali circa 35 mila italiani e 8 mila stranieri ed apolidi. Di questi 43 mila, si salveranno in Italia, nella clandestinità circa 29 mila, mentre risulteranno deportati dall’Italia occupata dai tedeschi e governata dalla Rsi circa 8 mila, dei quali oltre 6 mila vennero uccisi. Degli altri, circa 500 riuscirono a rifugiarsi nell’Italia liberata e oltre 6 mila in Svizzera.(…). Almeno 600 circa sarebbero stati respinti alla frontiera(…). La maggior parte avrebbe ritrovato un nascondiglio in Italia (…); numerose persone sarebbero state catturate (…) e uccise ad Auschwitz.
Risvolti patrimoniali della clandestinità e della fuga
Come ogni momento e fase della persecuzione antiebraica nell’Italia fascista e neofascista dal 1938 al 1945, anche quella del tentato espatrio per ottenere l’asilo ha risvolti economico-patrimoniali (…). Dopo l’8 settembre 1943 il perseguitato, divenuto clandestino, si riduce a far conto sui soli mezzi propri, ma poiché sono in atto sequestri e confische di tutti i beni “ebraici”, mantenere la disponibilità di tali mezzi diventa sempre più complicato. (…). In quei mesi il sequestro/ confisca anche di pochi denari potè significare la condanna alla cattura e alla morte: perché poche lire rappresentavano il mezzo per resistere una settimana in più, per corrompere nell’eventualità dei funzionari, per pagarsi la clandestinità o l’espatrio. Ecco perché i risvolti economico-patrimoniali della permanenza in clandestinità come del tentativo di espatrio furono centrali: per il fatto che denari, gioielli, beni di fortuna in generale non furono più la misura di un tenore di vita, ma il confine stesso fra la vita e la morte. Ciò costrinse i possessori a portare sempre con sé tutto ciò che avevano in beni mobili, denaro, preziosi: in breve, soprattutto contanti e oggetti negoziabili. E impose la necessità di abbandonare nel fuggire tutti i beni non realizzati o non realizzabili-merci, scorte, aziende esponendoli così al saccheggio di chiunque. (….).
Le fonti
(…). Le fonti più significative - specie fra i fondi dello Schweizerisches Bundesarchiv, a Berna, e dell’Archivio di Stato (già Cantonale) a Bellinzona per ricostruire le vicende patrimoniali dei fuggiaschi sono senz’altro il verbale d’interrogatorio, riempito da ufficiali di polizia dei comandi territoriali dell’esercito svizzero (…) e il questionario, compilato invece dal rifugiato stesso durante la quarantena in campo contumaciale, entrambi inseriti entro il Personaldossier di ciascun profugo. Il verbale d’interrogatorio è un modulo di 22 domande (tedesco, francese, italiano) dove si registrano dati anagrafici, motivi, circostanze e percorso della fuga, lo stato di salute, le conoscenze in Svizzera, patrimonio. (…). Le domande sono 22. (…). Al punto 16, Motivi e circostanze della fuga come pure percorso seguito del verbale d’interrogatorio non è raro trovare testimonianza di sequestri e confische di beni, spoliazioni, saccheggi e sottrazioni d’altro genere subiti dal profugo in Italia o nella patria d’origine (quando straniero o apolide) sino dall’introduzione delle leggi razziali (per l’Italia ovviamente dal 1938); del prezzo pagato durante la fuga e l’espatrio verso l’Italia se stranieri ed apolidi e dall’Italia verso la Svizzera, se residenti in territorio nazionale. Nel questionario si ha al punto 21 “Specificazione esatta dei beni patrimoniali in Svizzera e all’estero”. (…). Da entrambi si ricavano indicazioni su quanto salvato o perduto in Italia come beni dopo l’8 settembre 1943 (…). A fronte dei molti che dichiarano di non possedere più nulla (…) si hanno difatti coloro che forniscono dettagli su quanto possiedono o ritengono di possedere, fatti salvi saccheggi, distruzioni, sequestri, confische, ruberie o altro, intervenuto dopo la fuga (…).
La frontiera
L’unico modo per gli ebrei di espatriare dopo l’8 settembre 1943 fu il modo clandestino, reato punito sempre da una legislazione severa, inasprita ancora di più per lo stato di guerra, e attraversando un confine controllato in modo stretto su entrambi i lati. Raggiungerlo fu già di per sé impresa drammatica per (…) l’impossibilità di circolare liberamente per l’Italia occupata se non con documenti d’identità falsi, appoggiandosi a filiere di soccorso per ogni necessità, anche minima. Documenti e transiti inoltre costavano cifre non indifferenti. (…). Dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, per una settimana circa, dal 9 al 16 settembre, l’intero confine restò quasi sguarnito per lo squagliamento per primi dei presidi frontalieri (…). Tedeschi e neofascisti ripresero però presto in pugno il controllo. Prima misura adottata sin dal 16 settembre 1943, fu l’occupazione germanica della fascia di confine con l’invio a Varese della V sezione della Grenzwache della scuola reclute di Innsbruck, con responsabilità di vigilanza sull’irregolare confine montagnoso e lacuale fra il Varesotto e il Canton Ticino. Sulla frontiera, in cooperazione con la Grenzwache, tornarono forze operative italiane: la guardia alla frontiera, Mvsn, poi Gnr di frontiera, composta da militi fascisti che avrebbero dovuto garantire un servizio rigoroso e l’impermeabilità al confine. Incaricate della sorveglianza, la 1° legione Gnr “Monviso” (…), la 2° legione “Monte Rosa”, la 3° legione “Vetta d’Italia”. (…). Ulteriore provvedimento restrittivo (…) un decreto del duce del 24 maggio 1944 istituì una zona chiusa della profondità di tre chilometri, con divieto di transito e soggiorno, salvo con carta di legittimazione, e obbligo di sgombero di quasi tutti i Comuni frontalieri, lungo l’intera frontiera con la Confederazione elvetica tra la Valle d’Aosta e la Valtellina.
La dinamica
Coloro che intesero affrontare i rischi dell’espatrio attraverso le maglie sempre più strette del controllo, dovettero ricorrere, vicino o lontani che abitassero dalla Svizzera, a chi li accompagnava ed entrare perciò in contatto con persone del luogo, abitanti sulla fascia di frontiera, che sapessero come fare. Si trattava nella maggioranza dei casi di contrabbandieri o di spalloni che da sempre attraversavano il confine illegalmente con merce, specie il riso, da vendere al mercato nero. Conoscendo il territorio di montagna e il sistema di guardia della zona di confine, i turni delle sentinelle che qualche volta erano in affari con loro o erano più malleabili se della guardia di finanza piuttosto che della Gnr confinaria, sapevano dove sostare, quand’era meglio passare, e si precostituivano dei punti d’appoggio. Poiché inoltre erano al corrente delle sanzioni in caso d’arresto, di rischi e di trucchi del mestiere, l’esperienza li rese guide ambite. Diventati un riferimento per i fuggiaschi, all’intensificarsi delle richieste e dei pericoli, i contrabbandieri pretendevano compensi che trattavano sulla base dei mezzi di chi si metteva nelle loro mani: ogni ebreo ha il suo prezzo, si disse. Commercianti, industriali, professionisti, erano valutati cifre esose. Per altri le cifre variano, sicché le testimonianze sono ad un tempo stesso monocordi ma anche assai diverse. Dori Schonheit Bonfiglioli: “era gente che lo faceva per tanto guadagno, costava 5 mila lire a testa”; Lilla Hassan Coen: “ci volevano 5 lire per un franco, abbiamo pagato ai contrabbandieri 12 mila lire per quattro persone”; Bruna Cases: “ci hanno dato i soldi per il contrabbandiere, il camioncino chiuso da un telone, l’attesa in casa di contadini, prezzo: 10 mila lire a persona; Clara Servi Calò: “consegnammo ai contrabbandieri quanto pattuito, 5 mila lire a testa; Maria Luisa Cases: “ci indicarono una signora di Lanzo d’Intelvi (…) le lasciammo 40 mila lire, allora una somma enorme. (…) Elena Kahn Aschieri: “a Gabriella Bergmann hanno imposto l’alt; c’era uno jugoslavo che ha detto: ha soldi? Mi dia le 15 mila lire del passaggio. Metà le ha date alle guardie italiane, metà ai tedeschi e uno ha detto: siamo austriaci, non abbiamo niente a che fare coi tedeschi, così hanno preso i soldi e noi siamo passati”. (ndc: il prezzo per ogni passaggio variò dalle 5 sino alle 10-15 mila lire per persona).
Gli arresti
L’interposizione ai confini di più agguerrite pattuglie tedesche e neofasciste incaricate di controllare tutta la linea di frontiera italiana per disincentivare e bloccare il fenomeno degli espatri venne fra l’altro reclamata in forma esplicita al congresso nazionale del Partito repubblicano fascista, a Verona, il 14 novembre 1943. Ad accennarne è il delegato della provincia più interessata all’espatrio clandestino, Paolo Porta, commissario federale di Como. “Da noi abbiamo deciso che tutta la linea di confine sia tenuta dalla milizia confinaria. Dal 18 settembre la linea di confine è stata presidiata da veri militi rivoluzionari (bravo) perché le guardie di finanza portavano di là gli ebrei, i profughi, tutti (voci: 50 mila lire per persona), con biglietti da 1.000 a 5.000 lire, da noi erano più a buon mercato. (…)”. (…). Il rafforzamento del dispositivo di controllo di frontiera mediante i reparti e le formazioni germaniche e/o fasciste già ricordati, provocò in particolare fra l’autunno 1943 e l’estate 1944, il periodo di massima affluenza di fuggiaschi verso la frontiera italo-svizzera, uno stillicidio di arresti e deportazioni di ebrei, previo sequestro e/o confisca di tutti gli averi che, come detto, erano costretti a portare su di sé nel tentativo di espatriare in modo fortunoso. Si legge in un rapporto del colonnello Mereu al capo della provincia di Como “(…) che i favoreggiatori degli espatri in argomento (…) tentavano di guadagnare il suolo elvetico a comitive giudaiche solite a nascondere nei loro più o meno cenciosi bottini, preziosi e valori sottratti alla ricchezza nazionale (…)”. In qualche caso le liste portavano il dettaglio degli averi sequestrati e/o confiscati al posto frontiera, prima dell’istruzione del verbale ufficiale. (…). Tali verbali rappresentavano in genere lunghi elenchi di denari, averi, gioielli e preziosi vari di difficile valutazione. Il denaro contante ed i beni così sequestrati venivano in genere affidati in custodia alla locale prefettura in attesa di altra destinazione. (…). Questi averi, salvo una parte restata in loco, recuperata e restituita alla fine della guerra da funzionari del Cln comasco “interni” alla prefettura, verranno inviati nel giugno 1944 alla direzione generale di PS del ministero degli Interni neofascista, a Valdagno (Vicenza). Rinvenuti a fine guerra dagli alleati nella cassaforte di quella Direzione generale, verranno consegnati alla locale filiale della Banca d’Italia.
Il costo dell’internamento e della “liberazione”
Anche gli ebrei che riuscirono a ottenere asilo in Svizzera (come già detto circa 4.500 italiani e 1.700 fra stranieri ed apolidi) dovettero in larga misura mettere in gioco il proprio patrimonio, date le minuziose e severe procedure di controllo
sugli averi previste dalla normativa svizzera sugli stranieri. (…). Quanto ciascuno aveva con sé veniva inventariato, ritirato, depositato presso la Banca popolare svizzera a Berna, dietro rilascio di una ricevuta, bloccato su un conto che non maturava interessi, a garanzia del rimborso delle spese d’internamento. I rifugiati venivano inoltre avvertiti dell’obbligo di versare anche le somme eventualmente ricevute in seguito, pena sanzioni che avrebbero potuto arrivare all’internamento o al refoulement (ndc: respingimento) nel Paese di provenienza. Oro, diamanti, preziosi, oggetti d’arte, collezioni di francobolli, restavano “di proprietà dei depositanti” che non ne potevano disporre fino al rimpatrio senza il consenso della divisione di polizia. Ad ognuno era consentito di trattenere 50 franchi svizzeri e pochi oggetti personali; gli apparecchi fotografici vengono presi in consegna dal comandante svizzero dei campi d’internamento (…). Nel periodo d’internamento i rifugiati con mezzi avevano diritto al Taschengeld o argent de poche, pari a 30 franchi mensili a persona, prelevati dal conto personale. (…). Per “liberazione dal campo”, quindi dal controllo militare sugli internati, si intendeva l’autorizzazione a risiedere in privato, a dipendenza della autorità cantonali di polizia. La “liberazione” non era un diritto, ma una concessione della polizia federale degli stranieri. Per lasciare il campo bisogna essere cittadini italiani (…) e dovevano avere mezzi finanziari per almeno un anno, 5.000 franchi, con diritto ad un prelievo massimo mensile stabilito, nell’apposito conto presso la Volksbank a Berna o un garante che assicurasse vitto ed alloggio. La “liberazione” dal campo si rivelò costosissima, sicché era alla portata solo dei più abbienti.
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IL “SACCO” DEGLI EBREI IN PROVINCIA DI VARESE
Dalle confische alle razzie delle bande
Il ruolo decisivo nell’operazione dei podestà comunali, degli amministratori dei beni della comunità semita e dei “parà” del Raggruppamento Arditi di Tradate
di Franco Giannantoni
Il 6 dicembre 1943, pochi giorni dopo “l’ordine di polizia n. 5” del ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, con cui veniva ordinato il concentramento in appositi campi di tutti gli ebrei di ogni nazionalità residenti sul territorio nazionale ed il sequestro dei loro beni mobili ed immobili in attesa “di essere confiscati nell’interesse della Rsi”, la prefettura di Varese, con una circolare al questore, ai carabinieri e ai vari podestà della provincia, ordinò l’inizio degli accertamenti per stabilire la consistenza del patrimonio degli ebrei italiani, dei discriminati e dei cittadini stranieri. È la prima notizia ufficiale sull’argomento che anticipa quella relativa alla più vasta operazione di sequestro e di confisca dei beni ebraici.
La circolare del prefetto
La circolare n. 4764, firmata dal capo della provincia di Varese Pietro Giacone, un militare di carriera, pregava di “accertare, con gli estremi e i dati necessari, desumendoli dal catasto comunale, dagli atti acquisiti e da accertamenti riservati, esperiti in linea diretta, tutti i beni mobili ed immobili che risultino comunque di pertinenza di ebrei o di discriminati” o i nominativi dei loro detentori. Fu l’inizio formale della grande razzia del fascismo di Salò che si scatenò sia nelle città che sul confine con la Svizzera, con una violenza senza pari, vittima una comunità braccata senza speranza, fatta spesso di vecchi, bambini, donne. Un’operazione facilitata dal fatto che il governo Badoglio fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943 colpevolmente non aveva provveduto ad annullare la legislazione antisemita esistente, a cominciare dai dati del censimento razziale del 1938. Il 6 dicembre furono inviate le richieste formali ai podestà di Ispra, di Tradate, di Varese, di Gavirate, di Busto Arsizio per una trentina di famiglie. La circolare per il podestà di Cocquio Trevisago fu emessa il 7 dicembre e riguardava tre famiglie. Altri podestà (fra cui, per la seconda volta, quelli di Varese, Gavirate e Tardate) furono avvisati il 15 dicembre: erano quelli di Laveno Mombello e di Arcisate, centri di villeggiatura, dove era possibile trovare un buon nascondiglio in attesa di compiere il balzo definitivo verso la salvezza nel vicino canton Ticino. Non è stato possibile sapere, mancando la corrispondente documentazione, gli esiti degli accertamenti podestarili anche se, lo si vedrà più avanti, nei confronti di numerose famiglie ebree segnalate dalla prefettura di Varese vennero emessi decreti di sequestro e di confisca dei beni. Il solo riscontro, assimilabile allo spirito del provvedimento prefettizio del 6 dicembre 1943, è contenuto in una lettera che il maresciallo maggiore Giovanni Parigi, comandante dei carabinieri di Tradate, inviò il 18 dicembre 1943 alla prefettura e alla questura di Varese, informando che “il 21 ottobre u.s., in seguito a precettazione ordinata dalle autorità germaniche, è stato provveduto, da parte di questo comando all’inventario dei mobili e dei materiali vari esistenti nelle ville sottosegnate di proprietà di ebrei”. Le ville degli eredi Cohen, dell’ingegnere Salomone Mayer, delle signore Maria Anna Vita Donati e Tilde Vita Meyer in territorio di Abbiate Guazzone “ad inventario ultimato e per disposizione delle predette autorità militari germaniche, furono affidate all’Aeronautica italiana che ha occupato i locali. La presa di possesso è stata effettuata dal capitano Giovanni Finocchiaro dell’aeroporto di Venegono”. Altre ville di proprietà ebraica furono letteralmente “razziate” nello stesso periodo dai parà del “Raggruppamento Arditi” di Tradate che utilizzarono mandati di perquisizione firmati, ad ogni richiesta, dai loro stessi comandi. Gli assalti furono condotti a mano armata, in gran parte senza che nessuno potesse opporre resistenza o vantare i propri diritti. I proprietari come nel caso dell’ingegnere Odoardo Fano erano lontani, in fuga dai loro aguzzini; altri erano già stati arrestati e trasferiti in Germania, altri erano già stati ingoiati dalle fiamme di Auschwitz. Il ragionier Anania Lomazzi era il funzionario della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (uno dei quindici istituti di credito incaricati dalla Rsi di “amministrare” e “custodire” i valori sequestrati agli ebrei) “incaricato della sequestratela dei beni dei sudditi ebraici”. Interrogato dal maresciallo della Gnr di Malnate il 30 aprile 1944 circa le operazioni dei parà di Tradate in seguito ad alcune proteste giunte ai comandi Gnr di Varese, rispose, offrendo un quadro dettagliato di ciò che era accaduto: “allorché comparvero in Tradate i primi elementi del costituendo Raggruppamento Arditi Paracadutisti, notai che si diedero un gran daffare per visitare le abitazioni degli ebrei dimoranti nel comune da dove asportarono quanto poteva occorrere per allestire gli alloggi degli ufficiali e dei sottufficiali. Le dimore ebraiche, visitate dai cosiddetti incaricati di sorvegliare che la roba non venisse sottratta da parte della popolazione, erano la villa della vedova Sternfeld, la casa di Oscar Sternfeld, la villa di Adolfo Pirani, la villa del comm. Mayer con annessa azienda agricola in Abbiate Guazzone e casa in Castelnuovo Bozzente, la villa Donati, la villa Coen, la villa Truffini abitata dalla famiglia di Egardo Levy di Torino. Dalle predette case furono asportate in quantità notevole ogni sorta di merce, di indumenti personali, biancheria, stoviglie, porcellane, quadri, tappeti, pellicce, biciclette, argenteria, mobili, materassi, coperte, bottiglie di finissimi liquori, lattine di olio che risultarono vendute a 400 lire al fiasco, oltre a materiale che trovavasi rinchiuso in casse e bauli. Sta di fatto che gli indiziati disponevano d’autovetture per lo svolgimento delle loro “mansioni” e per trasportare altrove il materiale, oltre alle numerose partenze in treno di militari con valige”. Era la conferma che, autonomamente dall’emanazione delle disposizioni di legge da parte della Rsi, i comandi germanici e anche altri corpi militari italiani (in questo caso i parà), erano intervenuti direttamente sui beni ebraici, abusando dei loro poteri. Il 7 ed il 10 dicembre 1943, il capo della provincia di Varese aveva inoltre firmato altri due comunicati con i quali ordinava “il sequestro di tutte le opere d’arte” di proprietà di famiglie o di istituzioni israeletiche (i proprietari e i detentori dovevano presentare, entro il 15 dicembre, una denuncia al sovrintendente alle gallerie del territorio) ed invitava “tutti coloro, privati od Enti, che a qualsiasi titolo detengono o posseggono in godimento o in uso o in precario beni appartenenti a persone di razza ebraica” a farne denuncia alla prefettura entro il 20 dicembre pena, per gli inadempienti, l’applicazione delle sanzioni previste dalle leggi di guerra”. Il 15 dicembre 1943 il consigliere di prefettura di Varese Decio Jodice Boffillo firmò i primi due decreti di sequestro di beni appartenenti a famiglie ebraiche della provincia.
Pugno di ferro, guanto di velluto
In questo caso, il pugno di ferro coi guanti di velluto. Il decreto n. 26.894 colpì
Achille e Carlo Norsa di Luino sequestrando loro “un’area urbana, una casa di tre piani, di 12 vani, libreria, sala da pranzo e mobili fuori uso”. Il decreto n. 26.895 riguardò Renata ed Angelo Colombo con il sequestro di “una villa con giardino annesso di sette locali ed accessori, completamente ammobiliata sita in Vedano Olona in via Manzoni 14”. Prima che terminasse questo tragico anno, quello del debutto, il capo della provincia di Varese firmò altri quindici decreti di sequestro per cittadini ebrei residenti a Gavirate, Varese, Dumenza, Saronno, Caldè, Ispra, Tardate, Sumirago, Vergiate, Malnate. Nella gran parte si trattava di proprietà immobiliari e di terreni. Ma le “razzie” non furono solo gestite a tavolino, sulle carte offerte a tambur battente, senza titubanza, del collaborazionismo podestarile. Molte maturarono nel corso delle disperate fughe verso il confine, interrotte dai brutali arresti, un fenomeno particolarmente massiccio nel Varesotto per la vicinanza alla Svizzera e per una certa facilità orografica che aveva funto da calamita, richiamando in zona centinaia di ebrei, singoli o in gruppi da ogni parte d’Italia, alcuni assistiti dalle benemerite organizzazioni di soccorso, laico o religioso, dalla Delasem genovese, all’Oscar di don Aurelio Giussani e don Natale Motta, alla “rete del Clnai” dell’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi (“Joe”), ai gruppi di don Pietro Folli di Voldomino collegati con il cardinal Boetto. A Rosa Levi e a Teofilo Moully, milanesi, trasferitisi in attesa dell’espatrio in casa di Ida Fossati, in via Littoria 4 a Dumenza, frazione Due Cossani, un paesino sopra Luino, tappa privilegiata dei fuggiaschi, la polizia fascista sequestrò, come è indicato in un umiliante, feroce e dettagliatissimo decreto, il n. 27.640 Div. III, “un baule in legno a quattro scompartimenti in buono stato d’uso, tre soprabiti di lana usati, un impermeabile usato, un paio di pantaloni di pigiama usati, un paio di pantaloni corti uomo usati, tre paia di mutande lana da uomo usate, un paio pantaloni corti uomo usati, tre paia mutande lana da uomo usate, due camicie uomo usate, un paio calze, un corpetto, due canottiere da uomo usate, un vestito da uomo colore nocciola e un paio pantaloni usati, nove camicie da uomo usate, due camicie da notte uomo usate, quattro mutande di tela usate, due cappelli per uomo usati, otto cravatte da uomo usate, due lenzuola ad una piazza usate, un berretto da uomo ed un asciugamano usato, sei lampadine tascabili senza pila rotte, una borsa da donna di tela cerata ed un porta carte di tela cerata”. Lo stesso accadde a Pia Della Torre di 61 anni e a Isaac Yeni di 74 anni, di Salonicco, abitanti a Milano ed arrestati il 2 ed il 6 dicembre 1943 in frazione Due Cossani di Demenza quando l’espatrio pareva ormai sicuro.
Il povero bagaglio
Il decreto n. 27.639 riporta in modo maniacale, pezzo per pezzo, il povero bagaglio della coppia, affidato ai carabinieri di Runo: “una bicicletta marca Gragnolino completa di accessori, da uomo, verniciata grigia, in buono stato d’uso; quattro valigie di cui una grande di fibrone, due piccole di fibrone, una e l’altra di tela; una cesta contenente libri scolastici e romanzi vari; due lenzuola a due piazze di cotone; un paio di pantaloni grigi da uomo usati; un vestito da uomo bleu usato; due tovaglie da tavola, tre asciugamani, quattro pannolini, cinque tovaglioli, una federa, un paio di mutande da donna, tre paia di calze da uomo e tre paia di calze da signora, un reggipetto, quattro colli per camicia da uomo, una camicia da donna, una giacca da uomo bleu usata, un pigiama celeste, una maglia di lana da donna, otto colli per camicia da uomo e otto paia di calze da uomo usati, due cravatte da uomo, una tenda per finestra, due camicie da uomo usate, un orologio da polso per uomo, guasto, senza cinturino”. Una spoliazione che non teneva conto neppure delle minime necessità di sopravvivenza, che sottraeva tutto senza pudore e che, espediente “per procurare alle esauste casse dello Stato un po’ d’ossigeno” assunse, con il decreto legge del 4 gennaio 1944 n. 2, una dimensione ancora più preoccupante: agli ebrei non era infatti più consentito di possedere valori, titoli, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie né di essere proprietari di altri beni mobiliari di qualsiasi natura. Il capo della provincia di Varese anticipò di qualche giorno il provvedimento del 4 gennaio 1944 e, utilizzando l’ordinanza ministeriale n. 5 del 1° dicembre 1943, pose sotto sequestro alla signora Angelina De Angelis vedova Levi, non solo masserizie, mobili, arredamento (di cui era detentore il denunciante, l’amministratore ariano ragionier Umberto Ermolli: ecco la prova provata della collaborazione italiana senza la quale la Shoah avrebbe avuto una dimensione più ridotta!) ma anche un consistente numero di titoli e libretti bancari “detenuti dal podestà di Varese”. Gli ebrei furono, nello stesso tempo, privati della possibilità “di essere proprietari e gestori di aziende né di avere di dette aziende la direzione né assumervi comunque l’ufficio di amministrazione o di sindaco”. Il 17 maggio 1944 fu emesso un decreto di sequestro nei confronti della Società in accomandita semplice Ascarelli e C. di Busto Arsizio. Il provvedimento del capo della provincia di Varese Mario Bassi venne assunto sulla base di una denuncia presentata il 30 dicembre 1943 dal direttore dell’azienda che aveva segnalato che i soci della “Ascarelli” erano gli ebrei Luigi e Pio Del Monte e Emilio Ascarelli, i primi di Como, il terzo di Napoli.
La voracità verso le aziende
Il sequestro riguardò mobili di ufficio, automezzi, tessuti finiti e greggi del magazzino, filati, crediti verso banche e clienti, liquidità di cassa. In un clima di grande confusione e di altrettanta voracità, per evitare che le varie polizie private al servizio di questo o quel gerarca disponessero direttamente dei beni, da Salò fu fatto sapere che era vietato dare ai beni sequestrati una destinazione di tipo privatistico, beneficenza compresa, e che tutto dovesse finire sotto il controllo dell’Egeli (Ente e gestione liquidazione beni immobiliari) dopo l’emanazione del decreto di confisca. Un provvedimento che non mise al riparo il patrimonio ammassato nel magazzino centrale dell’Egeli varesino, in piazza XX settembre dove, secondo il vice brigadiere della Gnr Napoleone Pisoni, incaricato dei trasporti delle merci sequestrate, bande di fascisti e di tedeschi, razziavano le merci senza porsi alcun problema di controllo. La caccia ai beni ebraici da parte delle autorità salotine di Varese non cessò mai. L’invito rivolto ai Podestà da parte della Prefettura era di mantenere sempre vigile il controllo anche perché la spada di Damocle dei 17 miliardi quale “contributo di guerra”, da dover versare ogni mese all’occupante, era diventato un problema assillante. Fra il 3 gennaio e il 16 maggio 1944, periodo dopo il quale l’attività della prefettura si esaurì (e con essa gli arresti degli ebrei pur essendo entrato in vigore dall’estate il decreto della zona chiusa), i decreti di sequestro e di confisca furono 48. Gennaio fu il mese più pesante con 33 decreti. Il 16 maggio la Gazzetta Ufficiale d’Italia (al sud il governo continuava a stampare la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia) registrò l’ultimo decreto del capo della provincia Mario Bassi contro i beni dell’ebreo Flavio Sonnino di Saronno. Come per gli ultimi mesi del 1943, i decreti colpirono beni immobiliari, terreni, automobili, barche, motociclette, biciclette, libretti bancari, moneta cartacea, conti correnti. L’esempio certamente più clamoroso per la consistenza patrimoniale è rappresentato dal decreto del 12 gennaio 1944 che dispose il sequestro delle aziende cartarie dei Mayer in Valle Olona. Sulla base di una denuncia presentata il 20 dicembre 1943 alle autorità della Rsi dal ragionier Riccardo Marinoni, procuratore legale delle s.a.s. Vita Mayer, il capo della provincia di Varese provvide ad emettere il decreto contro la società, il cui capitale sociale era di 9 milioni. Il provvedimento riguardò “tutto il fabbricato, magazzini per l’industria, scorte e giacenze in esso esistenti, terreni e stabili per abitazione dei funzionari e in Lonate Ceppino, Cairate, Castelseprio; e, ancora, il capitale sociale investito nella società dai soci predetti di razza ebraica e dai correntisti non soci ma di razza ebraica”.
Il sequestro di beni preziosi, assegni, carta moneta
A Maurizio Dentes (e/o Dente), un commerciante milanese di 28 anni, arrestato con due sorelle nel Luinese, furono sequestrati due orologi, due catenine d’oro, un temperino di metallo, 4 assegni della Comit di 200 lire ciascuno, n. 3 biglietti di banca da 500 lire ciascuno, n. 7 biglietti di banca da 100 lire ciascuno; a Luisa Franco di 51 anni e Giuseppe Jona di 56 anni, arrestati nella fascia di confine, furono sequestrati “lire 14. 940 in biglietti di banca, 60 franchi svizzeri in oro, un orologio in oro Longines”; ad Ennio Segrè, 34 anni, avvocato di Milano, arrestato a Luino con il fratello Odoardo, “lire 2 mila in biglietti di banca da mille lire, franchi 30, franchi 2,50 in argento”; ai fratelli Livio e Graziano Levi, “1038 pelli di agnello, capretto e coniglio, 97 pellicce confezionate, 4.740 metri di seta”; a Cadum Cohen, 31 anni, arrestata a Velate di Varese “lire 500, un orologio da polso, un anello in oro bianco, una catenina da collo con medaglietta, oggetti e valori vari”; ad Elena Treves Luria ed Ernesto Treves, con la villa trasformata in sede del Comando dell’Aeroporto di Venegono, titoli azionari, vari libretti di conto corrente per un valore di 715. 898 lire; a Giacomo Perugia, 74 anni, arrestato a Saltrio, “un libretto di risparmio del Credito Varesino con depositata la somma di lire 10 mila”. Di ben altra consistenza fu il bottino, frutto del sequestro del 16 maggio 1944 ai danni di Flavio Sonnino e dei figli Sandro, Piera, Carlo “vista la lettera del signor Premoli Pietro di Saronno del 1° dicembre 1943 con la quale dichiara di essere intestatario di 900 azioni di lire 1000 della SA Preganzioli di effettiva proprietà del sunnominato Sonnino Flavio, oltre a un terreno di ettari 0,54 in comune di Gerenzano”. Non mancò qualche clamorosa marcia indietro come nel caso di Vita Sai, nato a Sciangai, milanese d’origine, che ricorse contro il provvedimento dell’11 gennaio 1944 con il quale gli era stata tolta la disponibilità della villa di via Hermada 6 in Varese, diventata sede del comando militare provinciale. Vita Sai dimostrò, carte alla mano, che era figlio di genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica che, alla data del 1° ottobre 1938, apparteneva a religione diversa da quella ebraica. Vita Sai non era dunque ebreo così come non lo erano i suoi figli Francesco, Max, Astorre, legittimati, affermò la prefettura di Varese nel decreto di dissequestro, per ristabilire l’ordine “a prestare servizio militare in pace e in guerra”. I più, sappiamo, non tornarono dall’inferno dei lager e dei loro beni, spesso, si perse la traccia. Chi si salvò dovette penare per riavere il maltolto e avere l’amara sorpresa, se i beni erano stati amministrati dalle banche, di dover pagare anche spese ed interessi.
Da Triangolo Rosso, ottobre 2001