Triangolo rosso

L’attore che nacque nei lager

La memoria ha un futuro? Intervista a Gianrico Tedeschi

Tra le squallide baracche e il filo spinato di un campo di concentramento il debutto del popolare interprete di tanti lavori teatrali. Recitare per resistere all’oppressione e alla violenza naziste. Un drammatico ma salutare risveglio per scoprire la democrazia. Una prestigiosa attività lunga mezzo secolo e che continua

di Ennio Elena

ENRICO IV

 

È l’anno 1944, lager di Sandbostel, Germania. Si recita uno dei capolavori di Pirandello, l’Enrico IV. Rivive la tragica vicenda del giovane che cade durante una cavalcata in costume mentre veste i panni dell’imperatore Enrico IV di Germania, impazzisce e per dodici anni vive in una fittizia atmosfera comportandosi come il personaggio che interpretava al momento dell’incidente. Poi rinsavisce e per vendicarsi dell’antico rivale in amore che ne provocò la caduta lo uccide e deve quindi continuare a vivere nella finzione, ormai prigioniero di quella follia e di quel personaggio che si era cucito addosso. Protagonista del lavoro pirandelliani è il tenente Gianrico Tedeschi, classe 1920, milanese, già studente della facoltà di magistero dell’Università Cattolica milanese. Chiamato alle armi, inviato in Grecia, l’Enrico IV di Sandbostel è poi diventato uno dei 600 mila militari italiani deportati dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre: generali, ufficiali, sottufficiali, soldati abbandonati in Italia e all’estero dal re, dal principe, da Badoglio, da generali e ammiragli in fuga verso l’ospitale Brindisi. “Mi catturarono a Volos”, ricorda, “ dopo due anni che ero in Grecia, due anni trascorsi in un’inutile, buffonesca caccia a partigiani greci che non si trovavano mai.” Ricorda i tre lager nei quali è stato: Beniaminovo, Sandbostel, Wietsendorf. E ricorda anche la fame, i maltrattamenti, la paura. Era un IMI, sigla che sta per Internati Militari Italiani, una denominazione inedita, non prigionieri di guerra ma “traditori” ai quali i nazisti avevano deciso di riservare un particolare trattamento.

 

LA SCELTA

 

Lei in precedenza aveva mai recitato ?

“Mai. Avevo con me tre testi teatrali: l’Enrico IV e Il fiore in bocca di Pirandello e Gli spettri di Ibsen e decisi di rappresentarli, perché mi piacevano molto e perché occorreva pur far qualcosa per reagire a quella cupa atmosfera. “Devo precisare che malgrado la fame e le angherie dei tedeschi nei campi di noi ufficiali si svolgeva un’intensa attività culturale che serviva anche, come si dice, a tener su il morale ed era favorita dal fatto che i tedeschi, mentre erano sospettosi alla vista di qualsiasi biglietto, erano assolutamente tolleranti nei confronti dei libri in base al singolare presupposto che se un testo veniva stampato significava che era lecito.”

Come andò il debutto ?

“Bene. Fra i miei compagni di prigionia c’erano molti rappresentanti dell’“intellighenzia” fra i quali il filosofo Enzo Paci; Giuseppe Lazzati, che diventerà rettore della Cattolica di Milano (e uno dei più prestigiosi esponenti del cattolicesimo democratico, fondatore dell’associazione La città dell’uomo, n.d.r.); Alessandro Natta, destinato a diventare il segretario generale del PCI; lo scrittore Giovanni Guareschi; il disegnatore satirico e caricaturista Giuseppe Novello; l’autorevole critico teatrale Roberto Rebora. Fu proprio lui che dopo avermi ascoltato mi disse: “Tu devi fare l’attore”. Ci furono altre recite nei lager e poi finalmente la liberazione. Partii per Milano deciso, dopo il giudizio di Rebora, che il mio lavoro, la mia vita sarebbero state quelle dell’attore.”

 

LE SCUOLE CONVITTO

 

“A Milano mi presentai alla scuola convitto Rinascita. Parlai con il direttore, il professor Raimondi, al quale espressi l’ intenzione di frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e, quindi, la necessità di iscrivermi alla scuola convitto della capitale. Raimondi mi disse: “Nell’Italia rinnovata ci sarà bisogno anche di bravi attori.’’ A Roma la scuola convitto era diretta da un nome prestigioso della cultura italiana, Lucio Lombardo Radice.”

Che ricordo ha della scuola convitto ?

“Ottimo. Queste scuole erano state istituite dal ministero per l’assistenza post-bellica per consentire a quanti - reduci, partigiani, internati - avevano dovuto interrompere gli studi a causa della guerra di poterli riprendere.”

Eppure poi furono chiuse.

“Furono chiuse, paradossalmente, perché funzionavano troppo bene e perciò non erano in sintonia con il clima che si era creato nel Paese. Questa è la verità.”

 

IL DEBUTTO

 

“Alla fine del primo anno di accademia giunse la richiesta per la mia partecipazione ad uno spettacolo allestito al teatro Olimpico di Vicenza. Occorreva chiedere il permesso al direttore, Silvio D’Amico, che lo concesse. Era il 1948, e si rappresentava l’Edipo re, interpretato da Renzo Ricci mentre a Ruggero Ruggeri era affidato il ruolo di Tiresia, il cieco indovino tebano. Era il mio debutto ufficiale, dopo quello nei lager. Della compagnia facevano parte anche Carlo Ninchi, Andreina Pagnani e Vittorio Gassman. Lo spettacolo venne rappresentato anche a Parigi e a Londra. Poi ritornai in accademia per un altro anno di studio. Il terzo debutto, se posso così posso definirlo, fu quando entrai a far parte della compagnia di Gino Cervi e Andreina Pagnani.” Da allora è stato un susseguirsi di interpretazioni in vari generi e ruoli ricorda Tedeschi: rivista con Anna Magnani, commedia con Tognazzi., commedie musicali con Rascel, Delia Scala, Memmo Carotenuto, una numerosa serie di commedie, molti lavori di stile diversi. E diverse sedi: il Piccolo di Milano, lo Stabile di Genova e quello di Trieste.”

Qual è stato il lavoro più noto che ha interpretato ?

Il cardinale Lambertini di Testoni.”

E quello che ricorda più volentieri ?

Casamoreinfranto di Gorge Bernard Shaw. E di Shaw ho interpretato anche un altro noto lavoro, Il maggiore Barbara.”

Lei ha recitato con diversi registi. Quale pensa sia stato il migliore ?

“Ho molto stimato Visconti, Squarzina e Strehler, con una leggera preferenza per il primo”.

 

UN DOPPIO ESORDIO

 

Una breve pausa, poi dice, con giustificato orgoglio: “Sono 52 anni che lavoro in teatro.” In effetti sono quattro in più considerando le recite nei lager quando, contemporaneamente, nasce un attore e un giovane ufficiale prende coscienza, nella drammatica realtà della prigionia, dopo quella della guerra in Grecia, della verità nascosta dal fascismo sotto il manto della retorica. Un attore popolarissimo, Gianrico Tedeschi, anche per la sua versatilità, che probabilmente il grosso pubblico però conosce soprattutto come simpatico “testimonial” di un noto formaggio. D’altra parte un altro popolare attore, Ernesto Calindri, veniva ricordato più per la pubblicità ad un famoso aperitivo che per le sue numerose e brillanti interpretazioni. È l’Italia. Da oltre mezzo secolo Gianrico Tedeschi reca con sé il ricordo di quel tempo lontano ma ben radicato nella memoria. Il tempo dell’isolamento dalla famiglia, dalla patria, delle angherie naziste, della fame. “Fu allora che cominciammo a capire, ad aprire gli occhi, noi giovani cresciuti sotto il fascismo. Prima la guerra e poi l’internamento furono un brusco, drammatico ma salutare risveglio” dice. “Noi rifiutammo, malgrado minacce e lusinghe, di aderire al fascismo ed al nazismo. Avevamo capito, provato sulla nostra pelle qual era la minaccia che rappresentavano per la pace e la libertà, per il futuro nostro e delle generazioni

che sarebbero venute.” Una decisione condivisa dalla stragrande maggioranza degli internati.

Avete anche rifiutato di lavorare.

“Sì, perché lavorare in quella situazione significava contribuire ad alimentare la guerra, l’oppressione.”

 

“NON VOGLIO NIENTE”

 

Pochi giorni prima di questa intervista si parlò della possibilità che agli ex prigionieri nei campi nazisti costretti ai lavori forzati venisse corrisposto un modestissimo risarcimento. Questa possibilità ora ha preso corpo e si parla di una somma di quindici milioni, beneficio dal quale sarebbero esclusi gli internati militari, equiparati ai prigionieri di guerra, Si disse, anche, che proprio Gianrico Tedeschi sarebbe stato scelto come “testimonial” per popolarizzare l’iniziativa. Per questo appena lo incontrai gli chiesi se era vero che avrebbe svolto questo compito. “Non so niente” rispose in tono brusco, contrastante con la cortesia manifestata durante l’incontro. In un’intervista a la Repubblica, successiva a questa, ha spiegato i motivi di quel diniego. “Io non ho lavorato, quindi non credo di essere risarcibile per la sola prigionia. Ma se anche ne avessi diritto quei soldi non li vorrei perché non c’è prezzo per quello che abbiamo passato.”Una posizione intransigente come fu allora quella di Tedeschi e della quasi totalità dei militari italiani internati.

 

NON MOLLARE

 

Al loro dramma, alla fierezza con cui, pur laceri, affamati e angariati opposero un “no” deciso ai nazifascisti ha dedicato un libro Alessandro Natta, L’altra Resistenza. Nel libro si citano anche gli spettacoli messi in scena a Sandbostel e a Beniaminovo che segnarono l’esordio artistico di Gianrico Tedeschi. Il volume ricostruisce il faticoso cammino di molti prigionieri per i quali l’internamento con il suo carico di privazioni e di violenza, ma anche di incontri, di dibattiti rappresentò la scoperta di un mondo nuovo, libero, per cui in molti casi i “lager” diventarono, come per Gianrico Tedeschi, una scuola di democrazia. Fu un lungo percorso, rileva Natta, verso la consapevolezza, “in modo da mutare in giudizio critico la ribellione sentimentale contro il fascismo ed in meditato fatto politico il nostro no.” “Il fatto più importante della resistenza degli internati”, scrive l’autore, “non è che essi abbiano scelto la via della non collaborazione e della lotta, all’indomani dell’8 settembre, ma che siano stati capaci di durare, di non sfaldarsi qualche mese dopo di fronte all’ingigantirsi dello spettro del campo di concentramento, al sacrificio, alla persecuzione.” Lo fecero soprattutto grazie ad un intenso, appassionato dibattito politico, dice Natta, “ che si svolse nei campi degli ufficiali” e che consegnò all’Italia giovani provati nella carne ma rinnovati nello spirito. E che quella rivolta ideale, quella resistenza rinnovano quando, come afferma Gianrico Tedeschi,“in una storia come questa le cifre non esistono. È un’offesa solamente iniziare a discuterne.”

 

RICORDARE

 

L’intervista a Tedeschi si è svolta al teatro San Babila di Milano mentre l’attore stava per andare in scena con la moglie Marianella Laszlo e Walter Mramor ne Le ultime lune l’ultima fatica artistica di Marcello Mastroianni. Tedeschi interpreta il ruolo di un vecchio professore di letteratura che sente il peso dell’età avanzata, che è arrivato, appunto, alle ultime lune. Ma il personaggio che mi era davanti nel camerino era invece un uomo pieno di vitalità, che a 81 anni ( che compirà il prossimo 20 aprile), non solo continua nella sua intensa attività artistica ma si sente impegnato civilmente.

Lei ha ricordato le violenze naziste, quelle nei vostri confronti e quelle ancora più feroci nei campi di sterminio. Sa che c’è chi cerca di minimizzarle e, addirittura, di negarle.

La risposta, accompagnata da un moto di rabbia, è tacitiana: “Buffoni !”

Domanda scontata ma inevitabile: quale messaggio si sente di indirizzare, soprattutto ai giovani ?

“Un messaggio di libertà, di pace, di coerenza e a tutti l’invito a ricordare. Qualche anno fa abbiamo messo in scena a Gibellina, in Sicilia, un lavoro di uno scrittore spagnolo, Jorge Semprun. Era ambientato in un campo di sterminio dove un gruppo di prigionieri si ribella. Alcuni raggiungono l’URSS ma anche là vengono internati perché animati da un’ansia di libertà che non piaceva neppure a Stalin. L’ultima parola del lavoro è ricordare.” Il tono con cui Tedeschi pronuncia la parola trasforma questo verbo in una solenne promessa, per se stesso e per tutti noi.

 

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Il ricordo di Alessandro Natta

“Quando vidi recitare Pirandello dall’internato Gianrico Tedeschi”

 

 “Quando nei lager di Sandbostel e di Beniaminovo vidi il mio compagno di prigionia Gianrico Tedeschi insieme ad altri internati recitare Pirandello e Ibsen non riuscii a capire se si trattava di un attore professionista o di un appassionato di teatro il quale dava corpo alla sua passione in quello scenario di oppressione e di sofferenza. Ho poi visto che quell’esordiente è diventato un brillante, popolare attore tenuto a battesimo nel 1944 tra il filo spinato dei campi di concentramento nazisti. “Quelle recite facevano parte di un’intensa attività culturale e anche ricreativa che si svolgeva nei lager, agevolata dai comandi italiani di campo, un’attività che comprendeva corsi di diverse materie, vere e proprie “università”, e che serviva, in una situazione di isolamento e di oppressione, tormentati dalla fame e dalle malattie, a farci sentire uomini. “C’era anche un vivace dibattito politico, con giornali parlati. Ricordo che in uno di questi scrissi un editoriale nel quale affermavo che la monarchia era politicamente finita e che al ritorno in patria avremmo quindi dovuto scegliere tra monarchia e repubblica. Un articolo che naturalmente fece molto rumore. “Ricordo anche che nell’autunno del ’44 successe un fatto straordinario: a Sandbostel c’era stata un’epidemia di tifo petecchiale che si concluse, per fortuna senza danni, con una quarantena durante la quale restarono naturalmente il filo spinato e le sentinelle sulle torri ma noi e i nostri pidocchi diventammo padroni del campo. “Poi le cose precipitarono e iniziarono i trasferimenti a Wietsendorf dove gli internati avrebbero dovuto essere avviati al lavoro e dove fummo assediati dalla fame, dal freddo, dalle malattie e dalla bestialità dei tedeschi. Ma riuscimmo a resistere, ad impedire di essere costretti al lavoro forzato. Un atteggiamento di fierezza e di dignità che ho visto con piacere Gianrico Tedeschi ha con orgoglio recentemente rivendicato.”

Da Triangolo Rosso, marzo 2001

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