Triangolo rosso

Ripubblicato dall’editore Einaudi dopo la prima edizione del 1960, il prezioso documento ritrovato vent’anni dopo in un cassonetto della spazzatura

Come un urlo contro i boia il diario del piccolo Dawid

Con questo titolo “l’Unità” il 14 febbraio 1960 annunciò il ritrovamento dello straordinario documento

di Ibio Paolucci

 

Quando, all’inizio degli anni Sessanta, fu comunicata in Polonia la notizia, che, in breve fece il giro del mondo, dell’imminente pubblicazione del diario ritrovato di un ragazzino ebreo, di nome Dawid Rubinowicz, l’emozione fu intensa e grande la curiosità di conoscerne il contenuto. Io allora mi trovavo a Varsavia come giornalista e fui il primo, fra gli italiani, a sapere come si erano svolti i fatti, che feci conoscere a tamburo battente ai lettori dell’Unità. Il giornale dedicò alla vicenda due pagine, nel primo numero domenicale, la cui vendita, ben maggiore di quella dei giorni feriali, si aggirava sul mezzo milione di copie, grazie ad una capillare diffusione militante. Il diario, iniziato il 21 marzo del 1940, quando Dawid aveva 12 anni, a Krajno, un villaggio in provincia di Kielce, poi proseguito a Bodzentyn, un paese vicino dove gli ebrei furono costretti a trasferirsi, riempiva cinque quaderni scolastici. Questi preziosi documenti, quando il ragazzo venne brutalmente deportato in un campo di sterminio, rimasero nell’abitazione di via Kielicka, contrassegnata col numero 13. Vi restarono finché un vicino non li trovò e li nascose nel solaio. Dopo la guerra, i nuovi inquilini, mettendo in ordine l’appartamento, trovarono i quaderni e senza neppure sfogliarli, li gettarono nel cassonetto della spazzatura, che si trovava nel cortile del fabbricato. Ma per fortuna non finirono al macero. Furono visti infatti, galleggiare fra l’immondizia dall’inquilina Elena Noezyk, una signora polacca, madre di sette figli, per la quale i quaderni scolatici erano oggetto di quotidiana attenzione. Incuriosita, la signora li raccolse e cominciò a sfogliarli, rendendosi conto di avere fra le mani un documento di straordinaria importanza, che recava un messaggio umanissimo e sconvolgente, vergato da una piccola mano: un atto di accusa implacabile contro l’infame regime nazista. Proprio in quei giorni la signora Elena aveva letto una serie di articoli della giornalista varsaviese Maria Jarocowoska sui massacri commessi sugli ebrei della sua regione, che l’avevano profondamente commossa. Letto e riletto il diario, decise che la cosa migliore era di far avere i cinque quaderni alla giornalista. Fu così che il messaggio del piccolo Dawid cominciò, da Varsavia, a irradiarsi in tutto il mondo. Il diario fu subito accostato, anche se notevolmente diverso, a quello di Anna Frank. Io stesso, nella presentazione, scrissi che Anna Frank aveva trovato in un villaggio polacco il suo fratellino spirituale. E, in effetti, i due adolescenti avevano in comune l’età, la condizione di ebrei, la tragica conclusione della loro breve esistenza in un campo di sterminio. Ma mentre conosciamo tutto della giovanissima Anna, di Dawid sappiamo poco più di quanto si legge nel suo diario. Non sappiamo con precisione in quale lager sia finito, in quale forno crematorio sia stato bruciato, quale sia stato il suo carnefice. Sappiamo che era figlio di un piccolo commerciante, un lattaio, e che era uno dei quattro milioni di ebrei polacchi eliminati dai nazisti. Probabilmente il suo cimitero fu Treblinka, perché lì venne deportato la grande maggioranza, se non addirittura la totalità degli ebrei della sua zona. Non ci chiediamo, invece, perché il piccolo Dawid abbia iniziato a scrivere, perché lo scopo è precisato assai chiaramente sin dalle prime pagine del suo diario. Già nelle prime righe, datate 21 marzo 1940, si trova fissato con rigorosa nettezza il suo programma: descrivere minutamente le sofferenze del suo popolo, il calvario degli ebrei polacchi. Per due anni, con una maturità superiore alla sua età, Dawid continuò a riempire i suoi quaderni scolastici e l’ultima pagina ritrovata, che è anche l’ultima del quinto quaderno, reca la data del 1° giugno 1942. Ma quasi certamente Dawid continuò a scrivere il diario, riempiendo almeno un altro quaderno, che però è andato distrutto. Paradossalmente le ultime note conosciute iniziano con la frase: “Giornata di felicità”. Felicità perché il padre, internato ai lavori forzati in un vicino campo di concentramento, era tornato a casa. Il sadismo criminale dei nazisti era anche questo: dare l’illusione della salvezza. Pochi mesi dopo, infatti, non solo il padre, ma tutti gli ebrei della zona, verranno avviati verso i forni crematori. L’ultima pagina del diario, dunque, non termina drammaticamente come quello di Anna Frank, col rumore del camion dei nazisti che arrivano per prelevare lei e gli altri, ma con l’illusione che la morsa del boia fosse diventata un po’ meno stretta. Epperò le ultime parole di Dawid, quelle che chiudono il diario, sono di segno diverso, spietate e tragiche: “Quando è arrivato il carro ho visto che era sporco di sangue”. Quel carro era partito poco prima con due ebree, fucilate nel bosco. Anche il sangue di Dawid colerà per mano assassina e di lui non ci rimangono che i suoi cinque quaderni. Non una fotografia, solo il ricordo della sua maestra e di alcuni vicini, sopravvissuti all’inferno della guerra. Da loro sappiamo che Dawid era biondo e aveva gli occhi azzurri. Un ebreo che poteva essere scambiato per un tedesco. I vicini che lo conobbero dicono che avrebbe potuto salvarsi, ma che era troppo legato ai propri genitori per distaccarsene. Ma anche avesse voluto, come avrebbe potuto? Dawid era un ragazzo di quattordici anni quando venne preso. Senza mezzi e senza sapere dove andare, dove nascondersi, come avrebbe potuto sfuggire alla feroce caccia dei suoi aguzzini? Non aveva scampo. La sola sua arma contro i boia nazisti, il diario, fortunatamente giunto fino a noi. Da quel diario conosciamo la sua profonda maturità, la sua straordinaria capacità di raccontare i fatti come fosse un consumato cronista, il suo incancellabile atto d’accusa. Lo leggano i “revisionisti” e i “negazionisti”, che sostengono che la storia dei campi di sterminio è una invenzione degli ebrei e dei comunisti. Il calvario degli ebrei, solo colpevoli di essere tali e perciò, nella logica criminale dei nazisti, ineluttabilmente destinati ad essere eliminati, è raccontato giorno per giorno, con una prosa che, via via, assume toni sempre più crudi. “È venuto da noi un contadino di Krajno – scrive il 10 aprile del 1942 - e ha detto che hanno ammazzato per strada la figlia del nostro ex vicino perché era fuori dopo le sette. Non ci credo ancora, ma tutto può essere possibile. Una ragazza che era un fiore, se ha potuto essere ammazzata così, allora ormai verrà la fine del mondo”. Passeranno ancora tre anni prima che la feccia nazista venga cancellata dalla Germania e dall’Europa. Ma ben pochi degli oltre quattro milioni di ebrei polacchi saranno ancora lì per salutare le armate liberatrici. La Polonia degli anni in cui venne ritrovato il diario era un Paese ancora pieno di speranze per la svolta del ’56, che aveva riportato al potere Gomulka, messo in galera perché non ligio al dettato stalinista. Purtroppo le cose, poi, andarono diversamente, ma allora la circolazione delle idee era abbastanza libera, tanto che la Polonia, come mi disse, a Praga, un alto dirigente del partito comunista cecoslovacco, veniva considerata (e, per il momento, ma soltanto per il momento, tollerata) l’“enfant gatè” dei paesi del socialismo reale. Insomma, in quel “momento”, le cose andavano abbastanza bene, anche se già si avvertiva il giro di vite che avrebbe nuovamente strangolato le libertà democratiche nel Paese. La popolarità di Gomulka, alle stelle nel ’56, pur scemata, era ancora alta. Lui e il cardinale Wyszynski erano decisamente i due personaggi più popolari. La simpatia nei confronti del riconfermato segretario del Poup (Partito operaio unificato polacco), occorre dirlo, era dovuta anche al fatto che, oltre alle idee, anche le merci circolavano in maniera sufficientemente soddisfacente. Forte, tuttavia, restava l’antisovietismo, in un Paese cattolico di frontiera, che, a parte ogni considerazione, aveva subito sino alla fine della prima guerra mondiale, la dominazione zarista. Quasi del tutto assente, invece, in quegli anni, l’antisemitismo, presente nel passato e che tornerà ad essere strumentalmente agitato in epoche successive, quando la spinta stalinista si farà più forte, accompagnandosi a gravissime difficoltà di ordine economico. In quel clima, sommariamente ricordato, il diario venne accolto con grande emozione dalla pubblica opinione. In Italia, come si è detto, venne fatto conoscere dall’Unità, che pubblicò ampi stralci di quei quaderni. La cosa fu possibile grazie al decisivo aiuto dell’amico Bronek Zalewski, un intellettuale polacco con una squisita sensibilità musicale, che conosceva alla perfezione la lingua italiana. Sempre lui mi guidò nella traduzione dell’intero diario, che venne pubblicato dall’editore Einaudi e che ora è stato ristampato. Quando il 14 febbraio del 1960 lo presentai sull’Unità scrissi che “in tempi come questi, che hanno rivisto apparire le criminali scritte contro gli ebrei, i cinque quaderni di Dawid rappresentano un insegnamento importantissimo e un severo monito per tutti”. Parole, che, purtroppo, con le scritte e gli emblemi nazisti negli stadi, con l’accesso al governo austriaco del partito del leader razzista Joerg Haider, conservano in tutto e per tutto una amarissima bruciante attualità. “Una singola Anna Frank - ha scritto Primo Levi – desta più commozione delle miriadi che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non potremmo vivere”. Ciò vale anche per il ragazzino del ghetto di Varsavia con le mani alzate e il mitra nazista puntato su di lui. Vale anche per il nostro piccolo Dawid, che ci ha lasciato un diario, che non cessa di commuoverci e di cui gli siamo profondamente grati.

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Dal diario di Dawid scegliamo i due brani del primo e dell’ultimo giorno

 

“Il carro era tutto sporco di sangue”

Il primo giorno 21 marzo 1940

 

Di primo mattino passavo per il villaggio nel quale abitiamo. Da lontano ho visto sulla parete di un negozio un proclama, sono andato subito a leggerlo. Era un nuovo proclama che vietava agli ebrei di viaggiare sui carri (sui treni già da molto tempo era stato proibito loro di viaggiare).

 

L’ultimo giorno 1 giugno 1942

 

Giornata di felicità. Oggi aspettavo una lettera del babbo ma non è arrivata, è arrivato invece un biglietto del cugino coi saluti del babbo. Questo è tutto. Abbiamo preparato un grosso pacco per il babbo perché domani quelli del consiglio vanno a Skarzisko. Abbiamo messo nel pacco una giacca leggera, biancheria, un paio di scarpe, alcune patate, del pane e altre cose. Avrei voluto che fosse già il 3 per leggere una lettera del babbo, per sapere se aveva modo di tornare a casa. Alla sera sono andato da un vicino per fare delle pantofole per mia sorella. Mentre le facevo ho sentito arrivare un camion e ho sentito cantare, ho pensato subito che fossero gli ebrei che tornavano da Skarzisko. Sono uscito subito e ho visto che erano proprio loro che ritornavano. Da lontano si vedeva che agitavano le mani e i berretti. Ho visto che anche mio padre agitava le mani. Ho lasciato tutto e sono corso dietro il camion. Mi sono fermato assieme al camion. Ho preso subito il fagotto del babbo mentre scendeva dal camion. Mammina me lo ha preso e io sono andato subito a riprendere il pacco che avevamo preparato per mio padre. Quando sono tornato a casa, per la grande gioia, non ho potuto nemmeno salutare mio padre. Nessuno può immaginare la nostra gioia, lo può immaginare soltanto chi l’ha vissuto. Ma nessuno pensava che sarebbe giunto oggi. Tutto questo è avvenuto come in un film, in pochi istanti abbiamo vissuto tante cose. È venuta subito molta gente e ognuno voleva sapere qualche cosa di buono. Papà è ritornato con una mano ferita, per questo lo hanno lasciato. Da principio avevo paura perché pensavo fosse molto ferito. Ma è difficile riportare tutto quello che papà ha raccontato. Inizio dal principio del racconto. Il peggio è stato la prima settimana finché non si è abituato, il lavoro non è così terribile, soltanto la disciplina è terribile, chi non canta bene o non marcia bene riceve botte. La sveglia è alle 4 del mattino, finiscono di lavorare alle 5 del pomeriggio. In queste tredici ore è proibito sedersi per un minuto, chi si siede riceve terribili botte. I racconti non avevano fine. Siamo rimasti alzati fino alle due di notte, è impossibile descrivere tutto. Papà non ha un brutto aspetto, ha mangiato quanto ha voluto. In tutta questa gioia ho dimenticato di raccontare la cosa più importante e più terribile. Questa mattina due ebree, madre e figlia, sono andate al villaggio. Sfortunatamente i tedeschi andavano a Bodzntin per prendere delle patate e hanno incontrato queste due ebree. Quando esse hanno visto i tedeschi hanno cominciato a scappare ma loro le hanno raggiunte e le hanno acchiappate. Volevano ammazzarle subito nel villaggio ma il sindaco non lo ha permesso e allora sono andati nel bosco e là le hanno ammazzate. La polizia ebraica è andata subito a prenderle per portarle al cimitero. Quando è arrivato il carro ho visto che era tutto sporco di sangue.

Da Triangolo Rosso, aprile 2000

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