Il celebre regista americano
Steven Spielberg, dopo aver prodotto "Schindler's List", ha stanziato
cento milioni di dollari per registrare su nastro le testimonianze di ogni
sopravvissuto alla barbarie dei campi di sterminio nazista ancora in vita.
Un'Alta Corte di Londra ha condannato il "negazionista" David Irving
definendolo un "razzista antisemita" che ha "manipolato le prove
storiche" sull'Olocausto. Ma è bene tuttavia che risuonino le voci degli
scampati e che, quando questo non è possibile, vengano conosciute, specialmente
dai giovani, le memorie che i reduci dai lager ci hanno lasciato. E tra queste
un posto di grande rilievo occupa il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi.
Una nobile testimonianza della sofferta dignità e dell'irriducibile resistenza
dell'uomo all'oppressione e alla ferocia. Il "Diario" di Carpi è
probabilmente l'unico uscito da un lager nazista, scritto sfidando
quotidianamente torture e morte.
Quella
domenica a Monsonico
"Mi ricordo che quella domenica a Mondonico - era il 23
gennaio 1944 - quando sono uscito di casa per andare in studio, ho notato che i
cani che avevo allora erano spariti tutti e due, e mi sono domandato il perché
di questo fatto; e così sono andato in studio e ho cominciato a ragionare tra
me.. Quando ho visto passare le automobili dei fascisti sulla
salita che porta al paese, ho pensato che fossero dirette al mio studio e mi son
detto: 'Sono loro'. Difatti erano loro -, ma hanno tirato diritto verso casa
mia; da me in studio è venuto invece l'ortolano per avvisarmi: 'Stia attento!
Ci sono là tutte le guardie, i fascisti coi mitra, eccetera, eccetera, e
allora io, naturalmente, essendo capo di famiglia, sono andato a casa. "Il bello è che erano venuti in tanti, c'era tutta la
casa circondata ed erano armati di mitra e rivoltelle come se avessero dovuto
arrestare il brigante Gasparone. Avevano perquisito tutta la casa cercando armi
che non c'erano. Ricordo che quasi non volevano lasciarmi entrare. E lo ho
detto: 'Scusate tanto. Sono venuto qui da solo mentre avrei potuto tagliar la
corda: ero lontano abbastanza dalla casa, no? Lasciatemi almeno salutare la
famiglia.' E mi han lasciato salutare la Maria e io le ho consegnato il mio
portafoglio dove non c'era neanche un centesimo. Poi ho fatto il segno della
croce con la Maria e mi hanno portato via." Inizia così, in una piccola frazione fra le colline di
Olgiate Calco, dov'era sfollata da Milanola famiglia Carpi, in una domenica invernale che pareva come tutte le
altre, il drammatico racconto del "Diario di Gusen".
La
prima “lettera a Maria”
Due giorni dopo l'arresto, Carpi scrive alla moglie Maria una
lettera dal carcere milanese di San Vittore. È la prima lettera a Maria,
l'unica che le sia pervenuta perché le altre, quelle scritte nel lager di Gusen,
furono amorevolmente e pericolosamente custodite dall'autore e formano la prima
parte del diario. La lettera, spedita clandestinamente al fratello Umberto, è
improntata ad ottimismo per cercare di rassicurare la moglie e i figli sulla sua
condizione di detenuto e sul suo futuro, un ottimismo che però, purtroppo, sarà
smentito dai fatti perché poco meno di un mese dopo, il 20 febbraio, Carpi
viene deportato a Mauthausen. E comincia e così il lungo viaggio nell'orrore
del campo di sterminio.
La"guerra"
dei pittori
Carpi finisce al blocco della quarantena e successivamente,
in aprile, dopo che un amico ha fatto sapere che è un pittore, viene trasferito
al blocco 17 "dove c'erano altri pittori, francesi, jugoslavi,
cecoslovacchi, spagnoli, russi. Così mi hanno messo a dipingere un po' e col
lavoro ero un pochino più rispettato e mi davano da mangiare qualcosa in più,
un po' di patate per esempio." Ma il miglioramento dura poco perché gli altri pittori, che
erano detenuti da oltre due anni, muovono guerra al nuovo arrivato. "Quando
hanno saputo che ero professore di pittura a Brera", rievoca Carpi,
"mi si sono messi contro e così, ad un certo momento, mi sono visto
togliere il mangiare, e poi anche i colori. Un giorno ho visto arrivare sul
tavolo del nostro blocco i colori che avevo portato da Milano e ho detto: Oh
guarda, i miei colori ! C'era lì un mio collega pittore - non italiano,
cecoslovacco - e ha detto: "Guarda un po' il numero che hai." lo avevo
un numero di cinque cifre - 53376 - e lui uno di quattro e per di più basso,
quindi aveva tre o quattro anni di lager più di me. E allora mi ha detto: 'Qui
il mio e il tuo non esistono, esiste solo il numero.' La vita era così. Bisogna
notare che lui aveva una posizione faticosamente conquistata e l'apparizione di
questo pittore italiano gli aveva fatto temere di essere assegnato a dei lavori
fuori del campo e quindi morire. Ma dopo la liberazione proprio quel pittore mi
ha scritto da Praga: per sapere se ero vivo o morto. Gli ha risposto. 'Vivo,
stavo bene, mi ero salvato; ciao!"
Gusen e i medici polacchi
Gusen è stato definito "la più
tragica dipendenza del campo centrale", e cioè di Mauthausen. Vincenzo Pappalettera nel suo "Tu passerai per il
camino" scrive: "A quel Kommando destinarono oltre cinquantamila
deportati; alcuni spagnoli affermano che circa mille sono sopravvissuti, fra
loro duecento italiani riuniti dall'avvocato Albertini." Carpi viene
mandato a lavorare alla cava. La vita diventa insopportabile per un uomo che si avvicina
alla sessantina, che non ha mai fatto lavori manuali ed è indebolito dalle
sofferenze. I compagni cercano di aiutarlo come possono. Luigi Caronni, un
contadino di Saronno, quando lavoravano la terra e, racconta Carpi, "dopo
un po' il badile mi girava nelle mani" gli diceva: "Professor, el staga davanti a mi: el faga finta de lavoraa." Dopo una settimana di cava Carpi non riesce neppure
più a stare in piedi. Lo aiutano due medici polacchi, Kaminski ed il chirurgo
Goscinski, dei quali diventerà amico. Lo ricoverano nel Revier, l'ospedale, dove vie ne operato per rigonfiamenti sotto le
ascelle e alle gambe. E dall'ospedale non lo lasceranno più uscire. "Lì a
Gusen, se non ci fossero stati i medici polacchi, guai! Se non avessero preso
affetto per me non tornavo più a Milano. Questo è sicuro", ricorda Carpi.
L'arte che salva la vita
Aldo Carpi si salvò perché era un pittore. Ha dipinto molti
quadri per i suoi carnefici, è stata una grande sofferenza. Ma era una via
obbligata per non tornare alla cava, per non morire distrutto dalla fatica.
"Un pittore a Mauthausen", ricorda, "aveva fatto anche venti
ritratti di Hitler. Se me ne avessero ordinato uno, avrei dovuto farlo anch'io.
Quando il capitano Hoffman mi aveva portato la fotografia di suo figlio, un
giovane di diciotto - vent'anni morto in un sottomarino, ne ho ricavato
volentieri un ritratto. Poi mi ha portato una fotografia della moglie e una di Hitler
e mi ha detto. "Scegli." lo ho fatto il ritratto della moglie. Così
mi facevano lavorare e mi davano magari un po' di latte; e mi procuravano un
certo rispetto, perché anche tra i deportati se uno era benvoluto dai capi lo
rispettavano, ossia non lo picchiavano; tutti davano botte, anche i deportati,
era proprio una specie di giro interno di botte." Il suo primo "committente" mentre era ancora
sofferente in ospedale, fu un sergente medico delle SS, Hans Giovanazzi, che gli
chiese di dipingere qualcosa, non ricorda bene Carpi, se per lui o per un'altra
SS. Naturalmente devono dotarlo di una tavolozza, di un
cavalletto e di colori che, però non sono "colori da pittore, colori da
imbianchino, polveri. lo ho cominciato a mescolarli con miscele di olio, un
pasticcio. Non potevo fare il cielo celeste perché quando mettevo il bianco col
blu diventava viola. I miei cieli sereni erano blu scuro. "Ho dipinto dei
paesaggi italiani, a memoria; non avevo niente a cui ispirarmi. E siccome sono
piaciuti, è venuto da me anche il capitano medico delle SS Helmuth Vetter che,
in sostanza, con me è sempre stato gentile, ma in compenso era responsabile
della morte di tanti altri. A Vetter ho fatto due ritratti a olio. Mi parlava
della famiglia, di tante cose; mi ha anche domandato una volta: 'Ma come mai l'han
portato qui?' Era strana una frase come questa, là."
Le lettere non spedite
Le prime due delle tante lettere a Maria, scritte su
foglietti recuperati nel servizio patologia dell'ospedale, sono del Natale 1944.
C'è, naturalmente dominante, il pensiero della moglie e dei figli lontani,
intenso soprattutto nell'atmosfera di questo giorno particolare. Ma c'è anche
una profonda riflessione sulla tragedia del tempo attraversato: "Il mio
destino fisico non è interessante. Più e più vedo l'inanità umana"
scrive nella prima delle due lettere "la bestialità immanente e il dolore
senza limite, e più sento in me lo spirito universale che abbraccia e conduce,
la realtà tangibile dell'anima umana, il suo fatto solido potenziale che brilla
nell'oscurità del soffrire". Nella seconda, scritta la sera, c'è il tema
dell'arte, della sua degradazione in merce: "Dico che l'arte non la si può
mettere alla berlina, perché sfuma appena la si tocca malamente, e la parvenza
d'arte che rimane non è altro che pagliacceria e volgare desiderio di lucro; è
bottega, qualcosa di sacrilego. Pochi si salvano da questo naufragio: ma il
tempo non è sempre lo stesso, ritornerà il senno, e all'arte sarà restituito
il rispetto morale che le è necessario per non essere malamente toccata."
Passa più di un mese e mezzo prima che Carpi riprenda a scrivere alla moglie
quel- le lettere non spedite perché, spiegherà dopo il ritorno a Milano, le
"prime le avevo scritte semplicemente per sfogo dell'animo." Poi
riprende a scrivere sfidando gravissime conseguenze: "Era un modo di
pensare ai figli."
Un lavoro forzato
Sente il peso della sua condizione di prigioniero costretto a
dipingere "cose che a loro interessino", "altrimenti quel po' di
comodo che mi sono conquistato è perduto, e per me vorrebbe dire la
morte." Ma è anche questo, sia pure in forma infinitamente più
sopportabile della fatica alla cava, un lavoro forzato. "Invento paesi, scene, marine e faccio ritratti da
fotografie. Ho fatto pure qualche ritratto dal vero, ma ho sempre l'impressione
di non essere pittore, di non esserlo più, di essere già tanto invecchiato e
appesantito, d'aver bisogno di un ricovero. Ma qui non si può riposare; e
allora, come ognuno, anch'io compio la mia marcia, fortunata. Fortunata assai rispetto a quella d'altri compagni. Forse
qualcosa di buonino ho fatto, ma è tutto lavoro senza quello sprizzo di fosforo
libero che è il bello e il buono del lavoro. Manca l'accento, quello strappo
finale e poi; e poi? manca l'ispirazione. L’ispirazione arriva al pittore dal
vedere, dal sentire, dall'amare, dal capire. Quello che potrebbe ispirarmi, qui,
è la vita di qui; che potrebbe ispirare dell'arte con la sua dolorosa e non
sempre dolorosa realtà: ma questa ispirazione sarebbe totalmente negativa per
il mio olavoro di qui. Nessuno
vuole scene e figure del lager, nessuno vuol vedere il Muselmann cheè
il tipo del vinto di qui, del giovane vinto di qui."
La nobile fatica di capire
"Certo, guardando questo conglomerato di razza
umana", scrive in una lettera di fine febbraio '45, "si potrebbe dare
un giudizio un po' disperante su di essa. Tuttavia ogni possibilità di azione
qui è tolta: tutti questi uomini sono stati strappati dal loro ambiente e
costretti ad un lavoro che è lontano dalle loro capacità. Talora si penserebbe
di dover incontrare un maggior numero di menti elette e non solo dei ventri
vuoti da riempire. Ma il ventre vuoto è una cosa terribile e, aggiunto al
lavoro faticoso tanto estraneo alla nostra indole, spinge l'uomo, come ogni
animale, a cercare cibo. E così pare che l'anima non esista affatto, ma solo la forza
fisica e il cibo." E sulla condizione del prigioniero affamato, sul prevalere
dello stomaco torna nei primi giorni di marzo: "Qui non si medita, la vita
dello spirito è completamente abolita e rimane vivo soltanto il richiamo dello
stomaco. La mia vita più calma mi permette di pensare e talvolta anche di
leggere. Il mio stomaco non ha grandi esigenze e perciò non mi
assorbe tutte le attività. Ho capito che la fame volontaria è eroica, sostiene
un ideale ed è quindi vita positiva, mentre la fame involontaria è deperimento
avvilente ed è vita negativa. Il corpo è una macchina meravigliosa, migliore
di tutte le macchine di questo mondo, ma deve essere tenuta in buono stato perché
funzioni bene. Quando il corpo si deprime e si avvilisce, raramente l'anima può
parlare, può accentuare la sua voce. Oh Maria." Ci sono in queste
considerazioni lo sforzo, la nobile fatica di capire, di sostituire la
comprensione di una tre- menda condizione umana che impone bisogni primordiali
alla tentazione dei disprezzo per il "ventre." Un brano che ricorda
una massima di Spinoza tanto bella quanto spesso difficile da applicare: Neque
ridere, neque lugere, neque mirari, sed intelligere (non ridere, non piangere,
non stupirsi ma capire) Difficile, soprattutto, da applicare nella sofferenza
del lager.
La nostalgia
C'è nelle lettere, naturalmente, la nostalgia della casa
lontana e insieme alla nostalgia la preoccupazione per la situazione della
famiglia. Scrive: "Lavoro, attendo e penso che verrà presto il giorno in
cui sarò chiamato al ritorno. "Qualche momento di trasporto l'ho avuto: e
sognare è bello: incontrarvi, rivede- re la casa, risentirne il pro- fumo,
riposare dolcemente fumando, bere una tazzina di caffè. Discorrere, sentire
musica, parlare coi figli e con gli amici. Nei primi tempi era sempre la casa di
Mondonico che mi appariva, con la sua strada fresca e di bel grigio, la sua
corte e il suo orto, la nostra camera da letto, il salone, la sala di musica e
voi tutti dentro, io con voi gente viva. "Ma ora ritorno a Milano, alla
nostra bella casa: chi sa? L'avrai potuta tenere? Chi sa? Ma penso che la vera
casa sei tu con loro, dovunque si sia, il nostro riunirci ricostituirà il
focolare e la vita." Un pensiero incessante che è, insieme, ansia,
conforto, speranza e anche fiducia nel futuro.
Tolleranza e pietà
Nelle pagine dei diario non ci sono odio o desiderio di
rivalsa, che pure sarebbero comprensibili. Ci sono tolleranza e pietà. Il 5
giugno, quando il campo è stato liberato e può quindi scrivere senza l'incubo
delle SS, annota: "Non sono nato per far soffrire: pensavo stamane a
proposito di tante contingenze d'oggi che impongono alla giustizia l'uso della
spada: E io riconosco che non si può farne a meno e che la spada della
giustizia deve condannare, tagliare e giustiziare. "Ma non sono nato per far io giustizia. lo stesso
condanno, nella mente mia, ma non uso la spada: sento che non mi appartiene, non
è affare mio, nessuno mi ha nominato giudice e non ho quindi il compito e il
dovere di farlo. Questo giudicare di oggi è un fatto che supera l'uomo singolo:
è il popolo, l'umanità che lo compie, inevitabile, inesorabile. È l'atto
chirurgico, al termine di una grave malattia, che salva il malato, che ferma
l'infezione, che disperde e consuma il contagio. lo non sono chirurgo, non sono
medico, non taglio e non faccio diagnosi. Giudico soltanto in me, in rapporto a
me stesso, a quello che ho pensato e creduto fermamente, a ciò che ho sentito
come certezza nell'anima mia." Questo rifiuto di farsigiustiziere, pur sentendo profondo il bisogno di fare giustizia, questo
scrupolo che le sofferenze personali possano offuscare la serenità del giudizio
emerge dai ricordi di Aldo Ravelli, definito il "Re Mida della Borsa",
che di Carpi fu compagno di prigionia, dalla rievocazione di quello che successe
alla liberazione dei campo: "Noi deportati avevamo sofferto molto, al di là
dell'immaginabile" annota. "Nonostante ciò non ci furono vendette
gratuite. Nessuno toccò i militari austriaci che avevano presidiato il campo
dopo la fuga delle SS, né la maggior parte dei kapò. Ma un gruppo di loro,
quelli che si erano resi responsabili delle nefandezze peggiori, pagò
duramente. C'era chi, come Carpi, avrebbe preferito evitare giustizia sommarie.
"Noi non siamo giudici sereni" diceva. Quei kapò vennero uccisi in
circostanze drammatiche e io ritenni che fosse giusto... Carpi ne rimase
sconvolto perché era considerato un buono ed era vero." Una bontà che
induce la vittima alla pietà per il carnefice, che gli impedisce, Come peraltro
sarebbe giusto e comprensibile, di approvare, se non di partecipare, ad
un'inevitabile resa dei conti, di condividere un atto di giustizia che, nel
profondo, sente, malgrado tutto, estraneo alle sue intime convinzioni.
"Quel qualcosa
in più": la fede
Aldo Carpi si salvò a Gusen per tre motivi: perché pittore,
peraltro condannato alla sofferenza di fare i ritratti dei propri aguzzini, per
la generosità di due medici polacchi; perché sostenuto dalla fede. "Chi ha la fede ha qualcosa in più" mi disse una
volta un prelato aperto, illuminato, monsignor Luigi Bettazzi, allora vescovo di
Ivrea, autore fra l'altro di una lettera a Berlinguer che ebbe una vasta
risonanza. Un'affermazione che, al momento, può urtare la suscettibilità
del non credente ma che merita riflessione e della quale l'esempio di Carpi
conferma la validità. Tutto il diario è permeato della fede religiosa, la risorsa
alla quale attingere nei momenti più difficili. Il 14 febbraio scrive: "Il risveglio del mattino è
duro, ogni mattino l'inizio è duro; pure qui ho una gran fortuna, dato che godo
anche in questo di una discreta libertà impossibile e proibita quasi a tutti. E
ringrazio Dio del favore che mi fa con la sua provvidenziale guida, ringrazio
d'avermi dato questo carattere che mi permette di camminare sulla Sua via in
silenzio, a brevi passi; e di sentirmi appagato di ogni cosa, troppo appagato
per il mio merito." Qualche giorno dopo annota - "Pregare non è sempre
facile; alle volte faccio una fatica quasi insormontabile: la mia mente, il mio
cuore non mi accompagnano; allora poco mi serve la volontà, devo abbreviare il
mio religioso cammino e fermarmi al più presto. Miseria nostra. Penso che tu
preghi per me, e qualcun altro ancora: resto così compensato davanti a
Dio." Trova anche un Vangelo latino-inglese: lo possedeva un aviatore
americano il cui aereo era stato colpito dall'antiaerea e lui si era lanciato
col paracadute. "lo l'ho visto scendere sul campo allargando le
braccia" ricorderà. "Era giovane. Quando è arrivato sopra le basse
baracche, le SS, tre colpi, l'hanno ucciso. Così e basta." Sono atroci spettacoli come questo che il 3 aprile gli fanno
scrivere: "Che Dio ci aiuti e ci difenda perché la malvagia superbia non
abbia a sopraffarci... Che il nostro nemico non abbia il tempo per attuare i
suoi disegni perversi e che noi possiamo tornare in patria e a casa nostra.
Siamo noi tutti malvagi da meritare di essere annientati?" C'è la certezza
che il male non vincerà: "Non prevalebunt, non potranno prevalere." E poi la preghiera che si fa solenne invocazione di castigo
per i carnefici e di libertà per le vittime: "Disperdi o Signore i nostri
nemici, liberaci dalla sofferenza infinita, fa’ che la loro mente si confonda
travolta dalla paura, che l'odio che nutrono diventi bava di rabbia e li
soffochi, che i loro occhi si ottenebrino e le loro mani si paralizzino e che a
noi sia data la chiara, buona libertà."
“Prigioniero degli americani”
Liberato il campo, Carpi viene trasferito a Regensburg. Gli
americani gli promettono che resterà là due giorni e poi tornerà in Italia.
La sosta, invece, sarà molto più lunga. I due giorni diventano subito una settimana e comincia la
richiesta di ritratti. Il primo è per un colonnello. Certo, stavolta i
"committenti" non sono spietate SS ma simpatici ufficiali americani,
però c'è la comprensibile ansia di tornare a casa. Scrive nel diario:
"Potessi fare un discorso così: 'Va bene - io faccio questo ritratto, ma
poi devo tornare a casa, è mio dovere civile e umano. Posso lavorare ma devo
anche guadagnare qualcosa perché tornando a Milano io non ho un soldo e la mia
famiglia ne avrà quanti ne ho io, dopo tanti mesi che manco e che sono
inattivo.' Come avrai fatto Maria? Hai potuto vendere qualche cosa? Qualcuno ti
ha aiutato? 0 è stata una grande fatica?" Lo sistemano, comodamente, sono
gentili e simpatici ma, nota, "l'animo mio non è tranquillo: c'è un po'
di gangsterismo in questo. Una specie di sequestro di persona fatto con tutti
bei modi... Va bene, per dipingere ci vuole del tempo, e i ritratti s'ingranano
l'uno con l'altro: divento in certo modo una specie di prigioniero a piede
libero." E in effetti un ritratto chiama l'altro: un colonnello, un
generale, una crocerossina e intanto il tempo passa, il pensiero del ritorno è
dominante ma la permanenza a Regensburg si protrae sino al 24 luglio quando il
mattino parte in auto con un ufficiale e la sera arriva a Milano. La moglie non
sapeva niente. "In ogni modo quando sono arrivato a casa, la Maria era
ridotta in uno stato tremendo. Era magra senza colore, aveva una gamba medicata.
'Ma Maria, tu sei stata nel lager!' Poi ho saputo di Paolo. Noi vivevamo nella
speranza che tornasse, pareva impossibile che non tornasse. Appena arrivato ho
contato i figli: 1, 2, 3, 4, 5 e uno mancava. "Non mi è mai venuto in
mente di continuare il diario, non ho scritto più."
Conversando con Pinin
Pinin è il secondogenito della famiglia Carpi, scrittore e
illustratore di tanti libri, soprattutto per ragazzi. Nel diario ricorre
parecchie volte l'accenno a Pinin: "Penso tante volte a Fiorenzo alla sua
musica a noi cara e a Pinin per la sua poetica astrazione che diventava, poi,
nella sua attività, distrazione, procurando a lui e a noi situazioni non facili
da risolvere" scrive Carpi il 13 marzo. Pinin, poco prudente nel- la sua
attività clandestina, arrestato durante i 45 giorni di Badoglio e poi nel
febbraio del '45 e scarcerato dopo un mese in seguito ad uno scambio di
prigionieri. Pinin è il curatore del diario: ha registrato o stenografato
i ricordi dei padre, ha redatto i testi che completano le note, necessariamente
autocensurate, scritte nel lager, che precisano riferimenti, chiariscono
circostanze. La figlia Giovanna ha trascritto a macchina i foglietti e
Pinin in due anni, dal 1968 al 1970, ha raccolto dal padre ricordi e
precisazioni. "Oggi non farei più quel lavoro" dice. Perché?
"Perché allora ero più giovane." E la risposta fa chiaramente capire
la fatica di far ricostruire al padre quegli episodi tragici, dolorosi, di
rivivere emozioni così intense. Carpi non volle rileggere nemmeno un foglio del
suo diario, precisa Pinin: non si sentiva in grado di farlo. E nei ricordi
riaffiorano circostanze e personaggi della grande tragedia. Ci sono l'operaio Alfredo Borghi, dissenterico, con lasua ultima, straziante invocazione: "Carpi, damm de bev!";
Luigi Caronni, il contadino di Saronno che lavorava con Carpi alla cava e che è
morto perché finito al blocco degli invalidi dove pensava si sarebbe trovato
bene, incurante dell'avvertimento: "Vai via dal blocco degli invalidi perché
i tedeschi non li desiderano" e che insieme ad altri 600 prigionieri venne
portato a morire di fame a Mauthausen; una specie di sbandato, Masiero, “uno
di quei giovani che giocavano con le tavolette a San Siro: imbrogliava la
gente.. Mi diceva: "Professor, ch'el me tegna visin a lu." Così mi
rifaceva il letto e io, gli davo la zuppa. Il momento in cui è andato via mi ha
detto: "Professor, me coppen!" E difatti l'hanno accoppato, l'hanno
portato a Gusen 2 e l'hanno ucciso a bastonate';il piccolo “bolscevico” Zucarov, che carezza come un figlio,
angosciato dalla consapevolezza di non poterlo salvare. E nel diario ci sono
alcuni ritratti di deportati eseguiti durante la prigionia; molti disegni di
scene ed episodi del lager eseguiti poco prima e dopo l'arrivo degli americani,
ambienti e personaggi del lager eseguiti dopo il ritorno a Milano. Pinin
leggendo il diario si ha l'impressione che suo padre, oltre che dalla fede
religiosa, sia stato anche sostenuto da quella nell'uomo. "È vero. Mio padre ammirava le grandi anime: Tolstoi,
Tagore (e mostra un ritratto del grande poeta fatto dal padre), i grandi
personaggi; dipinse sei quadri dedicati alla Lunga marcia di Mao. Oltre alla
fede in Dio aveva una grande forza morale, un grande coraggio." Ricorre
spesso la preoccupazione per la vostra situazione economica. "Naturalmente,
tanto è vero che pensava che non avessimo potuto pagare l'affitto, avessimo
dovuto lasciare la casa di via De Alessandri e quindi, arrivato a Milano, andò
a casa del fratello Umberto. E invece ce l'abbiamo fatta. È stata molto dura ma
ci ha salvato il fatto che l'Accademia di Brera, ci ha sempre versato lo
stipendio di mio padre; lo ritirava un bidello che gli era molto affezionato.
Inoltre un aiuto ci venne anche da una generosa, rischiosa iniziati- va
dell'architetto Buzzi che organizzò nel suo studio una mostra clandestina delle
opere di mio padre e ci consenti di vendere qualche quadro."
Cronaca familiare
La persecuzione nazista ha colpito la famiglia Carpi non solo
con la deportazione di Aldo ma anche, e soprattutto, con l'uccisione del
penultimo figlio, Paolo. Arrestato con altri compagni nel luglio del '44 venne
dapprima deportato nel campo di eliminazione di Flossenburg e successivamente in
quello di Gross-Rosen. Fu ucciso pochi giorni prima che il campo venisse liberato
dalle armate sovietiche, quando aveva da poco compiuto i diciotto anni, con
un'iniezione praticata da quello che veniva definito il medico del campo. Questi
scappò, raggiunse l'Africa
Centrale, venne braccato e durante la fuga si gettò in un fiume pullulante di
coccodrilli. "A mia madre" ricorda Pinin "non abbiamo mai rivelato che
Paolo era stato ucciso. Le abbiamo detto che era disperso da qualche
parte."
Pinin
rivela un episodio toccante. Qualche tempo addietro si è recata a trovarlo una signora
che gli ha consegnato una lettera: era la dichiarazione d'amore che Paolo le
aveva scritto quattro giorni prima di essere arrestato. Lui aveva diciassette anni, lei sedici. Per tanto tempo ha
conservato la lettera, il ricordo di un ragazzo che l'aveva amata e che
probabilmente pensò anche a lei prima che la sua giovanissima vita venisse
troncata dalla barbarie nazista. Un soffio di commovente gentilezza, per ricordare Paolo e
tutti quelli come lui morti per la libertà.
Aldo
Carpi
Aldo Carpi, ma il cognome completo della famiglia è Carpi
De' Resmini, usato però quasi sempre solo negli atti ufficiali, nasce a Milano
il 6 ottobre 1886. Dimostra una precoce passione per la pittura e a dodici anni
diventa allievo del pittore Stefano Bersani; a diciannove, raggiunta la maturità
classica, si iscrive all'Accademia di Brera. Si
diploma nel 1910 con il massimo dei voti nella scuola di nudo e due anni dopo
espone alla Biennale di Venezia. L'anno successivo un suo quadro, "Dopo
cena", viene premiato e acquistato per la Galleria di Palazzo Pitti. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, benché contrario
alla guerra, dopo la morte al fronte di un cognato, chiede di partire. Inviato in Albania inizia una serie di disegni che spedisce
man mano a casa. Durante una licenza sposa Maria Arpesani. Riparte per la Serbia
e continua i disegni che rappresentano il suo primo tragico ciclo sul vero, in
cui la guerra è vista in tutto il suo orrore. A guerra finita nasce il primo figlio, Fiorenzo, cui
seguiranno Pinin, Giovanna, Cioni (Eugenio), Paolo (che verrà ucciso in un
lager) e Piero.
Riprende in pieno il suo lavoro e nel 1930 gli viene
assegnata la cattedra di pittura dell'Accademia di Brera. La vicenda
dell'arresto e della deportazione è raccontata nel "Diario di Gusen
"nei cui disegni Carpi crea il secondo terribile ciclo degli orrori della
guerra sofferti in prima persona. Al ritorno a Milano viene nominato per acclamazione direttore
dell'Accademia di Brera. Nella sua lunga e operosissima
esistenza Aldo Carpi ha ottenuto numerosi e autorevoli riconoscimenti, ha
partecipato a mostre in prestigiose gallerie di molte città italiane ed europee
e sue opere sono conservate in vari musei. Aldo Carpi muore a Milano il 27 marzo 1973.
Da
Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, n. 3 settembre
2000, per gentile concessione