Triangolo rosso

Ha dedicato la sua vita a raccontare lo sterminio

 

di Aldo Pavia

 

La morte di Settimia Spizzichino, l’unica sopravvissuta della deportazione delle ebree romane. "Per questo, credo, sono tornata". Una lucida e straordinaria testimone su Auschwitz - Birkenau e Bergen - Belsen. Sèder di Pèsacb 5760 (anno 2000 per il nostro calendario) in una stupenda casa romana. Fervono i conversari impregnati dalla dolcezza del ricordo e dell'amicizia. Quando improvvisamente si alza un canto. Sommesso inizialmente, poi via via più sicuro. La voce è arrocchita dal fumo. È stonata. Ma nel silenzio tutti si rendono conto di vivere un momento unico, irripetibile. Si riconoscono le note dell'Ha'Tik-va. La voce è quella di Settimia Spizzichino ed è, al tempo stesso, quella delle ebree romane che, passata la feroce selezione, entrarono nell'inferno di Birkenau. Così la cantavano nei rarissimi momenti di tregua, tra dolore del ricordo e speranza. Con parole romanesche, come l'avevano sempre cantata nelle loro case dei Ghetto. Settimia se ne è ricordata all'improvviso, dopo oltre mezzo secolo. Non si conosce l'esatto numero delle donne strappate il 16 ottobre dei '43 dalle loro case del Portico d'Ottavia. Certamente parecchie centinaia. Solo 47 superarono la selezione. Di tutte loro soltanto Settimia è tornata a Roma, l'11 settembre del 1945. E da quel momento ha dedicato la sua vita a mantenere la promessa fatta: "alle 46 ragazze che sono morte ad Auschwitz, mie compagne di prigionia". Perché: "Seguiterò a raccontare finché avrò vita. Per questo, credo sono tornata: per raccontare Un impegno cui Settimia tutto ha sacrificato, rinunciando a quanto di lieto e felice la vita poteva ancora offrirle: famiglia, figli, tranquillità e quel tanto di tregua, che rende possibile ad un superstite dei lager la quotidianità. Da allora testimonia. Intere generazioni di romani - è non - l'hanno incontrata. L’hanno incontrata i loro figli, oggi forse persino i nipoti. Mezzo secolo tra scuole, circoli, associazioni, giornali, televisioni a Roma come in tante altre città. Accompagnando tante classi in Auschwitz. Una presenza preziosa. Possiamo, tranquillamente affermare che se oggi si ha memoria della deportazione e dello sterminio, non poco dobbiamo a Settimia. La sua è una testimonianza eccezionale. Non solo perché eccezionale è stata la sua vicenda concentrazionaria, ma soprattutto perché la sua capacità di affabulazione è del tutto straordinaria. Un racconto che metto in ombra le proprie vicende per sottolineare la sorte dei "sommersi". Quasi un mettersi in disparte, un ritenersi fortunata per accentuare le sofferenze e la tragedia di coloro cui fu negato il ritorno alla vita. Non una narrazione di orrori, a volte senza alcun fine preciso, bensì una continua sottolineatura della disumanità attraverso particolari apparentemente minimi ma in realtà assai significativi. Settimia usa se stessa per dare voce a chi ne fu privato. Un tono sommesso che graffia e colpisce, più di un'invettiva. Uno snodarsi di fatti, di sensazioni, di riflessioni che avvince proprio perché colpisce in ognuno degli ascoltatori le corde più intime, i sentimenti più profondi. Ma anche durezza. Non c'è confusione nei giudizi di Settimia. Il carnefice, il boia non ha scusanti. E non è un mostro venuto da chissà dove. Il boia è il nazifascismo. Non i singoli, non le sole SS non i soli Kapos. Ognuno di loro porta pesanti responsabilità ma tutte sono il frutto che il nazifascismo fece maturare sull'ignobile albero dell'intolleranza del razzismo, della negazione di ogni valore di libertà, di giustizia, di civiltà. Settimia sempre ricorda che quando fu strappata alla sua casa di via della Reginella poco o nulla sapeva e capiva di politica. La sua scuola fu Birkenau e una volta tornata le lunghe, dolorose riflessioni l'hanno portata a capire che la sua testimonianza non doveva solo essere racconto, ricordo di un immenso dolore, ma che doveva essere approfondimento politico dei perché, un chiarimento puntuale del chi e che anche il come non era conseguenza di una insana follia, ma al contrario consapevole applicazione di un criminale progetto. E che questo progetto poteva e può essere riproposto quando si abbassa la sensibilità politica in ciascuno di noi. Un impegno quindi quello di Settimia che si manifesta non solo nella sua testimonianza ma in tutto il suo agire. Una scelta di campo precisa. Un riaffermare costante dei valori che si cercò di distrug-gere nei lager. Ma che, pagando un prezzo mostruoso certamente, vinsero. Quale sia stata la vicenda della giovane ebrea romana tra Birkenau, Auschwitz e Bergen. Belsen credo sia inutile ricordare qui. C'è il suo libro Gli anni rubati. Penso invece sia opportuno sapere perché solo dopo tanti anni, quasi contraddicendo se stessa e le sue idee, Settimia si sia decisa a scriverlo. Innumerevoli sono i viaggi della memoria in Auschwitz da lei guidati. Ma Settimia ha sempre desiderato portare nel lager un gruppo di studenti regalando loro il viaggio. Ha visto la possibilità di realizzare questo generoso sogno destinando tutti i proventi del libro a questo scopo. Così è stato. Non una lira ha avuto altra destinazione. In un quaderno Settimia ha registrato, copia per copia, le vendite e gli incassi. Finalmente nell'autunno scorso il sogno è diventato realtà. Quindici studenti di Cava dei Tirreni, oasi felice nella vita di Settimia, l'hanno incontrata a Fiumicino ed al suo fianco sono partiti per la Polonia. Una Settimia trasformata. Non una traccia di stanchezza sul suo volto. Al contrario, un entusiasmo, una felicità immensa. Anche questo era un modo per rendere testimonianza alle sue compagne, mai dimenticate, sempre amate. Una volta giunti a Birkenau e ad Auschwitz, Settimia ha fatto violenza a se stessa ed è tornata la ragazza di allora. Gli studenti hanno vissuto il lager non con una superstite ma con la Mimì che sulla Judenrampe vede allontanarsi la sorella con la piccola Rosanna in braccio, destinata da Mengele alla morte per gas. Con Mimì hanno sentito sul loro braccio la vergogna del tatuaggio. Ė Mimì che li ha portati nel Block 10 quello degli esperimenti. Ed è stata la voce di Mimì che ha raccontato loro quanto accadeva al muro della Morte. Mimì ha fatto loro ascoltare le voci dei prigionieri russi lì fucilati, le voci dei politici torturati bestialmente nel Block 11. E hanno capito che la voce di Settimia-Mimì era la voce di tutti i "sommersi". Una voce forte e chiara che non chiedeva compassione ma che richiamava tutti all'impegno della Memoria. Memoria di ciò che è stato perché mai più possa riaccadere. Mai come in questo “viaggio"   nella   Shoah, Settimia è stata così generosa di se stessa. Auschwitz – Birkenau, il suo lunghissimo e totalizzante impegno l'hanno resa di scorza dura. Eppure Settimia è capace di generosità estrema. Chi la conosce più da vicino, conosce anche questo suo aspetto, Chi la sta ricordando in questo momento, ha potuto godere della sua amicizia. Già questo è non piccolo dono. Settimia è la mia "mamma Roma", miniera infinita di fatti e di aneddoti sulla città, sul Ghetto e i suoi abitanti. Ho conosciuto più di Roma dalle sue parole che da tanti libri. Una romana, Settimia, perennemente innamorata della sua città. Malgrado il 16 ottobre del '43. Tanto innamorata che quando le fu proposto il matrimonio e lo stabilirsi in America, declinò tutto, rispondendo: "Ahò, ma per me Frascati è estero". Perché Settimia è anche questa. Ed è anche quella che venuta a sapere della mia passione per alcuni piatti della cucina ebraico-romanesca, trova continuamente motivi per cucinarmi carciofi alla giudia, triglie alla mosaica, concia di zucchine. Non vi sembri irriverente: Settimia non è solo la sopravvissuta di Auschwitz. Settimia è anche  amica nel sento piano della parola. Le faremmo torto se la ricordassimo "solo" per la sua vicenda concentrazionaria. Ed io questo torto non posso e non voglio che da me lo riceva. Mi ha regalato momenti di rara intensità e la mia gratitudine sarà sempre poca cosa rispetto a ciò che ho ricevuto. E se qualcuno può dire che Settimia è donna dura, a volte scontrosa, poco incline a concedere, ebbene si sappia che chi molto può dare può molto chiedere. Ma quando ritiene di dare, molto sa dare. Così è Settimia. Ora Settimia ci ha improvvisamente lasciati. Stupiti, attoniti. Sì perché la pensavamo indistruttibile. Così, egoisticamente, la volevamo. La cultura ebraica, di cui Settimia è profondamente intrisa, ci insegna che nessuno è veramente morto fintanto che è vivo il suo ricordo. Ecco allora che possiamo affermare che Settimia non è morta. Ci ha "solo" privati della sua presenza fisica. Il suo ricordo, il ricordo che ciascuno di noi porterà in sé non può essere corroso dal tempo. Ė troppo forte, intenso ed intimo. Perciò, ricordandola, ho usato nello scrivere sempre il tempo presente. Perché Settimia non "era". Settimia "è".  

Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, n. 3 dicembre 2000, per gentile concessione

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