Triangolo rosso

Le villette di Gusen, inquietante presenza

Affacciarsi alle finestre dove c’era la strage

I resti del forno crematorio, unica struttura superstite del famigerato sottocampo I civili “di allora” potevano non sapere? L’analisi di uno storico americano

di Pietro Ramella

 

Un particolare inquietante colpisce ed induce a riflettere chi visita i campi di sterminio dell’Alta Austria: la costruzione di una serie di villette dove sorgeva il sottocampo di Gusen e che inglobano il manufatto dove è custodita l’unica struttura superstite, il forno crematorio. È inquietante, infatti, pensare alla famigliola riunita magari in attesa che il capofamiglia prepari sulla brace bistecche, wurstel e salsicce a pochi metri da dove furono inceneriti i cadaveri di 37.000 deportati, morti per gli stenti e le torture. Tanta insensibilità porta uno storico americano, Gordon J. Horwitz autore di “In the Shadow of Death: Living Outside the Gates of Mauthausen” (pubblicato da Marsilio nel 1994 sotto il titolo “All’ombra della morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen”), ad analizzare il comportamento degli abitanti della zona quando il lager ed i suoi numerosi sottocampi erano in funzione. L’autore sviluppa la ricerca in più capitoli: la costruzione del campo, il castello di Hartheim, la valle di Redl-Zipf, il monastero di Melk, le evasioni, le marce della morte, la fine della tragedia. In ognuno studia l’atteggiamento dei civili, di chi dapprima si oppose alla costruzione del campo temendo la promiscuità con tanti “criminali” e poi si ricredette per i vantaggi che ne derivavano. Infatti molti divennero fornitori delle SS o trassero profitto dall’acquisto, a basso prezzo, dei beni razziati ai prigionieri. Altri divennero dipendenti nelle strutture come le dieci segretarie del castello di Hartheim, che svolsero il loro lavoro trovando “rifugio” nella routine: le lettere da spedire ai parenti delle persone gasate. Nella valle di Redl-Zipf o nelle vicinanze del monastero di Melk, dove venivano scavati i tunnel per le fabbriche di guerra, tutti potevano vedere l’inumano trattamento inflitto ai deportati e sentivano i ripetuti colpi di fucile che eliminavano gli inabili. Cosa dire dei cittadini inquadrati nella gendarmeria locale che collaborarono con le S.S. alla cattura e, cosa più grave, all’eliminazione dei fuggiaschi? Come non ricordare che, coinvolti in un’orgia di sangue, sterminarono gli ufficiali russi che la sera del 2 febbraio 1945 avevano tentato, con la fuga, di sottrarsi ad una morte certa? Dei 495 prigionieri, pochissimi si salvarono. Le marce della morte, il trasferimento dal campo ai posti di lavoro, o peggio, alla fine, lo svuotamento dei sottocampi minacciati dall’avanzata degli Alleati, avvennero per vie secondarie ma sempre attraverso centri abitati. Quanti non ce la facevano, venivano eliminati e sepolti sul posto. Nessuno vide? Sembra che i nazisti e la popolazione avessero stipulato un accordo tacito: i responsabili dei campi facevano del loro meglio per risparmiare agli abitanti la percezione diretta delle atrocità, in cambio gli abitanti non facevano nulla per informarsi. Evitare di sapere per evitare di giudicare. Una sparuta minoranza cercò di dare un po’ di sollievo gettando qualche mela o patata nelle file dei detenuti, il procuratore di Linz ai primi tempi del funzionamento del campo, tentò di indagare sulle morti numerose, ma fu bloccato dalle SS. La maggioranza si comportò in maniera del tutto diversa, negando ai prigionieri anche uno sguardo di commiserazione, si compiacque di assistere alle violenze subite nelle cave o lungo il Danubio. Tutto questo permette allo storico americano di affermare che “non era possibile non sapere”. Forse non si conoscevano i dettagli dolorosi della deportazione ma l’aspetto macilento, le urla dei guardiani, le bastonate distribuite durante le marce, l’odore dolciastro di carne bruciata che usciva dai camini dei forni crematori, le notizie bisbigliate da quanti lavoravano nei campi, dovevano far pensare. Horwitz denuncia tutto ciò ed elenca la partecipazione austriaca alle atrocità naziste, ricordando che erano austriaci oltre ad Hitler, Adolf Eichmann e Franz Novak, i coordinatori dei “trasporti”; Alois Brummer, organizzatore della deportazione in Austria, Grecia e Francia; Ernst Katelbrunner, successore di Reinhard Heydrich a capo della Gestapo; Odilo Globocnik che diresse i campi di Sobibor, Treblinka e Maidanek. Poi Hermann Hölfe, capo di stato maggiore dell’Operazione Reinhard - nome in codice dello sterminio in Polonia -; Arthur Seyss-Inquart, alto commissario nei Paesi Bassi che, con Albin Rauter, capo delle SS e della polizia fu responsabile della deportazione e dell’annientamento di 110.000 ebrei olandesi. Tra i 5.000 militari giudicati criminali di guerra che operarono in Jugoslavia, responsabili della morte di due milioni di persone, 2.499 erano austriaci. Nell’elenco comparve anche il nome di Kurt Waldheim, che diverrà segretario generale delle Nazioni Unite (e che negò ogni sua responsabilità). Gli austriaci non svolsero una parte marginale nel cammino del Terzo Reich, a cui - pur rappresentando solo un ottavo della popolazione totale - fornirono un terzo dei partecipanti alla macchina di sterminio delle SS. Come i loro connazionali, gli abitanti dell’Alta Austria - ricorda Horwitz – rigettarono l’accusa di “responsabilità collettiva” nello sterminio, facendosi scudo del fatto che essi non videro e non potevano vedere; ed anche quando capirono che cosa potevano fare? La comunità aveva bisogno di case, i terreni dei campi vennero messi all’asta, le salme delle vittime, sparse un po’ ovunque, vennero disseppellite e tumulate in poche fosse comuni, non sempre con la dovuta, pietosa attenzione. Horwitz conclude: è vero, le case sono sorte sui terreni di Gusen ed Ebensee dove era c’era stato l’inferno ma non fu un inferno dell’aldilà, in verità i campi appartengono al mondo di qui e a nessun altro.

Da Triangolo Rosso, luglio 2000

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