Triangolo rosso

La “memoria” di Bice Azzali, recentemente scomparsa, sulla liberazione di Auschwitz

... E il maresciallo Timoshenko apparve e gridò: “Tornerete presto nella vostra bellissima Italia”

 

È morta nel gennaio scorso a Verbania, dove si trovava per sottoporsi ad una cura riabilitativa, Bice Teresina Azzali. (Nella foto) Era nata in provincia di Mantova, a S. Martino dell’Argine, il 16 febbraio 1920. Antifascista, impegnata con la sorella Maria nella Resistenza, aveva vissuto anche la tragica esperienza del campo di concentramento nazista. Dopo l’8 settembre 1943, la sua casa si era trasformata in un ritrovo di giovani che volevano raggiungere - come lei stessa ricorda in una “memoria” del 1994 destinata all’Anpi - i partigiani in montagna. Denunciata, venne arrestata e portata al comando tedesco di un paese vicino, Bozzolo, e poi trasferita alle carceri di Mantova. Successivamente fu trasportata a Verona, nella fortezza di San Leonardo e Santa Sofia. Fu qui che - come ricorda ancora nella testimonianza resa all’Anpi - alla fine del settembre 1944, le si avvicinò il cappellano: “Fatti coraggio - le disse – i tuoi compagni Arini e Accorsi sono stati fucilati all’alba, sono dei veri martiri”. Bice ricorda: “Gridai: ‘Assassini fascisti’, e una frustata mi paralizzò le gambe.” Da Verona venne trasferita alla fortezza di Peschiera del Garda, dove erano rinchiusi gruppi di prigionieri destinati ai lager. Ma ecco come continua la testimonianza di Bice:

 

L’incontro con Primo Levi sul treno del lunghissimo viaggio di ritorno

 

“Dopo un viaggio di venti giorni su carri bestiame, attraversando parte della Germania, arrivammo in Polonia che già nevicava. La località era Konighutte-Kroleuska-Huta, sottocampo alle dipendenze del campo di sterminio di Auschwitz. La vista di quel campo mi sconvolse. Avevo la sensazione di essere finita all’inferno. Eravamo alloggiate in enormi baracche di legno nelle quali vi erano una ventina di letti a castello; il materasso di sacco conteneva una paglia che pungeva le carni come chiodi. Al mattino presto, al comando di un particolare bastone, dovevamo recarci in fabbrica, la più importante della Germania, la Farben-Fabrik che produceva polveri per esplosivi. “Dopo il ventesimo giorno le nostre mani ed il nostro viso sembravano squame di pesce. In fabbrica vi erano prigionieri d’ogni nazionalità, in maggioranza russi e molte donne che i tedeschi avevano reclutato dalla vicina Ucraina, per farle lavorare. Un giorno disperata per la tosse e per il freddo, mi buttai per terra e piansi. Una mia compagna, Marusca, mi soccorse, poi mi disse: ‘Non piangere, coraggio, presto i miei compagni (tovaric) verranno a liberarci’. Mi feci coraggio, la strada per arrivare al campo non mi sembrava più così lunga, perché lontano si udiva un rumore di mitraglia. Marusca aveva ragione, erano gli spari della avanzata dell’Armata Rossa. Infatti dopo una settimana, verso la fine del febbraio ’45 e dopo una violenta battaglia tra tedeschi e russi, si sfondò la porta e apparvero i soldati con la stella rossa. Uno di loro era il maresciallo Timoshenko a cavallo che ci disse: ‘Siete i primi prigionieri ad essere liberati, la guerra sarà ancora lunga, ma vi assicuro che vi manderemo nella vostra bellissima Italia’. Sapemmo poi che la Resistenza in Italia era attiva; avremmo voluto esserci anche noi, ma ci accontentavamo di essere, bene o male, vivi. “Dopo otto mesi i russi ci caricarono su un treno sul quale viaggiammo per un mese. Su questo treno conobbi Primo Levi, che raccontò il viaggio nel libro La tregua. “Noi sopravvissuti avevamo creduto che le sofferenze di milioni di persone avessero insegnato all’umanità l’orrore della dittatura e della guerra. Purtroppo invece stragi e guerre dilaniano ancora l’umanità. “A Bozzolo, nella piazza grande vi è un monumento dedicato ai martiri della Resistenza Arini e Accorsi. Ogni volta che lo guardo mi rivedo in carcere con loro e mi assale la rabbia. No, non perdono ai fascisti di ieri e ai fascisti di oggi”.

 

Da Triangolo Rosso, aprile 2000

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