Triangolo rosso

Liliana Segre all’inferno di Auschwitz e ritorno

Il racconto di Liliana Segre, deportato numero 75190, ai ragazzi milanesi in visita alla mostra di immagini su Anna Frank. Anche Liliana è finita in un campo da adolescente

di Ennio Elena

 

In una sala al piano terra del Castello Sforzesco un gruppo di una cinquantina di ragazzi ascolta attento Liliana Segre, che racconta la drammatica, tragica odissea sua e di tante altre donne e uomini finiti nei campi di sterminio nazisti. Al primo piano del Castello, nella Sala della Balla, c’è la mostra dedicata ad Anna Frank, la ragazza ebrea tedesca che, segregata, prima di essere scoperta, ha scritto un diario divenuto famoso in tutto il mondo. “Sono nata un anno dopo Anna Frank, nel 1930, e se lei fosse sopravvissuta sarebbe oggi una nonna” dice Liliana Segre, che è nonna e che dedica tanta parte della sua attività a trasmettere ai giovani un patrimonio di ricordi e anche di ideali. Ragazzi ad ascoltare l’oratrice, scolaresche che si aggirano incuriosite e anche un po’ intimidite tra i pannelli della mostra. Liliana Segre racconta la sua testimonianza, come ha fatto il 27 gennaio nell’aula del Consiglio comunale di Milano riunito in seduta straordinaria per ricordare il 55° anniversario della fine di un inferno chiamato Auschwitz, e come fa praticamente ogni giorno con gli studenti e là dove la invitano. “I miei interventi nelle scuole sono facilitati dalla circolare del ministro Berlinguer che ha sollecitato l’insegnamento della storia recente, spesso sconosciuta ai giovani.”

Un prologo italiano

La storia della deportazione degli ebrei, degli antifascisti, dei comunisti, dei partigiani, degli zingari è piena dei nomi stranieri dei lager: Mauthausen, Auschwitz, Buchenwald, ecc… ma ha un prologo italiano che per gli ebrei inizia nel 1938, quando il fascismo emana le leggi razziali. Ho ascoltato più volte i racconti di ebrei nei quali ricorre un senso di incredulo smarrimento per essersi trovati, improvvisamente, “diversi”, esclusi dal mondo che era sempre stato. “Nel 1943 avevo 13 anni; già da cinque conoscevo la persecuzione, perché io mi ricordo quella sera di fine estate 1938, avevo otto anni, quando mio papà cercò di spiegarmi che non avrei più potuto andare a scuola perché le leggi razziali fasciste ci avevano declassato a cittadini di serie B e non potevo più andare alla mia scuola di via Ruffini dove avevo frequentato la prima e la seconda elementare.” Mi torna in mente, e lo dico alla signora Segre, che qualche anno fa qualcuno ebbe la bella pensata di proporre di intitolare una via di Roma a Giuseppe Bottai, il ministro fascista dell’Educazione nazionale che firmò le leggi per cui venivano allontanati da scuola insegnanti e allievi ebrei. Non se ne fece niente, come del resto era largamente prevedibile. “Io mi ricordo quei cinque anni di persecuzione” racconta Liliana Segre, “io mi ricordo la polizia che veniva in casa a controllare i nostri documenti e la mia che era una famiglia di borghesi piccoli piccoli era sbalordita dall’arrivo di questi poliziotti che a loro volta erano, devo dire, imbarazzati. La nonna apriva la porta (non potevamo più avere la persona di servizio ariana), la nonna apriva la porta con la sua grazia ottocentesca, entravano questi poliziotti imbarazzati, lei li faceva accomodare in salotto e offriva loro dei dolcetti; mi mandava di là a giocare ma io sapevo che nelle case delle altre bambine non andava la polizia a controllare i documenti. Così quei cinque anni di persecuzione io me li ricordo, giorno dopo giorno, le umiliazioni, gli amici che non ti salutavano più perché non è facile essere amici quando si è in disgrazia, è facile esserlo quando si è sulla cresta dell’onda; e poi mi ricordo, dopo l’8 settembre 1943, la caccia all’uomo.”

La beffa alla frontiera

“Io mi ricordo quando mio papà cominciò a mandare me via da casa, da amici eroici che mi tennero nascosta con le carte false; io non riuscivo ad imparare le mie generalità false, mi ricordo come ero imbranata in quella circostanza. Poi mi ricordo quando cercammo di fuggire in Svizzera, quella fuga sulle montagne, quella fuga grottesca, quella fuga finita male, perché una volta passata quella rete, entrati in quella terra che credevamo amica, che credevamo sarebbe stata per noi la libertà, fummo invece rimandati indietro e sul confine arrestati.” I ragazzi seguono attenti il racconto, qualcuno prende diligentemente appunti. E nella narrazione c’è una pausa, una riflessione. “Provo una specie di sdoppiamento” dice Liliana Segre. C’è il filo della memoria che si dipana chiaro, preciso, con il suo carico di ricordi e c’è, parallelo, il presente. “ Sono nonna”, dice, “ho un nipotino di dodici anni, quasi l’età che avevo io quando cominciò la mia odissea. Mio figlio ha 47 anni, su per giù l’età

che aveva allora mio padre.” Non è una ricerca del tempo perduto, questa, ma un recupero del passato per confrontarlo con l’oggi, con una vita normale e intensa nella quale trovano ampio posto questi incontri con i giovani, dove la rievocazione delle sofferenze e degli orrori si tinge con i colori della speranza, della fiducia. “ Io mi ricordo quando a tredici anni entrai da sola nel carcere femminile di Varese, piangevo come una pazza e capivo che per la colpa di essere nata, per questo, ero in prigione.” Poi la trafila: carcere di Como, quaranta giorni a Milano, a San Vittore, la prigione che “avevo sempre vista da fuori, perché abitavo non lontano da San Vittore ed era strano vedere, allora quando non c’era il muro così alto come adesso, dal quinto raggio, dai finestroni che furono poi chiusi e schermati, piazzale Aquileia e il tram che passava.” Quaranta giorni in un’altalena di speranze, di disperazione per la deportazione annunciata. Poi l’arrivo dell’ufficiale tedesco che lesse i nomi e non ci fu più nulla da fare: “Ci preparammo a partire.”

In viaggio verso l’orrore

Nel racconto c’è una frase ripetuta che bene sintetizza la situazione di Liliana Segre e di tanti altri ebrei: la colpa di essere nati, di rappresentare qualcosa che non deve più esistere perché incompatibile con l’“ordine” hitleriano e perciò nei disegni dei nazisti destinato a sparire. “Ecco la specificità della Shoah rispetto ad altri stermini che sono sempre terribili sotto tutti i cieli, perché i carnefici vanno sempre condannati sotto tutti i cieli: questa era stata preparata a tavolino da anni.” All’uscita da San Vittore, mentre inizia il viaggio verso l’orrore, un caldo soffio di umanità avvolge i prigionieri. “Gli altri detenuti, che in quel momento avevano sicuramente l’ora d’aria, vedendo passare questa tragica fila di 600 persone così innocenti, che avevano la sola colpa di essere nate, furono straordinari, quei detenuti, perché furono uomini. Poi ci volle un anno e mezzo per incontrare altri uomini, perché loro ebbero pietà di noi e fu un plebiscito di grida, di benedizioni, di incoraggiamenti. Poi uscimmo e fummo caricati su camion a calci, pugni e bastonate.” Una settimana di viaggio verso una destinazione ignota ma certamente fonte di terribili sofferenze. “Mi ricordo come eravamo ammassati l’uno sull’altro; mi ricordo i pianti di tutti; mi ricordo le preghiere dei più fortunati, dei religiosi che lodavano Dio anche in quella situazione. Mi ricordo quel silenzio profondo, essenziale, straordinario di quegli ultimi giorni quando ci stringevamo l’uno all’altro e non c’era più nulla da dire; quel silenzio che ho tanto in onore, perché ognuno è solo con se stesso e comunica al massimo con la persona che ama senza bisogno di parole. Dopo quel silenzio mi ricordo il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi; mi ricordo i fischi; mi ricordo i latrati; mi ricordo i comandi e mi ricordo quando fui separata per sempre da mio papà. Mio papà aveva allora 43 anni, era stato ufficiale nella Grande guerra, non avrebbe mai pensato che la sua principessa, figlia unica, bambina adorata, per la colpa di essere nata sarebbe finita lì.”

Nell’inferno

“Mi ricordo quando, separata, da sola, con altre trenta ragazze spaurite, come ubriache, stupite di questo destino, di questo disegno incredibile che era stato preparato per noi, incolonnate dopo la prima selezione. Eravamo 31 ragazze italiane incolonnate su quella strada piena di neve che ci portava lontano da quel binario morto, fine corsa, perché la maggior parte morì quello stesso giorno. Entrammo nel grande lager femminile di Birkenau, ad Auschwitz, preparato per noi. Ed ecco questa città fantasma, 60 mila donne, tra quelle che entravano e quelle che venivano uccise. Una distesa senza fine di baracche spaventose. Ecco che lì già il primo giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu marchiato il numero sul braccio. Dico sempre che mi paragono, paragono noi prigionieri di Auschwitz-Birkenau ai cani ai quali in quest’ultimo periodo viene fatto un tatuaggio sulla zampina perché così i loro padroni sono più tranquilli; anche i nostri padroni erano più tranquilli, perché rapate a zero, vestite a righe, con il numero tatuato sul braccio e con un mondo nemico intorno a noi ben difficilmente avremmo potuto sfuggire a quell’inferno.” Guardo le facce dei ragazzi che ascoltano questo racconto, volti tesi, occhi rivolti alla signora che seduta in mezzo alla sala rievoca quell’inferno.

“Ho scelto la vita”

“Qualcuno potrebbe chiedersi e chiederci: perché non vi siete ribellati? Ma che cosa avremmo potuto fare contro i soldati armati, contro le mitragliatrici puntate contro di noi dalle torrette? Anche nei dirottamenti degli aerei i passeggeri sequestrati non si ribellano, per essere liberi aspettano l’arrivo della polizia. “ E mi ricordo com’era quell’inferno dal quale non potevamo fuggire. Mi ricordo quell’odore di carne bruciata: mi ricordo la fiamma del crematorio là in fondo, mi ricordo la neve sporca, mi ricordo la fame, il freddo, mi ricordo le botte, mi ricordo l’appello, mi ricordo che non volevo più essere amica di nessuno perché non sopportavo i distacchi, ma mi ricordo anche che ho scelto subito la vita e che io volevo vivere a tutti i costi, non volevo morire a 13 o 14 anni, come li ho compiuti nel campo; mi ricordo, quando seppi che era il giorno del mio compleanno, volevo vivere e scelsi sempre la vita. Non dico che per questo sono rimasta in vita, ma certamente i nostri aguzzini, a noi che abbiamo scelto la vita, non sono riusciti a togliere l’anima.”

Malati di Auschwitz

“Ci hanno però fatto una cosa, in questo ci sono riusciti: noi sopravvissuti di Auschwitz saremo sempre malati di Auschwitz, non lo potremo mai dimenticare in nessun minuto della nostra vita; il numero che ci hanno marchiato sul braccio sinistro ha sostituito quel giorno la nostra identità perché, è vero, prima di ogni altra cosa siamo rimasti quel numero. Poi la vita ha pensato a ridarci le gioie, i dolori, ma siamo rimasti soprattutto quel numero, io sono essenzialmente 75910 di Auschwitz.”

Pietà per l’Hitler Jugend

“Mi ricordo cos’era la nostra vita: io ero un’operaia schiava, lavoravo alla fabbrica Union, fabbrica di munizioni ed era una gran fortuna perché lavoravo al coperto. Mi ricordo la marcia da Birkenau alla città di Auschwitz per andare in fabbrica quando nostri coetanei con la divisa della Hitler Jugend, incontrando questo gruppo di prigioniere schiave, di donne scheletro, di ragazze che non erano più donne ma ectoplasmi di quello che erano state nella loro vita precedente, non contenti ci sputavano addosso e ci dicevano delle parole così terribili e quando poi io, che non capivo il tedesco al momento, ne chiesi la traduzione non potevo credere che dopo averci tolto tutto ci dicessero anche quelle cose e ci sputassero addosso. Era terribile! Allora li temevo e li guardavo come esseri ultraterreni; poi negli anni ne ho avuto una grande pietà. Sono stata capace di avere una grande pietà. Era terribile essere diventati dei giovani della Hitler Jugend, che credendo di appartenere ad una razza superiore erano capaci anche di sputarci addosso e di dirci quelle parole.” Si fa più incalzante il ritmo del racconto davanti alle facce attente dei ragazzi che seguono lo svolgersi di questa terribile avventura, qualcosa che oggi, per loro fortuna, è persino difficile immaginare.

La marcia della morte

“Mi ricordo quando dopo un anno di lager ero magra, affamata, durissima, non piangevo più, non sapevo più piangere ma avevo una voglia pazza di vivere. Ed ecco che alla vigilia di questo 27 gennaio che oggi ricordiamo, ecco che venne l’ordine di evacuare Auschwitz. I nostri aguzzini lasciarono nel campo solo quelli che non stavano più in piedi, fra cui Primo Levi che era gravemente ammalato e che secondo me in modo assolutamente perfetto descrive ne La tregua l’arrivo dei russi ad Auschwitz. E io dove sarò stata il 27 gennaio? Ero stata avviata sulle strade della Germania con le altre disgraziate come me, ancora in piedi, ancora vive dopo un anno; feci quella marcia che fu giustamente chiamata la marcia della morte, perché la strada era di neve insanguinata. Io non mi voltavo a vedere le compagne che cadevano e che venivano finite con una fucilata alla testa dalle nostre sentinelle. Io non potevo guardarle, io per sopravvivere evitavo sempre di guardare quegli aspetti terribili della mia vita in quel momento, che sarebbero stati insopportabili. Quindi, io camminavo e comandavo il mio corpo, una gamba davanti all’altra: cammina, cammina, cammina! Così dopo giorni di marcia mi ricordo che ci buttavamo sugli immondezzai, non importa se dopo diarrea e vomito li avremmo avuti sicuramente, ci riempivamo come pazzi di qualunque cosa: torsoli di cavolo marcio, bucce di patate, ossi già spolpati; qualunque cosa pur di mangiare, camminare e comandare al proprio corpo: cammina, cammina, se no morirai! Ce lo dicevamo l’una con l’altra con gli occhi perché non c’era il fiato per parlare. Così arrivai al lager di Ravensbruk, terribile campo dove finirono molte donne politiche italiane. Poi ancora, ancora altri campi, fino alla primavera del 1945.”

La libertà ha il sapore di albicocca

“Arrivò anche lì questa primavera incredibile e nel piccolo campo in cui ero mi ricordo che, al di là del triplo filo spinato, vedevo le foglie, vedevo il prato verde, sognavo di uscire da quel cancello e di camminare di nuovo libera come ero stata prima, una bambina felice sui prati. “E così in effetti, ancora vive per miracolo, ancora vive, scheletri, ancora vive senza più la parvenza di nessuna femminilità, ma ancora vive, con i cervelli funzionanti, arrivò quel giorno fantastico, che non importa se è il 27 gennaio, per me fu il primo maggio del 1945 quando quei cancelli si aprirono, i nostri aguzzini sparirono e arrivarono gli americani da una parte, i russi dall’altra. “Io mi ricordo che in quel momento, noi ragazze schiave, noi nullità, noi niente ma ancora vive, fummo testimoni in quel momento della storia che cambiava su quelle strade della Germania. E quando vedemmo le nostre guardie mettersi in borghese, allontanare i cani, buttare le divise, buttare le armi, fu un momento straordinario, incredibile meraviglioso. Poi vidi arrivare una jeep americana, soldati che buttavano sigarette, cioccolato, frutta secca. Io mi ricordo che mi arrivò proprio addosso un’albicocca secca e la misi in bocca, era fantastica, era il sapore della libertà.” La tensione e la commozione dei ragazzi si liberano in un lungo, caloroso applauso che si ripete quando Liliana Segre finisce il racconto.

Il ritorno

“Sono tornata a Milano con grande fatica dopo mesi, quando gli americani sono riusciti ad organizzare il rientro dei francesi in Francia e degli italiani in Italia. Mi ricordo che quando arrivai su un camion sul piazzale della Stazione Nord (stazione bombardata, città ferita, era la fine di agosto del 1945), mi ricordo che sulla piazza io scesi da quel camion con un’altra ragazza sopravvissuta come me, romana, e un signore che passava non ci chiese niente ma ci diede l’elemosina e ci diede anche due barattoli di marmellata, ce li regalò con grande pietà. Poi mi avviai alla mia casa di corso Magenta 55 per vedere se c’era qualcuno dei miei ma le mie finestre rimasero chiuse per sempre. Quando il portiere mi vide entrare nel portone gridò: “Fuori, fuori!”, mi aveva scambiata per una vagabonda. ‘Ma sono io, Liliana, gridai!’ e questo fu il mio ritorno dall’inferno.” I ragazzi si alzano, parecchisi avvicinano a Liliana Segre per una carezza, un bacio, un gesto di affetto e anche magari di inconsapevole riconoscenza. Nella sala che si svuota il racconto del numero 75190 di Auschwitz evoca la figura di Jorg Haider, il leader dell’estrema destra austriaca che ammira le SS, odia gli stranieri, andato al governo con i popolari. In Italia, e non solo in Italia, c’è chi dice, dopo la dura reazione dell’Unione Europea, che non si deve interferire negli affari interni di un Paese, che attaccandolo lo si rafforza. Intanto le piazze dell’Austria si riempiono ogni giorno per le manifestazioni di protesta. Che cosa ne pensa l’ex deportata Liliana Segre? “Non mi fa paura Haider ma l’ambiente in cui nasce. È l’ambiente che chiude la porta e il cuore al diverso, lo confina in un ghetto, poi dietro il filo spinato e poi, e poi…”

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Respinta dalla Svizzera, arrestata dai fascisti

 

La drammatica ricostruzione di come Liliana Segre venne respinta in Italia dalla polizia svizzera, una volta superato il confine a Viggiù (Varese) il 7 dicembre 1943, è pubblicata nel libro di Renata Broggini, “La frontiera della speranza” (Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera 1943-1945), Mondadori, “Le scie”, 1998. Liliana Segre, giovinetta di 13 anni, era quel giorno con il padre Alberto Segre, 44 anni (deportato ad Auschwitz, dove morì il 27 aprile 1944), e con gli anziani cugini Giulio e Gino Ravenna di 70 e di 69 anni. Il primo dei due si spense nel campo “di smistamento e di polizia” di Fossoli per le privazioni; il secondo si suicidò gettandosi da un ballatoio del carcere di San Vittore dove era detenuto in attesa del trasferimento in Germania. Liliana Segre fu la sola del piccolo gruppo a salvarsi.

Ci inoltrammo nel bosco che era ai piedi di questa terra di nessuno ed eravamo sicuramente entrati in Svizzera. A quel punto, nel fitto del bosco, ecco che tra le frasche io vidi un soldato e avvertii mio papà senza parlare perché dall’uniforme ci sembrava un soldato tedesco; invece mio padre disse: “No, tranquilla: questo è uno svizzero, siamo salvi”. Nel vederci il soldato rimase sbalordito perché evidentemente non era passato nessuno di lì o lui non aveva mai visto gente come noi: due vecchi vestiti di nero con gli ombrelli aperti, io, una ragazzina di tredici anni, e l’unico uomo valido, mio papà. Allora mio padre disse: “Senta, ci accompagni al paese: da che parte si deve andare?” E lui rispose: “Ma io vi devo portare al comando di Polizia di Arzo” (questo è il nome del comune svizzero subito al di là del confine). Attraversammo in quell’alba (ormai saranno state le otto del mattino) il paese di Arzo e subito avemmo l’impressione di un gelo terribile perché le massaie, che uscivano probabilmente a prendere il pane, il latte, le prime cose del mattino, non ci guardavano. Nessuno ci salutò o fece cenno di notare qualche cosa di strano, mentre non doveva essere cosa di tutti i giorni per un paesino addormentato come quello vedere, alle otto di mattina, un gruppo di persone accompagnate da un soldato. Ma nessuno ci rivolse la parola: ci guardavano furtivamente, poi distoglievano in fretta lo sguardo dalle nostre persone. Il soldato ci accompagnò al comando di Polizia, dove entrammo sorridenti e speranzosi; facemmo un’anticamera di ore. Ricordo un corridoio con delle panche su cui stavamo seduti e c’erano al muro delle stampe di farfalle di montagna: io le guardai per ore, quelle farfalle trafitte da uno spillo: il simbolo della mia situazione, essere state presa e infilata anch’io, come una farfalla. Il fatto di aspettare per ore già ci aveva messo in uno stato d’animo di grande ansia, soprattutto perché alla nostra richiesta di avere qualche cosa di caldo, pagando naturalmente, un latte, un caffé, una cosa qualunque, la risposta fu negativa: avevano ordine di non dare niente a chi si presentava lì. Dopo ore che non saprei certo quantificare, ma che furono almeno due, ecco che si aprì la porta di questo ufficio e ci accolse, diciamo pure, ci fece entrare un ufficiale svizzero- tedesco il quale immediatamente disse: “Chi siete? Cosa volete? Non è vero che in Italia gli ebrei sono perseguitati”, e rivolto a mio padre: “Lei è sicuramente un ufficiale renitente alla chiamata alle armi”. Mio padre, sbalordito, rispose: “Ma scusi, le sembra che se io fossi un ufficiale renitente alla chiamata mi porterei mia figlia che ha tredici anni e che è la cosa più sacra che ho nella mia vita?” E lui fece: “Ma questa è una stupida ragazza che, siccome in tempo di guerra non si può certo girare il mondo, crede di essere venuta a vedere la Svizzera”. E i due vecchi Ravenna? Mio padre replicò: “Ma le pare che due vecchie persone come queste si metterebbero in un pericolo simile proprio dal punto di vista fisico, sforzandosi di attraversare la montagna, passando dei disagi di questo genere?”. L’ufficiale non lo stava neanche a sentire. Disse: “La Svizzera è piccola, adesso è troppo tardi, non è vero, non voglio nemmeno stare a sentire chi siete, non mi interessa. Tornate indietro, andatevene via subito”. Mio padre aveva cucito nella cintura dei pantaloni del suo vestito una fila di brillanti che la nonna gli aveva dato e una serie di francobolli rarissimi, perché era un filatelico appassionato e come tale era in contatto con filatelici di tutto il mondo (tutti quelli che amano i francobolli prima o poi si conoscono). “Guardi che io ho modo di mantenere me e mia figlia per tutto il tempo della guerra.” “Ah comodo!” fece questo. “Viene qui a fare il signore in Svizzera. No, no assolutamente. Qui, semmai, si deve lavorare”. Allora mio padre disse: “Ma noi siamo prontissimi anche a lavorare”. A un certo punto io, che sono sempre stata una persona poco incline alle scene e molto riservata, bé, quel giorno mi ero resa conto di ciò che stava succedendo e mi buttai per terra e gli abbracciai le ginocchia piangendo come una pazza, supplicando questo ufficiale di tenerci. Mio padre disse: “Tenga almeno mia figlia”. Allora, gettata ai piedi di questo ufficiale, io piansi disperata supplicandolo e stringendolo, ma non ci fu niente da fare. A quel punto mio padre, cambiando registro - ormai vedeva che tutto era perduto e non aveva più la forza di trovare dei toni diplomatici con questa persona terribile e spietata - disse: “Ma lei è solo un capitano, un tenente? Telefoni al suo comando di Berna e chieda istruzioni perché può garantire per me il signor...”. E adesso io purtroppo non ricordo chi fosse, ma direi Sacerdoti, che aveva una carica in una società di assicurazioni e conosceva mio papà, il quale aveva una sua lettera di raccomandazione. L’ufficiale fece mille storie, poi ci rimandò nell’ingresso dove c’erano le farfalle e fece una lunga telefonata in tedesco. Mio padre sapeva un po’ di tedesco e stava fuori dalla porta cercando di capire. Ma quello che intese senza ombra di dubbio fu la versione dei fatti che l’ufficiale dava al suo comando, mettendo praticamente le cose in modo che gli si dicesse: “Sì, rimandali indietro”. Mio padre era tirato, grigio in faccia, disperato; non avevamo mangiato niente: solo un tozzo di pane che ci eravamo portati da noi e un pezzettino di cioccolata la sera prima e poi niente tutto il giorno, e ormai erano le quattro del pomeriggio di quella giornata terribile che fu il 7 dicembre 1943. Ecco che dopo quella lunga telefonata l’ufficiale uscì e, urlando i suoi comandi alle guardie, ci fece riaccompagnare indietro senza darci la possibilità di dire neanche una parola. I soldati avevano i fucili con la baionetta innestata ed erano degli stupidi ragazzi che ci spinsero sulla montagna più o meno da dove eravamo venuti fino alla terra di nessuno. Naturalmente loro non entrarono nella terra di nessuno, e ridevano minacciandoci. Era quasi buio, la pioggerella sottile ci aveva inzuppato i vestiti: la disperazione. Io, con la forza dei miei tredici anni, pregavo e supplicavo mio papà e i due Ravenna di rimanere nella terra di nessuno e di provare il giorno dopo da un altro punto. Mio padre disse: “Impossibile passare la notte dove non c’è riparo, mentre piove, in inverno: domani mattina saremmo tutti assiderati o malatissimi. Dobbiamo assolutamente rientrare, cerchiamo di non farci vedere”. Io corsi su, verso il confine italiano, guardando giù; i soldati svizzeri non ci perdevano di vista e continuavano a ridere: poveri ragazzi! Non sapevano neanche di che cosa ridevano. Ecco che la terra di nessuno, nel punto dove fummo accompagnati, aveva lungo tutto il confine una rete metallica e ogni tanto dei cancelli con il profilo di legno che racchiudeva la rete. Ebbi l’impressione di vederne uno socchiuso, corsi su e dissi: “Vado, vado, riesco ad aprire, proviamo a rientrare”. Come toccai questo cancello, tutto l’allarme del confine suonò. I soldati ridevano dall’altra parte. Arrivarono due finanzieri in camicia nera, ci guardarono e dissero: “Cosa fate lì?”. Mio padre si spiegò: a quel punto non avevamo neanche più le carte false che erano state stracciate nel boschetto prima di entrare in Svizzera con i nostri veri documenti. “Siamo ebrei, abbiamo tentato di espatriare visto che l’Italia non ci vuole, ma nemmeno la Svizzera ci ha voluto.” Quei finanzieri dissero: “Se volete restare nella terra di nessuno, potete restarci quanto volete; se volete entrare, noi vi dobbiamo arrestare”. Mio padre e i due Ravenna, ancora illudendosi di poter avere un futuro diverso da quello che in realtà li aspettava, dissero: “Aprite il cancello”. La sera stessa eravamo nella camera di sicurezza della caserma della finanza di Saltrio o Viggiù che fosse, e il giorno dopo fummo accompagnati dalle SS alla prigione di Varese. Sulla montagna mio papà, dopo che fummo arrestati, buttò nel fango i brillanti e le serie dei francobolli “Trinacria”. Avevo visto per anni mio padre mettere a posto con grande ordine e diligenza i suoi francobolli, e la serie “Trinacria” era rarissima, con esemplari anche particolarmente belli. Li buttò nel fango perché, come disse: “Ormai siamo stati arrestati, non voglio portargli anche questi valori”. Sono rimasti là, sulla montagna. Entrammo nelle carceri di Varese e io, a tredici anni, fui separata da mio papà: entrai da sola nel carcere femminile. Poi ci furono Como, San Vittore, la deportazione, l’arrivo ad Auschwitz, la separazione per sempre da mio padre. Di noi quattro, solo io sono tornata.

Da Triangolo Rosso, aprile 2000

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