Triangolo rosso

Saffo Morelli Deportato a 14 anni per uno sciopero contro la guerra

 

La drammatica testimonianza di Saffo Morelli, scomparso recentemente ­Era il marzo 1944 - La lista nera, l'arresto, le prime violenze, poi la trasferta nei carri bestiame verso Mauthausen ­ Costretto a trasportare i morti nella fossa comune - "Non scorderò mai quell'ingegnere tedesco che mi regalava un panino. Una volta mi fece anche una carezza". Il 5 maggio ‘45 colpi di cannone e grida festose annunciano la liberazione: "Arrivano gli americani..."

Aveva 14 anni Saffo Morelli di Empoli, quando venne deportato a Mauthausen, Ebensee, Florindsdorf e Gusen per aver partecipato agli scioperi del marzo 1944 contro la guerra, il fascismo e l'occupazione nazista. Saffo Morelli è morto il 6 marzo scorso. Aveva 70 anni. Poco più di un anno fa, nell'aprile 1999, aveva scritto, sulla sua terribile esperienza, la testimonianza che pubblichiamo.

Mi chiamo Saffo Morelli ed avevo 14 anni al momento dei fatti che voglio raccontare. Ero ancora un ragazzino che giocava con l'aquilone insieme ai compagni, ma lavoravo già in vetreria. Nel mondo operaio c'era da tempo un forte risentimento a causa dei sacrifici imposti dal regime fascista e per questo fu deciso uno sciopero generale di protesta. La sera del 4 marzo 1944, infatti, il secondo turno al quale appartenevo non iniziò il lavoro e gli operai si riunirono tutti davanti ai cancelli della nostra fabbrica, la Vetreria Taddei. Finito lo sciopero fu ripreso il lavoro, ma alcuni giorni dopo, alle 5 del mattino dell'8 marzo, vedemmo arrivare il capo turno con un elenco in mano. Lesse dei nomi (compreso il mio) aggiungendo che i chiamati dovevano presentarsi in ufficio da un impiegato. L'incaricato, dopo aver cancellato il mio nome dalla lista, mi disse di uscire. Fuori ci aspettavano dei fascisti repubblichini. Eravamo in 26 e ci portarono nella caserma di via Carrucci, dove stavano confluendo altre persone sorprese per la strada o prelevate dalle loro case. Mi chiedevo cosa stesse accadendo, sapevo che c'erano tante persone che non amavano i fascisti, ma io che ero ancora molto giovane non mi intendevo di politica. Stranamente mi veniva da pensare alla colazione (una frittata tra due fette di pane) che la mamma mi aveva preparato come sempre e che avevo dimenticato, nella fretta, sul muretto della fabbrica. Ci contarono e fummo consegnati a dei giovani fascisti che ci accompagnarono alla nuova destinazione: la caserma degli allievi carabinieri di stanza a Firenze. Era la tarda mattinata. Il comandante, che sembrava ignaro di quanto stesse accadendo, ci indirizzò ad una nuova sede: la famosa Banda Carità (le SS italiane). Quando ci costrinsero ad entrare, in gruppi di 50, in piccoli spazi dotati di robusti cancelli di ferro, eravamo tutti in uno stato di profonda apprensione. Dopo un ennesimo trasferimento alle Scuole Leopoldine, arrivò un ufficiale delle SS tedesche che invitò il comandante di quelle italiane a ... lasciar perdere, ottenendo però un secco rifiuto perché - disse - eravamo una massa di scioperanti. Così fummo portati alla stazione di S. Maria Novella, al binario 6 dove erano pronti dei carri bestiame nei quali ci stiparono, 40 per carro. Oggi c'è una targa accanto a quel binario, in memoria di un viaggio per quasi tutti senza ritorno. Durante il trasferimento furono gettati fuori dai carri dei biglietti, nel tentativo di far arrivare nostre notizie ai familiari. Il treno si fermò in aperta campagna e le SS minacciarono di fucilarci tutti, se avessero visto cadere anche un solo biglietto. È facile immaginare il terrore e la disperazione che ci accompagnarono per tre giorni e tre notti, senza mai bere, con una scatoletta da mezzo chilo di pasta di pesce ogni 10 persone e un pane da un chilo ogni quattro. Al Brennero, la Croce Rossa Internazionale tentò di dare un po' di assistenza ai prigionieri di alcuni carri, ma le SS lo impedirono: per loro eravamo soltanto dei banditi! Il treno riprese la corsa ed arrivammo a Mauthausen. Un grande portone di legno scuro ci dette il "benvenuto" al campo, circondato da una recinzione in muratura con fili ad alta tensione. Ci allinearono sull'attenti, tremanti per il freddo. Poco dopo arrivarono molti soldati russi che furono fatti spogliare nudi. Eravamo terrorizzati al pensiero che facessero lo stesso anche con noi. E confesso di aver pensato ingenuamente che essendo russi erano ... abituati al freddo. Dopo ore ed ore trascorse, sull'attenti, senza mangiare né bere, verso sera cominciarono a farci entrare nello scantinato della prima baracca (che oggi funge da cappella per la messa). Ci fecero spogliare portando via tutto quello che avevamo, ci visitarono, ci depilarono tutto il corpo, poi andammo sotto le docce, che alternavano acqua gelida a quella bollente, e ogni tentativo di sottrarci era inutile perché le SS ci picchiavano con i bastoni. Ciascuno ricevette una camicia, un paio di mutande e un paio di zoccoli all'olandese, e infine fummo ributtati all'aperto. Eravamo in 900. Cominciammo a marciare per raggiungere la zona della quarantena. E se la marcia si disuniva ci fermavamo per mezz'ora, nel gelo, come punizione. La baracca della quarantena, dove siamo rimasti per15 giorni, serviva solo per dormire su pagliericci ad una piazza, quattro per ogni pagliericcio, sdraiati su un fianco e in modo che i piedi dell'uno si appoggiavano alla gola dell'altro. All'inizio non sapevamo come fare a sistemarci e i kapò ci pic­chiavano con i manganelli di gomma, appesantiti da fili di piombo. Qualcuno ci disse che il giovane capoblocco aveva ucciso i genitori per soldi. Stavamo lì per dieci ore e le altre 14 le passavamo fuori, in camicia e mutande, con una temperatura che arrivava a 15 gradi sotto zero. Il vitto giornaliero consisteva in un pane da 1 chilo, un litro di zuppa di rape e 15 grammi di margarina ogni quattro persone. Alla fine della quarantena la fame, il freddo e la paura mi aveva causato una condizione di grande prostrazione fisica e psicologica. Ci divisero in tre squadre e fummo trasferiti chi a Linz o a Ebensee, chi a Gusen. La nostra dotazione era aumentata: avevamo anche un paio di pantaloni e una giacca, un cappotto e un berretto a strisce, un "guscio" per il materasso e due coperte. Ci depilarono di nuovo. Io a 14 anni non avevo ancora la barba ma per non essere picchiato fui costretto, da quel momento, a farmi "radere" ugualmente. Ci fotografarono e ci assegnarono il numero di matricola: a me toccò il 57287. Poi tutti in fila con molti altri, verso Ebensee, sempre lungo sentieri scoscesi per evitare il contatto con la popolazione dei paesi vicini. Lavoravamo in una cava il cui materiale serviva per costruire le officine che producevano le V1e le V2. Il lavoro era massacrante. Il 90% moriva ed io ero addetto, con un altro prigioniero, al trasporto dei cadaveri in una fossa da dove, una volta alla settimana, erano prelevati con un camion e portati ai forni crematori. Un giorno, mentre prostrato dalla fatica mi concedevo un breve riposo, un tedesco mi colpì con un ferro arroventato. Conobbi così l'infermeria e, cosa più importante, un conte inglese che fungeva da interprete con il comandante delle SS. L'inglese mi prese sotto la sua protezione, tanto da trattenermi al suo servizio. Riuscii a recuperare un po' di fiducia ed anche a ... mettere a tacere un po' il mio stomaco. Questa situazione mi dette l'occasione di aiutare due amici - padre e figlio - della Vetreria Taddei dove avevo lavorato. Il figlio era ricoverato in infermeria ed io mi adoperai per farli incontrare. Era severamente vietato, ma non lo sapevo. E così fui punito con 25 frustate sulle natiche e l'allontanamento immediato da Ebensse al campo di Mauthausen. Ero, insieme ad altri ragazzi provenienti da tutta Europa, tra i più giovani del lager. Ma a Mauthausen non rimasi a lungo: il 6 novembre 1944 arrivò infatti l'ordine di trasferimento per Florindsdorf, dove c'era una fabbrica di aerei. Non si stava tanto male, ma durò poco. Lavoravo per un ingegnere civile che tutte le mattine mi portava un panino. Non lo scorderò mai. Come non scorderò che una volta mi fece anche una carezza. La permanenza in quella fabbrica durò poco a causa di un bombardamento che fece molti morti, sia tra i tedeschi che tra i prigionieri italiani. Noi superstiti fummo rastrellati dalle SS e a piedi, insieme ai carri con le poche cose che potevano servire, avviati di nuovo verso Mauthausen. Fu un trasferimento faticoso, cinque giorni attraverso boschi e dormendo per terra. Ci capitò di vivere anche una orribile tragedia quando incontrammo una colonna di carri armati ed uno di noi, che non fu abbastanza svelto da scansarsi, rimase stritolato. A Mauthausen fummo divisi. Io venni mandato a Gusen dove fui assegnato ai servizi, diciamo, di supporto: portare il caffè, il "mangiare", pulire le camerate, ecc., mentre gli adulti lavoravano nelle gallerie, dove venivano fabbricati pezzi di aerei. Arrivò finalmente il 5 maggio 1945, un altro giorno che non scorderò mai. Si sentirono delle cannonate mentre si diffondeva un vociare confuso: "Sono gli americani ... sì ... sono gli americani ...", e quando ci accorgemmo che le SS scappavano, cominciammo a farlo anche noi. Gli americani aprirono i cancelli e noi tutti ci dirigemmo verso il paese. Per dovere di verità devo aggiungere che ci buttammo letteralmente sulle botteghe e facemmo piazza pulita di quel che c'era, specialmente del pane. Molti di noi morirono proprio perché il nostro organismo non era più abituato a tanta abbondanza. Gli americani ci "rastrellarono" e fummo rinchiusi di nuovo nel campo, ma stavolta niente quarantena. Fecero l'appello, allestirono delle brandine per chi stava male, si presero cura di tanti prigionieri. Restammo qualche giorno, poi salimmo sui camion per il ritorno. Dopo una notte trascorsa sul lago di Garda, ospiti presso un convento di suore, ripartimmo io e il mio gruppo direttamente verso la caserma Bergamaschi di Milano, dove finalmente ricevemmo degli abiti civili. Fino a quel momento indossavamo ancora le divise del campo. Da Milano ci si avviò verso casa. Ma il treno si guastò. Trovammo allora un passaggio in camion, poi di nuovo un treno ci portò a Firenze. Io ero con un compagno di prigionia e mentre si camminava, incontrammo per puro caso sua sorella. È facile immaginare la festa ... Mi costrinsero a rimanere con loro e il giorno dopo con un treno eccomi finalmente a Empoli. Un amico fece la staffetta dalla stazione in bicicletta, annunciando il mio ritorno a quelli che incontrava, fino a casa. Li trovai tutti lì ad aspettarmi. I miei fratelli non mi riconoscevano più ...

Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, settembre 2000, per gentile concessione

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