Triangolo rosso

Cefalonia – A prevalere fu la ragion di stato

Nessun colpevole. La prima,  terribile strage nazista archiviata in Italia e in Germania nel pieno della “guerra fredda"

Da uno scambio di lettere fra il ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino ed il ministro della Difesa, il democristiano­partigiano Paolo Emilio Taviani, emergono, dopo quasi mezzo secolo, le motivazioni che impedirono al giudice istruttore militare di Roma di processare trenta ufficiali tedeschi, presunti responsabili dell'eccidio dell'Egeo in cui furono massacrati 6.500 soldati italiani. L' "inopportunità" di un'inchiesta mentre Bonn si proponeva come lo scudo armato antisovietico dell'Occidente. Nel 1969, nove anni dopo i colleghi romani, i giudici di Dortmund, pur sollecitati a scoprire la verità da Simon Wiesenthal, batterono la stessa strada.

 

di Franco Giannantoni

 

Fra i 695 fascicoli sepolti per quasi mezzo secolo nelle cantine di Palazzo Cesi a Roma dentro quello che ormai è passato alla storia di questo Paese come "l'armadio della vergogna", tutti bollati dalla Procura generale militare con la stravagante formula dell' "archiviazione provvisoria", non c'era quello di Cefalonia, l'isola dell'Egeo dove furono massacrati, a metà settembre del 1943, seimila cinquecento ufficiali e soldati della Divisione "Acqui". Fucilati nel corso dei primi rastrellamenti e dopo la resa, i poveri corpi arsi per non lasciare tracce, infine, se non bastasse, strappati alla memoria collettiva per troppi, lunghi anni. C'erano nel famigerato armadio "solo" i fascicoli ingialliti delle 71 fucilazioni nel campo di polizia di Fossoli del giugno del '44, dei 50 massacrati a Bolzano, delle centinaia di vittime civili a Sant'Anna di Stazzema, Gubbio, il Turchino, la Benedicta, La Storta (alle porte di Roma) dove vennero proditoriamente assassinati Bruno Buozzi e i suoi dodici compagni e altro ancora. Ma la tragedia di Cefalonia era come se ci fosse stata perché, anche se per altra strada, l'esito è stato lo stesso: l'oblio sino alla rimozione storica e politica. Eppure Cefalonia era stata una pietra miliare della storia patria, la scintilla della prima Resistenza, il primo, almeno in una fase, scontro guerreggiato dopo l'8 settembre in campo aperto, fra reparti regolari italiani e tedeschi. Ma per una censurabile ed inaccettabile "ragion di Stato", Cefalonia fu anche la prima strage nazista che il potere politico centrista nel 1956 volle rimuovere, emarginare, ricacciare in un estremo angolo della memoria. Un destino che solo pochi anni dopo, nel 1969, avrà una sua rappresentazione anche in Germania: la magistratura tedesca, senza svolgere un'indagine minima, dopo aver fatto viaggiare a vuoto il fascicolo, peraltro magro, fra Dortmund e Monaco di Baviera per motivi di competenza territoriale, ritenne di non aver potuto trovare tracce di quella carneficina, la cancellò, giunse addirittura a metterne in discussione l'esistenza.

Un testardo giudice di Roma individua trenta responsabili

Cefalonia, era stato il coro italo-tedesco di quegli anni bui, l'era della guerra fredda, ma di cosa state parlando? Eppure un testardo giudice istruttore del Tribunale militare di Roma, investito dagli esiti dell'azione penale del Procuratore militare (non la Procura generale militare!), che aveva condotto concrete indagini sulla base di un esposto-denuncia del magistrato della Corte d'Appello di Genova dottor Triolo, padre di un caduto, nel 1956 era giunto all'apprezzabile risultato di individuare i nomi di trenta presunti responsabili, tutti appartenenti alla Wermacht che a Cefalonia avevano condotto i loro reparti contro gli accampamenti italiani da Argostoli, al monte Dafni, a Farsa, a Kuruklata, dando vita ad una mattanza senza precedenti. Il giudice istruttore militare italiano avrebbe voluto ottenere dalle autorità di Bonn, mercé la collaborazione del Ministero degli Esteri italiano, retto in quel periodo dal liberale Gaetano Martino, la possibilità di verificare e arricchire la corrispondenza anagrafica dei nomi degli indagati ed ottenere la loro estradizione. Una tappa essenziale per poi valutare le reali responsabilità penali e giungere al processo. Il ministro Gaetano Martino il 10 ottobre 1956 inviò una lettera "riservata personale" (nda: a pag. 34 il testo integrale) al ministro della Difesa, il democristiano Paolo Emilio Taviani, nella quale, fra giudizi discutibili (le fucilazioni definite incidenti; l'eventuale denuncia italiana un tardivo risveglio!!!) sostenne l'inopportunità di alimentare in quella fase storica una polemica contro "il soldato tedesco" proprio nel momento in cui il governo di Bonn stava per riorganizzare l'esercito in funzione anche di scudo atlantico contro l'Est sovietico. Un altro ostacolo era rappresentato dall'inesistenza di un regolare trattato italo-tedesco che regolasse l'istituto della estradizione, allo stato non possibile. Meglio, si erano detti i ministri in simbiosi perfetta, eludere ogni richiesta senza neppur tentare (e sarebbe in fondo stato possibile) di processare in contumacia i criminali, fornire eventualmente a Bonn quell'elenco di nomi che la magistratura tedesca avrebbe comunque conosciuto prima che scattasse la prescrizione ventennale per i reati nazisti ormai alle porte. Le "preoccupazioni" del ministro Martino (capo dello Stato era Antonio Segni, altro dc) erano state accolte senza un solo appunto dal collega Taviani che il 20 ottobre aveva risposto all'invito, dando il suo benestare. "Concordo pienamente con le tue valutazioni", aveva fatto sapere, il ministro della Difesa, rilevante figura di antifascista nonché presidente nazionale della Fvl, una delle tre associazioni partigiane. Ragion di Stato ed opportunità politica dunque, unite alla sudditanza atlantica, avevano contribuito a porre una pietra tombale sull'eccidio con il risultato di uccidere per una seconda volta quelle migliaia di morti. La querelle politico-istituzionale non era chiusa. Il 23 gennaio 1957, ancora il ministro Martino, rivolgendosi a Taviani, aveva segnalato che la Procura militare, preso atto dell'impossibilità dell’estradizione, aveva insistito per avere, per via diplomatica, un controllo anagrafico dei nomi dei trenta presunti responsabili nazisti. Martino aveva però respinto la richiesta della magistratura militare, aggiungendo che era corsa voce (sarebbe stato un po' troppo!) che tale generale Speidel, gerarca di prima grandezza nella campagna di Grecia, sembrava fosse in corsa per un alto comando nelle forze armate. Il 12 febbraio 1957, Taviani, aveva fatto sapere di condividere ogni valutazione della Farnesina, smentendo che lo "Speidel-boia" fosse il candidato militare Nato: lo era invece il fratello.

... e poi le stragi furono tutte sepolte nei cassetti

Risolto il nodo centrale del problema Cefalonia, il 14 gennaio 1960 il Procuratore generale militare Enrico Santacroce, "coperto" dal potere politico, aveva "provvisoriamente" archiviato le altre stragi, racchiuse in fascicoli ricchi di importanti elementi mai esaminati, compresi i rapporti anglo-americani, redatti nei campi d'internamento del nord Africa, dove dall' autunno del '43 erano stati trasferiti molti responsabili nazisti catturati sul fronte italiano. "Un’archiviazione provvisoria . ha commentato puntualmente Franco Giustolisi, autore di "Gli scheletri dell’armadio", un rigoroso saggio, apparso su "Micromega" n. 1 anno 2000 probabilmente in previsione di una sentenza della Corte Costituzionale che doveva decidere sul passaggio degli atti e delle competenze dalla magistratura militare a quella ordinaria. Si era cercato in poche parole di precostituire un alibi, quel passaggio però non avvenne e l'armadio seguitò a contenere i suoi segreti". Un'indagine del marzo 1999 del Plenum del Consiglio della magistratura militare (CMM), l'equivalente del Consiglio superiore della magistratura ordinaria, concluse i suoi lavori con una stupefacente rivelazione: mentre nel 1960 i fascicoli riguardanti le stragi con i nomi dei colpevoli erano rimasti bloccati e destinati nell'"armadio della vergogna", "quelli che non comprendevano le indicazioni sugli autori del reato e corrispondevano pertanto a procedimenti contro ignoti" erano stati trasmessi alle Procure circoscrizionali. "Da quell'armadio - ha scritto Giustolisi - uscirono soltanto le inchieste innocue, quelle che non potevano dare adito a nessuna incriminazione, ad alcun processo contro i nazisti, contro i repubblichini". In realtà la gran maggioranza di quei 695 fascicoli, ben 415 (il dato è riferito sempre da Giustolisi, autorizzato dopo lunga attesa a prender atto delle carte consultabili) era, come aveva osservato il CMM "nei confronti di militari identificati, appartenenti alle forze armate germaniche oppure alle milizie della Rsi. In gran parte dei casi i fatti denunciati sono crimini di guerra, più particolarmente reati anche a danno di persone estranee ai combattimenti con prevalenza di maltrattamenti, violenze ed omicidi. E, tra questi, alcuni di quegli eccidi, noti alle cronache di quel tragico periodo e ancora presenti alla memoria dei superstiti e nelle lapidi commemorative erette nelle piazze del nostro Paese". In Germania, se il percorso giudiziario era stato diverso, l'esito era apparso nella sostanza identico. Cefalonia, pagina disturbante per la coscienza tedesca, era stata liquidata con una nota ambigua ed odiosa. Paradosso della storia, ad Arianna Giachi una sconosciuta cittadina italiana residente in Germania, autrice su "Die Welt" di un saggio apparso il 16 ottobre 1964, era spettato il compito di demolire in chiave apologetica il sofferto libro di Marcello Venturi "Bandiera bianca a Cefalonia" (Rizzoli) che aveva puntato il dito sui rastrellatori della Divisione alpina tedesca, le tre colonne dei "Gebirgsjager" del maggiore von Hirchfeld, accorse via mare per portare aiuto all'insufficiente guarnigione locale ai fini della "soluzione finale". La immacolata Wermacht doveva essere tenuta al riparo da ogni possibile scorribanda demolitrice della sua gloria militare, non doveva a nessun costo essere messa in discussione mentre il nuovo esercito federale, fra comprensibili difficoltà e immaginabili condizionamenti stava prendendo forma. Cefalonia, secondo la Giachi, era stata né più né meno una ricostruzione fantastica di uno scrittore anti-tedesco in vena di facezie. Eppure, anche in quel caso, da quel libro drammatico e avvincente, pubblicato nel 1963, apprezzato da Salvatore Quasimodo, ebbe inizio la prima fase di un'abbozzata e via via irrobustita anche se sfortunata denuncia: ad un intervento iniziale di Simon Wiesenthal, direttore del Dokumentation Centrum di Vienna, all'Ufficio centrale per i crimini nazisti di Ludwisburg che aveva reso noto di ignorare del tutto l'esistenza di Cefalonia, era seguito un corposo carteggio inviato dallo stesso Venturi, messo in contatto con Wiesenthal dallo storico Angelo Del Boca: testimonianze dei superstiti, un elenco di appartenenti alla Divisione "Acqui" scampati al massacro, le voci registrate dei contadini di Cefalonia muti spettatori della caccia agli italiani inermi, alcune fotografie, il diario del cappellano militare padre Luigi Ghilardini, la fotocopia degli atti del processo davanti alla Corte marziale italiana subito dal capitano Amos Pampaloni ("fucilato" ad Argostoli, ferito, sopravvissuto dopo aver risalito di notte i cadaveri dei compagni nella fossa comune) per "insubordinazione", assolto a pieno titolo, decorato come del resto altri trascinati nella vergognosa provocazione giudiziaria.

Dietro pressione di Wiesenthal le autorità tedesche indagano

Simon Wiesenthal ritornò alla carica qualche tempo dopo, costringendo infine le autorità tedesche ad avviare un'indagine penale. Il 3 novembre 1964 il Procuratore di Stato di Dortmund dottor Obluda, cominciò l'inchiesta ma il 30 novembre, all'improvviso, il fascicolo ancor vergine prese la strada di Monaco di Baviera per competenza territoriale. Secondo Obluda, il pubblico ministero di Monaco si sarebbe immediatamente fatto vivo coi denuncianti ma il tempo passò e né Venturi né il "cacciatore di criminali nazisti" dalla sua sede viennese seppero nulla sino al 7 ottobre 1965 quando Dortmund segnalò che il fascicolo, da Monaco, era tornato a destinazione per le stesse ragioni per cui era partito qualche tempo prima. Si era trattato di una volgare trappola. Il dottor Obluda a conoscenza (glielo aveva rivelato Venturi) che il nome del capitano Karl Ritter, utilizzato nel racconto, era stato inventato per necessità ma era autentico per comportamenti, chiese allo scrittore italiano notizie più precise sull'identità che evidentemente non potevano essere date. Un modo elegante per simulare un impegno investigativo ma anche il mezzo per affermare che la magistratura tedesca non si sarebbe mai più interessata di Cefalonia. Infatti andò così: il 25 agosto 1969 il dottor Hess, Procuratore capo di Stato, informò Simon Wiesenthal "che l'istruttoria relativa al caso di Cefalonia è stata accantonata dopo che indagini condotte su ampia scala non hanno dato alcun risultato". Una menzogna colossale: se Karl Ritter non era che il nome fittizio di un boia che attraverso gli archivi ed i ruolini militari avrebbe forse potuto avere un volto, l'altro ufficiale individuato, il comandante della Divisione Alpina, il maggiore von Hirchfeld, era scomparso nella campagna di Russia. Il Procuratore Hess, moderno Ponzio Pilato, aveva concluso il proprio vacillante scritto, affermando che non era stato possibile trovare "nessun membro vivente della Wermacht responsabile della fucilazione dei prigionieri di guerra italiani o persone che abbiano partecipato alle fucilazioni. Di conseguenza ho archiviato l'inchiesta". Il dottor Hess, come Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani, seppur con motivazioni differenti, aveva contribuito ad affossare per sempre la verità su quella tragica storia. In Italia, con grande fatica, erano state ricostruite le generalità di trenta presunti responsabili del settembre del '43 fra le centinaia di ufficiali che, presi gli ordini direttamente da Berlino da Martin Borman, il vice di Hitler, avevano aperto il fuoco indiscriminatamente, contro la Divisione "Acqui" del generale Gandin. In Germania, gli stessi ufficiali vivevano tranquilli, con la loro brava pensione di guerra, ancor nel pieno delle forze, qualcuno in carriera militare, le mani grondanti sangue innocente: il tenente colonnello Hans Barge, comandante il presidio tedesco a Cefalonia, il generale Hubert Lanz, il capitano Rademacher, il tenente Heindrich, il tenente Kuhn, altri ancora. Tutti i fascicoli erano finiti per "ragioni superiori" meticolosamente nell'armadio, un vecchio mobile marrone scuro, a Palazzo Cesi nella capitale italiana e all'ultimo piano della Procura di Dortmund. Archiviati per sempre. Coperti di polvere quegli atti debbono ora uscire alla luce del sole. Lo reclama la storia.

Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, settembre 2000, per gentile concessione


Nell’armadio della vergogna 695 fascicoli occultati

Lo scandalo della Procura generale militare sulle stragi nazifasciste

 

di Franco Giannantoni

 

Nel numero 1 del gennaio 2000 di "Triangolo Rosso" denunciammo la incredibile vicenda dell' "armadio della vergogna" di Palazzo Cesi di Roma dove da decenni giacevano sepolti nella polvere e dimenticati dalla giustizia, centinaia e centinaia di fascicoli processuali relativi alle stragi nazifasciste, "archiviati provvisoriamente" (istituto giuridico inesistente nella procedura giudiziaria del nostro Paese), dalla Procura generale militare negli anni dell'immediato dopoguerra. Uno scandalo che ha permesso a centinaia di aguzzini fascisti e tedeschi, responsabili delle orrende stragi compiute fra il 1943 ed il 1945, di salvarsi. Nei loro confronti, tranne rarissime eccezioni (le Fosse Ardeatine, Caiazzo, piazzale Loreto, la Benedicta e Marzabotto, ma per altre ragioni), non arrivarono mai nei processi né tanto meno le condanne. Perché il silenzio? Perché istruttorie che avevano già concluso il loro cammino, spesso arduo, con i nomi e i cognomi dei colpevoli, alti ufficiali nazifascisti e semplici esecutori, non approdarono in aula, perché i giudici militari, in nome della Repubblica italiana, non poterono scavare dentro le stragi, denunciare gli orrori e le logiche criminali, giungendo alle sentenze? Perché si è preferito insabbiare anzi sotterrare denunce, inchieste, esposti? La “ragion di Stato”. Si affermò allora nella tempesta della "guerra fredda" l'interesse po­litico dei governi centristi dell'epoca, di non sfiorare con il marchio dell'infamia stragista il soldato tedesco e la Germania che proprio in quel tempo stava attrezzandosi all'interno della Nato per fungere da poderosa macchina militare piazzata contro il colosso sovietico. Processare e condannare dei criminali, seppur delle SS, poteva fare il gioco di Mosca. Nel numero 3 di "Triangolo Rosso" del settembre scorso documentammo quella scelta politica, pubblicando la corrispondenza intercorsa nel 1956-1957 fra il ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino e il ministro della Difesa, il democristiano partigiano Paolo Emilio Taviani. Degli "incidenti" (così erano definite dalla Farnesina le stragi!!) meglio non parlarne, aveva suggerito il cautissimo filo-atlantico Martino. Sono d'accordo, aveva risposto il cattolico Taviani, ribadendo di recente il proprio "orgoglio" per quella odiosa scelta. Dall' "armadio della vergogna" fa sapere Franco Giustolisi ("L'Espresso" n. 45 del 9 novembre scorso), il primo studioso a prendere visione del materiale sepolto, il bilancio è questo: occultati 695 fascicoli istruiti, di cui 280 rubricati a carico di ignoti nazisti e fascisti, 415 a carico di militari nazifascisti identificati. Centinaia di fascicoli, inoltre, avrebbero dovuto essere ancora avviati. Le accuse vanno dalle violenze, agli omicidi, agli eccidi a danno, in prevalenza, di persone estranee ai combattimenti. Il registro, descritto da Giustolisi, è costituito da 231 fogli lunghi 42 centimetri e larghi 30. La prima pagina registra 456 morti. Al numero 1 dei fascicoli, in "bella grafia", in corsivo, l'anonimo cancelliere, al servizio del Procuratore generale militare Umberto Borsari (allora alle dirette dipendenze dell'esecutivo, esemplare caso di controllo da parte del governo, esattamente quello che vorrebbe ora il centro-destra!!) aveva registrato "l'eccidio delle Ardeatine e altre località vicine". La musica non sarebbe stata diversa con i successori dell'eccellenza Borsari, Arrigo Mirabella ed Enrico Santacroce. Tutto il materiale in bell'ordine in cantina, almeno fino al 1974 dove l'età media dei catturandi era elevatissima e la speranza di trovarne qualcuno in vita, assai esile. Nell'armadio c'erano anche i fascicoli degli eccidi tedeschi compiuti all'estero contro i soldati italiani nelle giornate immediatamente successive all'armistizio, da Korica, a Lero, Scarpanto, Cefalonia (sì Cefalonia): quest'ultimo, istruito dalla magistratura romana che era arrivata ad indicare nel colonnello Barge e nel maggiore Hirschfeld i presunti colpevoli, era finito nei bassifondi di Palazzo Cesi il 22 dicembre 1951, sempre con la stravagante motivazione dell'archiviazione a tempo, parto della fantasia collaborazionista di magistrati militari al soldo del potere politico. Ora un Comitato d’indagine cercherà di stabilire le responsabilità che dal punto di vista penale sono personali: chi diede l'ordine ai magistrati della Procura generale militare di nascondere tutto? È auspicabile che un giorno si possano conoscere i nomi dei colpevoli. Se possibile, al più presto. Anche se l'argomento non pare appassionare il mondo politico, si tratta di uno dei più gravi scandali della vita repubblicana.

Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, dicembre 2000, per gentile concessione

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