Triangolo rosso
Un “principe” a Mauthausen
di Ennio Elena
Un secolo di storia
Mi sembra quasi irreale intervistare un secolo di storia. E
di quale storia. Eppure Lodovico Barbiano di Belgiojoso, questo vecchio gentile
signore, è al di là del tavolino sul quale ho posato il taccuino e una copia
del suo libro Frammenti di una vita. C'è tanta Milano e tanta Italia
nella sua lunga vita.
Architetto, mi ha molto colpito questa parte del suo libro
di memorie. Si può trovare la verità in fondo all'abisso?
"Ho voluto dire che in queste circostanze drammatiche
siamo noi stessi, senza mediazioni, senza schermi, senza convenzioni, senza
ipocrisie. Noi stessi".
La sfida ai giganti
In fondo all'abisso si possono anche conservare la libertà,
la dignità. Vestiti di stracci si possono sfidare i giganti, come lei scrive
Belgiojoso accenna di sì, col capo ed ha un sorriso pieno di
orgoglio quando gli ricordo l'episodio del comandante del campo di Mauthausen
che passa in rassegna i deportati: "Era un uomo piuttosto bello,
abbronzato, con la camicia bruna a maniche corte ben stirata ed un frustino in
mano, che volentieri mollava in faccia ai detenuti.
Si dice che chi non ha memoria non ha futuro. Ma veramente
la memoria serve, ha un futuro?
"Sì, la memoria ha, deve avere un futuro perché è
ricca di insegnamenti. Serve a ricordare quello che non doveva essere, che non
dovrà mai più essere.
Paura dell'incredulità
Ha mai avuto paura che gli avvenimenti che voi raccontate
siano talmente terribili da sembrare incredibili?
"Sì, ho sempre avuto presente, parlando e scrivendo i
miei ricordi, il rischio di non essere creduti, anche se nessuno ha mai
manifestato apertamente la sua incredulità. Eppure l'ho fatto e occorre
continuare a farlo. Come ho spiegato nell'introduzione a Frammenti di una
vita ho esitato a lungo prima di scrivere, ma poi mi sono deciso perché è
un patrimonio di ricordi che mi sembrava giusto far conoscere, perché si eviti
di ricadere nella barbarie".
Ritiene che questa diffusione della memoria storica, la
conoscenza di quegli anni tragici, cupi soprattutto da parte di chi li ha
vissuti e sofferti in prima persona, sia particolarmente importante
oggi quando sono in atto molti tentativi di falsificare quel periodo?
"Senz'altro. È particolarmente importante perché solo
conoscendo la verità si impedisce di ricadere in quella tragedia".
Il fatto di essere un professionista le è stato di aiuto
nella detenzione nel lager?
"La vita era durissima per tutti. lo non finii nella
cava e fui invece mandato a lavorare alle officine Messerschmidt e Steyr dove,
dopo un primo periodo ai forni della tempera, fui adibito alla rettifica di
pezzi di fucili e di mitragliatrici, lavoro che per fortuna potevo fare stando
seduto.
Era come un dovere
Ha mai pensato, ricordando quei momenti terribili: ma ne
valeva la pena?
"Mai. Ho sempre pensato che ne valeva la pena. Ho
sentito quella scelta come un dovere."
Anche in momenti come questi che viviamo quando, cadute le
ideologie sembrano essere caduti anche ideali, valori e ci si preoccupi solo di
interessi?
"Anche adesso continuo a pensare che ne valeva la pena
perché io ho fatto una scelta di vita".
Su quella scelta ha influito il ricordo, l'esempio di due
suoi antenati come Cristina Belgiojoso Trivulzio e Federico Confalonieri, grandi
figure del nostro Risorgimento?
"Senz'altro. Ricordo anche nel mio libro che in famiglia
erano spesso citati ad esempio per il loro comportamento”.
Nessun rimpianto
Rivedendo il passato c'è qualcosa che rimpiange di non
aver fatto?
"No, sono abbastanza soddisfatto. Posso aver fatto
qualcosa male ma non ho rimpianti".
Tra le scelte che è soddisfatto di aver compiuto c'è
senza dubbio quella di aver deciso di diventare architetto, professione nella
quale ha fatto una prestigiosa carriera. Perché decise di fare l'architetto e
non, ad esempio, il medico o l'avvocato?
"Perché sono un po' figlio d'arte dato che mio padre,
Alberico era architetto e perché mi piaceva disegnare, occuparmi di case e
anche di urbanistica, soprattutto come accadde dopo la guerra con i problemi
riguardanti la ricostruzione che si ponevano a Milano pesantemente bombardata
nell’agosto del ’43 e in tante altre città europee. Come ricordo nel mio
libro di memorie la ricostruzione di Milano è avvenuta in modo sporadico e,
malgrado gli sforzi degli amministratori e delle associazioni di tecnici, in
assenza di un progetto omogeneo".
Il vento del rinnovamento
Nel 1932, subito dopo la laurea, lei e tre amici che con
lei si erano laureati - Ernesto Nathan Rogers, Gian Luigi (Giangio) Banfi,
Enrico Peressutti - avete dato vita allo studio professionale BB- PR destinato a
diventare dopo la guerra uno dei protagonisti dell'architettura del '900. A
quali concezioni ispiravate la vostra attività?
"Eravamo molto interessati, direi affascinati, da quel
grande movimento moderno, di rinnovamento, di avanguardia che prende il nome dal
Bauhaus, la scuola di architettura fondata nel 1919 a Weimar da Walter Gropius e
che svolse una grande funzione non solo per ciò che riguarda l'architettura.
A suo giudizio c'è stato di recente un importante
movimento di rinnovamento culturale?
"Il '68 aveva buone intenzioni, si poneva apprezzabili
obiettivi di rinnovamento. Ma... e a questo punto del discorso Belgiojoso agita
una mano come per scacciare un pensiero molesto "... gli esami di gruppo,
gli esami di gruppo".
In tema di architettura mi ha sempre incuriosito, e questa
esigenza penso l'abbiamo provata in tanti, sapere com'è nata l'idea della Torre
Velasca, di questo edificio, come dire?, un po' insolito e che rappresenta una
delle realizzazioni più importanti del vostro studio.
"Si doveva ricostruire al posto di un intero isolato
distrutto dai bombardamenti. Si potevano ricostruire case basse come quelle che
c'erano in precedenza o realizzare un edificio in altezza: noi scegliemmo la
seconda soluzione perché ci parve più suggestiva. Ritengo che la Torre Velasca
sia una delle più significative opere del dopoguerra e che arricchisca il
panorama cittadino".
La fatica di vivere
Nel suo Frammenti di una vita ha descritto le
difficoltà incontrate per riprendere la vita normale, dopo il periodo trascorso
nel campo di sterminio. La difficoltà maggiore era quella di convincersi a
vivere mentre la grande maggioranza dei suoi compagni non era sopravvissuta.
Scrive di aver anche pensato a togliersi la vita e ai modi di farlo.
Belgiojoso non smentisce, ovviamente, ma dallo sguardo si
capisce che questo ricordo non è fra quelli più graditi, anche se testimonia
di una grande sensibilità umana. Del resto ad una precedente domanda aveva
detto che il ritorno alla normalità dopo quell'inferno aveva rappresentato uno
choc.
Pensando al futuro
Ritiene sia possibile che l'umanità possa conoscere
ancora gli orrori che lei e milioni di altri esseri umani avete sofferto, che ci
possa essere un nuovo Olocausto?
La risposta è pronta e decisa: "No, ritengo che questo
non sia possibile per molti motivi, perché troppe cose sono cambiate anche se
penso che sia sempre presente il pericolo di dimenticare”.
Lei ha scritto: “Nel campo di Gusen ciascuno di noi
aveva una speranza e più la vita si assottigliava più la speranza di ciascuno
diventava importante. Ognuno si era abituato a vivere di speranza come qui uno
vive della propria arte, della propria passione. Oggi che cos’è per lei la
speranza?
“È il pensare positivo, ritenere che si possa vivere
normalmente e che sia possibile ottenere un miglioramento generale dell’umanità”.
Sono diverse le definizioni date del Novecento: secondo
uno scrittore, Golding, “è stato il più violento della storia dell’umanità”;
per un autorevole storico inglese, Hobsbawm, è stato un “secolo breve” per
l’accelerazione vorticosa degli eventi della storia; per un manager e uomo di
cultura, Martinoli, un “secolo da non dimenticare”. Lei che lo attraversato
praticamente tutto e da protagonista, come lo definisce?
“Concordo con la definizione di “breve” per la velocità
con la quale sono avvenuti molti cambiamenti e, poiché ho detto che sperare
significa pensare positivamente, getto uno sguardo di speranza sul futuro”.
Lodovico Barbiano di Belgiojoso
Nasce a Milano il I' dicembre 1909. Il padre Alberico era
architetto, la madre, Margherita Confalonieri, pittrice. Trascorre un'infanzia,
un'adolescenza e una prima parte della gioventù, in mezzo agli agi.
Il “principe”
"Da qualche giorno avevo notato che dei giovani russi,
estranei alla mia Halle, vi entravano guardinghi, alla spicciolata. A un
gesto di un loro compatriota mi passavano vicino, mi osservavano, mi toccavano
con un dito la spalla, mentre qualcuno ridacchiava: poi uscivano in silenzio.
Avevo scorto anche dei curiosi armeggi fra un italiano e uno dei russi della Halle,
dei passaggi furtivi, dei piccoli scambi, dei cenni misteriosi.
(Dal volume
Frammenti di una vita di Lodovico
Barbiano di Belgioioso).
Non mi avrete
Ho fame, non mi date da mangiare, |
ho sete, non mi date da bere, |
ho freddo, non mi date da vestire, |
ho sonno non mi lasciate dormire! |
Sono stanco, mi fate lavorare, |
sono sfinito, mi fate trascinare |
un compagno morto per i piedi, |
con le caviglie gonfie e la testa |
che sobbalza sulla terra |
con gli occhi spalancati... |
Ma ho potuto pensare una casa |
in cima a uno scoglio sul mare |
proporzionata come un tempio antico |
So |
Mauthausen-Gusen, maggio 1945 |
Una pelle di salame
"Coi due polacchi mi avvicinai al gruppetto delle SS,
che si era riunito: i due uomini e la donna, conversando in piedi, cominciavano
a mangiare pane e fette di salame.
(Dal volume
Frammenti di una vita di
Lodovico Barbiano di Belgiojoso).
Per un solo morto
“... un giorno, dopo essere tornato a Milano, mentre
passavo con Enrico Peressutti in corso Buenos Aires ho visto davanti a noi un
uomo di mezza età che, sceso dal marciapiede, stava avanzando rapidamente per
attraversare la strada senza accorgersi del tram che veniva dal centro. Il tram
lo ha investito in pieno e il poveretto è morto sul colpo tra le grida dei
passanti. Ho assistito alla scena senza avere la minima apprensione per la morte
del pover'uomo.
Un pezzetto di pane
"Ricordo che un giorno mentre stavo percorrendo via
Montenapoleone chiacchierando con Ernesto Rogers, ho scorto per terra, sul
marciapiede, un pezzetto di pane. Inconsciamente mi sono buttato a raccoglierlo
per metterlo in tasca. Ernesto ha subito capito e mi ha stretto il braccio senza
parlare".
Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, n. 3 dicembre 2000, per gentile concessione