Triangolo rosso

Calogero Marrone l’oscuro eroe che salvò centinaia di vite

 

Accusato di aver fornito agli ebrei e agli antifascisti un grande numero di carte di identità falsificate, venne arrestato dalle SS e deportato a Dachau dove morì di tifo il 15 febbraio 1945. Una lapide della Comunità ebraica, dell’Anpi e del Comune di Varese ricorda davanti al suo posto di lavoro questa luminosa figura di antifascista che, dopo l’8 settembre 1943, collaborò con la Resistenza a prezzo della vita. Una delazione, forse di un impiegato, provocò la cattura.

 

La tragedia era maturata il 4 gennaio 1944 quando, nel tardo pomeriggio, nell’appartamento di Calogero Marrone, capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese, in via Sempione 14, una palazzina a due piani, si era precipitato don Luigi Locatelli, canonico della Basilica di San Vittore, in stretto contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale, per informarlo che i tedeschi erano alle porte e che l’arresto sarebbe stato imminente. Bisognava fuggire senza perder tempo.

 

di Franco Giannantoni

 

Calogero Marrone, 54 anni, siciliano di Favara, una cittadina a due passi da Agrigento, moglie e quattro figli tra i 21 ed i 16 anni, sospeso cautelarmente dal servizio “con effetto dal 1° gennaio 1944 e fino a nuovo ordine” dal Podestà Domenico Castelletti “per l’accertamento delle eventuali responsabilità sull’irregolare rilascio di carte d’identità”, dopo un lungo colloquio con il sacerdote e poi con la moglie, aveva deciso di restare. Da un lato aveva dato la sua parola d’onore al Podestà fascista che sarebbe rimasto a sua disposizione per le indagini e non voleva mancare a quell’impegno; dall’altro bisognava evitare che, in caso di fuga, la inevitabile rappresaglia nazifascista si abbattesse sulla sua famiglia. “Il papà - ricorda Domenico Marrone, 71 anni, l’ultimogenito, allora sedicenne, quell’indimenticabile 4 gennaio a letto per un’influenza – aveva ascoltato con attenzione i suggerimenti dell’amico don Locatelli, chiuso nel suo piccolo studio. Fu un colloquio fitto, immagino drammatico. Noi non sentivamo ma avevamo intuito di cosa potesse trattarsi. Alla fine il papà non se l’era sentita di lasciarci soli. Già se n’era andato in Svizzera, a metà settembre, mio fratello Salvatore, classe 1923, per evitare la chiamata di Salò. Il papà era un grande uomo, rigoroso, fedele ai suoi ideali di giustizia e di libertà, legato al suo lavoro. Rispettava tutti. Amava sopra ogni cosa la famiglia, per niente al mondo avrebbe voluto che, per causa sua, dovesse correre dei rischi. Conosceva gli addebiti che gli erano stati mossi e, credo, sapesse perfettamente la sorte che l’attendeva. Malgrado questo, rimase fermo al suo posto. In questo sta la sua grandezza. Fino all’ultimo, a prezzo di un travaglio interno immenso, non volle ascoltare i nostri accorati consigli”. Il 7 gennaio, tre giorni dopo la visita di don Locatelli, puntuale il destino si era compiuto. Calogero Marrone, all’imbrunire, venne arrestato da due ufficiali delle SS, con le armi spianate, sulla base di un ordine del Comando germanico di Varese che non lasciava dubbi: collaborazionismo con la Resistenza, favoreggiamento nella fuga degli ebrei, violazione dei doveri d’ufficio, intelligenza con il Cln. Accuse da fucilazione. Dice Domenico Marrone - che ha impresso nella memoria, indelebili, quei momenti e che, subito dopo l’arresto del genitore, volle entrare a far parte, ancorché giovanissimo, della brigata partigiana “Poldo Gasparotto” comandata da Luciano Comolli, per tener alta la memoria paterna: “Quella dei tedeschi non fu una visita inattesa, papà l’aveva prevista. La sua grande generosità, il suo spiccato altruismo gli avevano forse fatto sperare un trattamento diverso: si figuri che subito dopo il 12 settembre quando le truppe del Reich erano entrate in città, si era preoccupato di reperire degli alloggi ad alcuni ufficiali tedeschi che glielo avevano chiesto, andando a parlargli in Comune. Spesso ripeteva che, come lui aveva aiutato gli altri, gli altri al momento opportuno l’avrebbero aiutato. Era fatto così ma gli eventi, purtroppo, andarono diversamente. Le fasi dell’arresto si esaurirono in pochi minuti di fronte a noi, spettatori sgomenti e muti: il tempo di preparare una cartella e di riempirla con poche cose e il papà lasciò quella casa che non avrebbe più rivisto. Ci disse con un sorriso velato da profonda tristezza di stare tranquilli, che non saremmo rimasti soli, che gli amici ci avrebbero aiutato, di farci coraggio, che il suo ‘caso’ si sarebbe risolto. Erano state parole di circostanza. Eravamo perfettamente consci della estrema gravità della situazione”. Da quel 7 gennaio 1944 Calogero Marrone, “giusto tra i giusti”, come appare scolpito nel marmo bianco di una targa posta davanti all’ufficio anagrafe il 1° ottobre 1994, dalla Comunità ebraica per l’impegno personale dell’avvocato Giorgio Cavalieri, dall’Anpi e dal Comune di Varese, passò sotto il solo controllo della giurisdizione tedesca, malgrado fosse stato recluso in una cella del carcere giudiziario dei Miogni, prigioniero dei nazisti sino alla morte (dopo un penoso, sofferto itinerario attraverso altre carceri italiane) avvenuta alla metà di febbraio 1945 nel campo di Dachau “quando stava per sorgere il sole della libertà”. Calogero Marrone, secondo di dieci figli, maturità classica, solida cultura umanistica, famiglia della media borghesia siciliana, un negozio di tessuti e proprietà terriere, antifascista della prima ora (“proprio non era capace di sopportare il pensiero del regime”), legato al Partito d’Azione di Camillo Lucchina, futuro presidente del Cln di Varese e di Alfredo Brusa Pasqué, fervente patriota ed abile organizzatore delle fughe in Svizzera di ebrei, renitenti alla leva della Rsi, politici ricercati dalle polizie di Mussolini, era in rapporto anche con la cellula cattolica dell’ingegner Andrea Pedoia e la rete di soccorso antifascista “Oscar” di don Natale Motta e don Franco Rimoldi. Il 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, Marrone, fino a quel momento nell’ombra, cauto, riservato, era apparso per la prima volta in pubblico, prendendo la parola dal Palazzo dei Fasci e delle Corporazioni in piazza Monte Grappa, assieme al giornalista della “Cronaca Prealpina” Mino Tenaglia, rivolgendosi alla folla dei cittadini e degli operai giunti in centro città dai quartieri operai di Valle Olona, Belforte e Masnago, in nome dell’unità del Paese, finalmente libero dall’oppressore. Per molti varesini fu una sorpresa vedere quell’uomo, inappuntabile nel suo doppiopetto dietro la scrivania dell’ufficio municipale, sul balcone, occupato sino a qualche giorno prima dai gerarchi e dai propagandisti per i loro comizi. “Il papà uscì allo scoperto - ricorda con una punta di commozione il figlio Domenico - in una situazione confusa, che andava governata con uno spirito nuovo. Da quel giorno si pose senza indugi al servizio della nuova causa”. A Varese Marrone era giunto nel 1931, vincitore di un concorso pubblico dopo essere stato impiegato al Comune di Favara. Aveva portato con sé la famiglia, la moglie Giuseppina, i figli Filippina, Salvatore, Dina e Domenico ancora in tenera età. La carriera a Varese era stata rapida e brillante: applicato di prima classe nel ’31 all’ufficio elettorale, certificati e passaporti di Varese; dal ’34 dirigente l’ufficio anagrafe; dal ’37 capo dello stesso reparto con dodici impiegati. “Ottimo funzionario - si legge nel rapporto municipale del 9 febbraio 1942 - sia per doti intellettuali che per attività pratica, qualità direttive ed organizzative”. Un funzionario esemplare, punto di riferimento per migliaia di cittadini, dall’8 settembre pedina fondamentale dell’antifascismo varesino che fra ostacoli di ogni genere, diversità di vedute, scarsità di determinazione e di mezzi, aveva cominciato ad abbozzare una strategia organizzativa. Varese, città di frontiera, subito dopo l’armistizio e le prime stragi naziste sul lago Maggiore, era stata presa d’assalto da migliaia di fuggiaschi, soprattutto ebrei, giunti da ogni città d’Italia ma anche da giovani di leva che avevano guardato alla vicina Svizzera come alla terra promessa. Ma come fare per agevolare i movimenti clandestini di chi, avviato o respinto sul confine o impossibilitato a raggiungerlo, avrebbe tentato di nascondersi in qualche Comune della provincia, se non dotandolo di documenti con false generalità? Calogero Marrone, profondamente convinto del dovere di ogni italiano di combattere i nazifascisti con ogni mezzo ed in ogni circostanza, aveva trasformato il suo piccolo ufficio di Palazzo Estense in una specie di campo di battaglia. Al posto del fucile, la penna e il calamaio, i timbri, le cartelle anagrafiche. I segnali di aiuto partivano dal Cln, il motore delle varie iniziative in base alle richieste che giungevano anche da Milano e da altre città della Lombardia. “A mia madre - ricorda Domenico Marrone - il papà la sera raccontava tutto. Aveva bisogno di sfogarsi, di aprirsi, di svelare quei segreti. Sai oggi, diceva sollevato, siamo riusciti a nascondere un’intera famiglia di ebrei. È andata bene! Gli ebrei erano poi affidati a famiglie della città che si preoccupavano di sistemarle in luoghi sicuri. La famiglia Pedroletti, a noi legata da sincera amicizia, fu tra le più attive, utilizzava per i passaggi in Svizzera, la propria casa di Lavena-Ponte Tresa, un posto strategicamente decisivo, a due passi dal confine”. Calogero Marrone, avuta la segnalazione del Cln, attraverso Alfredo Brusa Pasqué, riceveva ebrei ed antifascisti nel suo ufficio, riduceva all’osso gli ostacoli burocratici, compilava personalmente i documenti, rilasciava le preziose carte d’identità. Un’attività sul filo del rasoio, scandita dal rischio, sempre in agguato, di essere scoperto. “Non sappiamo con certezza il numero dei documenti concessi - dice Domenico Marrone - ma credo che sia stato nell’ordine di qualche centinaio in soli tre mesi”. L’avvocato Giorgio Cavalieri, classe 1921, ebreo, il primo a volere la targa al Comune di Varese in memoria di Marrone, grande amico dei “fratelli ebrei salvati dalla ferocia nazifascista” (come è testualmente riportato sul marmo), ricorda commosso il contributo che il capo dell’ufficio anagrafe diede per salvare alcuni suoi familiari, in quei giorni turbinosi: “Mentre io, mio fratello Aldo e mio padre Edgardo passammo in Svizzera il 17 settembre 1943 attraverso il torrente Tresa, mia nonna Paola Cavalieri Carpi, sua figlia Emilia Cavalieri ed i miei cugini Laura e Ferruccio Pizzo, tutti ebrei, ebbero da Marrone, sul finire del 1943, quattro carte d’identità falsificate, non so a chi intestate. Con queste, riuscirono nell’impresa straordinaria, dati i tempi, di nascondersi nel piccolo abitato di Mondonico, in Valganna, dove vissero fino al 25 aprile 1945, ‘liberati’ alfine, si può dire così, da un gruppo di partigiani al comando del mio amico Dino Spreti”. Non solo gli ebrei furono i beneficiari di questo oscuro eroe della nostra storia ma anche i partigiani. L’avvocato Gianfranco Maris, allora “garibaldino” in una formazione del bergamasco, fu uno di questi: “Venni a Varese fra il 10 ed il 20 novembre 1943, andai in Comune dove avrei dovuto prendere contatto con un funzionario siciliano dell’ufficio anagrafe di cui ignoravo il nome per ragioni di sicurezza. L’indicazione la ebbi da Salvatore Di Benedetto, siciliano, di Agrigento, un comunista del Centro di Milano che a sua volta mi aveva segnalato all’avvocato Montuoro, originario della stessa città siciliana, sfollato con la famiglia nel Varesotto. Incontrai Marrone, ebbi da lui una carta d’identità intestata a tale Gianfranco Lanati, un cognome pensato lì per lì, nato il 24 gennaio del 1926, residente non ricordo bene se a Caserta o a Santa Maria Capua Vetere in via Tommaso Campanella, questo sì che mi è rimasto in mente. Quel documento fu la mia salvezza fino al momento in cui, più tardi, venni catturato ed internato a Mauthausen”. Calogero Marrone non si era limitato a distribuire carte false ma aveva esteso la propria attività cospirativa in altre direzioni. In collegamento con Antonio De Bortoli, un abile artigiano mobiliere, autore di una rocambolesca fuga a Verona mentre stava per essere trasferito in Germania, Marrone organizzò trasporti di armi e di derrate alimentari al Gruppo partigiano “5 Giornate del San Martino” del colonnello Carlo Croce (di cui venne riconosciuto partigiano effettivo dalla apposita Commissione), prima che la formazione venisse sterminata in battaglia dai tedeschi il 16 novembre 1943. Il 31 dicembre 1943, dopo oltre tre mesi e mezzo dall’inizio della sua attività benemerita, il lavoro di Marrone si interruppe per una delazione, partita quasi certamente dal Municipio, forse addirittura dal suo ufficio. Si disse, nell’immediatezza del fatto, che il responsabile potesse essere stato un impiegato dell’anagrafe. Voci sfumate, mai riscontrate. Il volto del traditore restò sempre nell’ombra. “Noi abbiamo sempre pensato – dice Domenico Marrone - che chi tradì fosse in Comune. Si fecero altre congetture. Il maggior indiziato del Comune di Varese, fra l’altro, a fine guerra, ci venne a cercare per avere aiuti. Ex-fascista, era stato abbandonato da tutti. Una risposta sicura sulle sue responsabilità non siamo riusciti mai ad averla”. Con la freddezza del linguaggio burocratico, il Podestà Domenico Castelletti aveva contestato il 31 dicembre 1943 a Calogero Marrone, dopo un colloquio a quattr’occhi a Palazzo Estense, in presenza del comandante della Guardia Doganale di Frontiera, il Commissario distrettuale capitano Vornehm, di aver rilasciato il 15 dicembre in modo irregolare due carte d’identità, intestate ai nomi di Natalina Rosati e di Pietro Del Giudice, con ogni probabilità, ebrei di Milano. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Marrone prese atto della contestazione, sottoscrivendo l’atto di notifica del provvedimento che assomigliava troppo, per la pesantezza, ad una condanna a morte. Fu la sua ultima firma da libero cittadino. Le altre suggellarono i verbali dei vari interrogatori ai quali fu sottoposto dagli ufficiali tedeschi (spesso all’Hotel Regina di Theodor Saevecke) e le accorate lettere dalla prigionia. L’istruttoria condotta dal Podestà di Varese nei confronti dei collaboratori di Marrone per avere un quadro di quanto era accaduto, non diede risultati apprezzabili. Emerse semmai quello che era noto: che in qualche caso “trattandosi di personalità o di persone di molto riguardo”, Marrone trattava personalmente le varie pratiche nel proprio ufficio, evitando che gli ospiti indugiassero allo sportello numero 5, quello per il pubblico e che lo stesso mai si era lasciato andare “ad apprezzamenti di indole politica né tanto meno contro l’attuale regime”. Affermazioni scontate che non valsero a sottrarre Calogero Marrone alla sua tragica sorte. Preso in consegna il 7 gennaio 1944 dagli aguzzini tedeschi senza attendere l’esito dell’inchiesta comunale, al Podestà di Varese non rimase neppure il tempo di riferire a Marrone ciò che era emerso dagli interrogatori dei vari testimoni. Sarebbe del resto stata un’inutile formalità. I tedeschi, furenti per gli affronti subiti dal settembre del ’43, volevano infatti disfarsi al più presto possibile di quello che ritenevano un pericoloso nemico.

 

“Sembra proprio una Via Crucis. Speriamo di non arrivare al Golgota”

Dal carcere dei “Miogni” di Varese, a quello di San Donnino di Como, a San Vittore, al lager di Bolzano-Gries. Infine in Germania, dopo nove mesi di durissima detenzione.

 

Caduto nelle mani dei tedeschi, Calogero Marrone era stato sottoposto dal 7 gennaio 1944 ad un regime di strettissima sorveglianza nel carcere giudiziario dei Miogni, isolato dagli altri detenuti. Alla moglie Giuseppina e, a turno, ai tre dei quattro figli (Salvatore si era rifugiato in Svizzera per evitare il bando di Salò) erano stati concessi alcuni permessi per brevi colloqui. Gli interrogatori nelle stanze di Villa Zanoletti in via Solferino, requisita dal Comando della Guardia di Frontiera tedesca per farne il Quartier Generale, erano stati lunghi ed estenuanti. La preda infatti era di primaria importanza. Marrone, prelevato quasi ogni giorno all’alba dalla propria cella e trasferito nella sede delle SS, aveva resistito, visto l’esito fatale della sua vicenda, alle martellanti richieste di rendere pubblica la fitta rete dei collaboratori del Cln e dei suoi componenti e di rivelare i nomi delle centinaia di persone che avevano ottenuto da lui i documenti falsificati per la fuga. Malgrado i familiari fossero stati informati con una certa regolarità del giornaliero spostamento del prigioniero lungo un itinerario di circa un chilometro, interamente nel centro della città, nessuno era riuscito mai ad individuare il mezzo su cui era trasportato né a fissare gli orari sempre modificati. Ma il comando della 121° Brigata Garibaldi “Gastone Sozzi” di Walter Marcobi e di Claudio Macchi non aveva rinunciato sin dal primo momento a tentare un’azione gappista per liberare Marrone e altri detenuti dal carcere. Un progetto difficile per i molti rischi, previsto fra il 20 ed il 22 gennaio. La zona era infatti densamente abitata e davanti al portone centrale dei “Miogni” c’era la scuola elementare “Felicita Morandi” affollata di scolari per gran parte della giornata. I partigiani, dopo aver valutato a fondo ogni aspetto dell’operazione che prevedeva l’uso di armi e di esplosivi, alla fine avevano rinunciato. Ma la voce di una possibile liberazione non era sfuggita al Comando germanico che il 26 gennaio, all’improvviso, aveva prelevato Marrone dai “Miogni” per trasferirlo nel più sicuro carcere di San Donnino di Como. Una decisione che aveva allontanato l’ex capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese dai propri cari. Erano seguiti mesi durissimi, rotti ogni tanto dalle visite della moglie e dei figli. Marrone, interrogato a ripetizione dai tedeschi, non aveva mutato il proprio atteggiamento. Un silenzio ostinato, incrollabile. L’8 maggio il detenuto era riuscito a inviare un breve messaggio a casa. Due foglietti diretti ai figli. Parole di conforto, inviti a resistere. “Comprendo il dolore – aveva scritto - e la lotta della mamma nella vita, dato che io non percepisco stipendio, unica fonte della nostra famiglia. Solo ciò mi rattrista enormemente, conscio delle ristrettezze finanziarie in cui vi trovate ed in momenti così terribili! Coraggio e fiducia. Vi stringo forte al petto e vi bacio con ardore”. Solo, senza alcuna possibilità di ristabilire contatti coi compagni di lotta di Varese, in un ambiente carcerario estraneo, Calogero Marrone aveva manifestato in altri messaggi i timori per l’immediato futuro. Rivolto alla moglie Giuseppina, sempre a maggio, aveva scritto: “Sabato scorso mi sei sembrata molto giù. Forse, oltre alle tue continue preoccupazioni per vivere, per trascinare la vita purtroppo amara della famiglia, si è aggiunto lo spavento del bombardamento avvenuto nei pressi di casa (nota: il 30 aprile 1944 l’aviazione inglese aveva raso al suolo lo stabilimento Avio Macchi, colpendo nello stesso tempo decine di abitazioni civili e provocando oltre cento vittime e altrettanti feriti). Voglio che tu faccia una cura medica. [...] In salute, io posso ringraziare il Signore. Oggi compio il 55° anno di età ed il quarto mese di una prigionia che mi sembra eterna. Speriamo in bene”. Domenico Marrone ricorda nitidamente l’ultimo incontro che ebbe col padre nel carcere di Como: “Andai per dirgli di persona che avevo sostenuto con profitto gli esami per il passaggio dal corso per ragionieri a quello per geometri che a me piaceva di più. Il papà accolse la notizia con grande gioia. Era d’accordo. Mi fece come al solito coraggio. Era convinto che prima o poi tutto sarebbe finito”. La detenzione a Como terminò con il mese di giugno. Marrone con altri compagni di lotta venne destinato al carcere milanese di San Vittore, l’inferno concentrazionario nazifascista, tappa obbligata di un successivo trasferimento al campo “di polizia e di smistamento” di Fossoli presso Carpi o della deportazione in Germania. “La mamma - ricorda Domenico Marrone - vide il papà per l’ultima volta il 13 agosto 1944 quando Milano fu investita da un tremendo bombardamento anglo-americano. Poco dopo, attraverso monsignor Dell’Acqua, un anziano sacerdote che operava a San Vittore, giunse un biglietto nel quale veniva comunicato che il papà era in procinto di partire per la Germania. In realtà il trasferimento fu a Bolzano”. Il 7 settembre, sei righe scritte fitte, a penna, con il carattere minuto, per sfruttare appieno lo spazio disponibile. Marrone, in carcere ormai da otto mesi, aveva avvertito il pericolo incombente di dover lasciare l’Italia, visto che le partenze si erano susseguite in quei giorni ad un ritmo incalzante”. Era apparso profondamente segnato nell’animo: “Quale destino ci attende? Mettiamoci nelle mani e protezione della Madonna. Sempre coraggio e baci ardenti e prolungati. Se hai nuove, informami”. Cinque giorni dopo, Marrone che era sempre stato a disposizione del Comando tedesco (veniva trasferito per gli interrogatori che non erano mai cessati all’Hotel Regina, sede delle SS), si era rivolto nuovamente ai familiari, utilizzando il canale dei religiosi (o monsignor Dell’Acqua o il cappuccino padre Giannantonio) e la stessa striscia di carta velina. Sette righe angosciate: le traduzioni in Germania si erano infittite, la condizione di vita era diventata insopportabile, il domani era parso sommerso dalle ombre. “Te lo giuro – aveva annotato Marrone, questa volta in preda allo sconforto - preferirei anch’io essere colà tradotto, poiché l’eterno incognito deprime, accascia, nonostante la fede in Dio, solo conforto in questa vita opprimente, piena di terrore. [...] Ho avuto forza e coraggio ma in questa settimana sono un po’ oppresso. [...]. Se ancora puoi, portami a suo tempo roba di lana per eventuale partenza” Altri giorni d’attesa, rinnovate sofferenze. Il 19 settembre: “ Verranno ancora giorni peggiori! State sempre in guardia! In caso di torbidi, raccomando di stare in casa. Prepararci a tutto. Fede e coraggio”. Prima del trasferimento nel lager di Bolzano-Gries, una struttura destinata ai rastrellati di tutt’Italia, dai detenuti politici, ai partigiani, agli ebrei, ai disertori militari, stazione estrema prima dei campi di sterminio, i figli di Marrone avevano indirizzato al padre un messaggio di conforto di cui si ignora la sorte. Ebbe Marrone la possibilità di leggerlo, traendo a sua volta coraggio di fronte all’ignoto? Domenico Marrone ne ha conservata una copia, raccolta con le lettere scritte dal padre, le fotografie, documenti vari, in un grande album, messo a disposizione per la prima volta per i lettori del “Triangolo Rosso”: “Caro papà, sempre tranquilli e fiduciosi, attendiamo il giorno in cui ci potremo riunire tutti. Ma affinché quel giorno sia veramente bello, dobbiamo far di tutto per conservarci, sani, buoni, forti. La mamma è ammirevole in tutto e per tutto e ci dà un esempio esemplare. Tutti preghiamo perché il giorno di pace non sia lontano”. Il primo approccio con Bolzano-Gries gli era apparso stranamente discreto. Marrone, lasciato alle spalle il ricordo della tetra cella di San Vittore, aveva creduto di ritrovare un minimo di serenità. “Eccomi - aveva scritto apparentemente sollevato il 23 settembre - alla nuova residenza sempre in ottima salute e morale alto. Trovomi in un campo di concentramento di prigionieri politici ove non manca l’aria dei monti, respirando a pieni polmoni. [...]. C’è il problema degli indumenti di lana ma pazienza, saprò adattarmi, non preoccupatevi affatto, in nove mesi, posso dire d’aver cambiato carattere. Tutto mi basta e so assuefarmi ad ogni sorta di lavoro. Tornerò con i calli che sono onore per l’uomo”. Si era trattato di un tremendo abbaglio. La pesantezza del lager aveva ben presto respinto Calogero Marrone nell’angoscia, aggravata dai pensieri della famiglia in difficoltà e sostenuta unicamente dallo stipendio della primogenita Filippina, impiegata alla Banca d’Italia. Aveva scritto il 25 settembre, due giorni dopo l’arrivo: “Parlarvi della vita del campo, mi esimo. Lascio solo a voi immaginare, pensate semplicemente che siamo prigionieri politici. [...] Il primo giorno sono stato adibito con altri a scavare una grande fossa con pala e piccone. [...] Oggi dal campo ne sono partiti parecchi, internati in Germania”. “Fame da lupo - aveva aggiunto in una lettera del 26 settembre, firmandosi con lo pseudonimo di Peppo Coppula - da sembrarmi torta quel pane nero come la pece che ci danno. [...] Se mi vedeste come sono vestito vi mettereste a ridere: raso come una pecora, berretto di carta in testa, una bustina, per coprirci dal freddo e dal sole, tuta con croce alle spalle e triangolo di stoffa rossa, segno dei politici, con sotto il numero di matricola 4317, scarpe sporche e via dicendo. Ma quello che importa è: salute ottima e morale sempre alto. Sono chiamato il filosofo. Coraggio sempre e costanza”. L’ora del distacco dall’Italia era ormai nell’aria. Il 29 settembre il primo accenno: “Forse lunedì o martedì ci imbarcheranno per salire più a nord. E fin a quando e fin dove? Non vi preoccupate per me che in qualunque posto o luogo, saprò resistere a questa vita di bestie immonde”. La partenza temuta, era stata ancora rinviata, ma le “voci” non si erano placate. Questione di giorni, forse solo di ore. “Trovomi – aveva scritto il 2 ottobre – ancora alla 4a stazione della mia Via Crucis. [...] Si vocifera di una spedizione di pecore, ancor su al nord. Questa notte o domani? Il mio pensiero è sempre costante in voi, unica mia preoccupazione. Prego Iddio di assistervi. In questo lager arrivano sempre pecore che vengono man mano inoltrate. Che vita? Solo voi sorreggete il mio spirito qualche volta affranto, umiliato. Per il carattere generale della vita mi sforzo, perché anelo fortemente di venire a stringervi forte forte da non più staccarmi. Coraggio! Non impressionatevi se qualche volta mi mostro abbattuto. Ho bisogno delle anime care per potermi sfogare. Scrivetemi spesso. Papà ha bisogno delle vostre parole”. Nella casa di via Sempione 14 a Varese, erano giunte altre due lettere, consegnate da emissari sconosciuti. “È zio Peppo che le manda”, avevano detto i postini improvvisati,  poi se n’erano andati. Furono gli ultimi scritti. Poi seguì il silenzio. “Oggi si doveva proseguire la Via Crucis - aveva registrato il 5 ottobre ma è stata sospesa la partenza a causa di forte pillolamento (nota: bombardamento) a poca distanza da noi. [...] Mi duole non poco non avere vostre notizie e sa Dio quando potrò averne. Proprio una Via Crucis. Speriamo di non arrivare al Golgota e passare alla resurrezione. Come sento il bisogno di una vostro conforto. Coraggio e fortezza da entrambe le parti!”. Le porte di Dachau, il primo campo di concentramento per politici realizzato da Hitler nel 1933, si schiusero per Calogero Marrone pochi giorni dopo. Da quel momento i familiari non ebbero più notizie sino al febbraio del 1945 quando la Pontificia Commissione Assistenza comunicò “che il dottor Marrone, già segretario del Comune di Varese, fino alla data del 7 dicembre 1944 trovavasi nel campo di concentramento di Dachau (Monaco) in perfetta salute”. Sempre secondo l’autorevole fonte vaticana “a quella data era in atto il trasferimento ad altro campo di concentramento, il quale importava sicuro miglioramento delle condizioni di vita, specie vitto ed alloggio”. Questa, per certi aspetti positiva notizia, venne smentita dai fatti immediatamente successivi. Calogero Marrone era infatti morto a Dachau, con ogni probabilità il 15 febbraio 1945, dopo essere stato colpito da tifo petecchiale, il fisico debilitato dagli stenti e dalle privazioni. Alcune tragiche testimonianze, come del resto accadde in altri casi, si erano alternate a delle smentite, alimentando atroci ed ingiustificate speranze. Così per Marrone. “Dopo essere stati informati dal dottor Bruni di Bergamo e da padre Liggeri, entrambi reduci dal campo di Dachau, che il papà era morto – ricorda Domenico Marrone – una ex-partigiana varesina ci riferì che era stato notato alla stazione di Verona. Immaginate la nostra grande gioia. Ci eravamo preparati al festoso ed atteso incontro quando, prima il professor Silvio Brachetti, compagno di prigionia di De Bortoli, poi il cappuccino padre Giannantonio, confermarono la dolorosa notizia”. La lettera del religioso del 10 giugno 1945 aveva aggiunto alcuni particolari: “Dopo la mia partenza da Milano non vidi più Marrone. Soltanto nel campo di Dachau un giorno ebbi la notizia che egli pure era giunto colà ma che si trovava in una baracca chiusa, per la quarantena. Pochi giorni dopo ebbi la triste notizia che Marrone era morto di tifo. Io non lo potei vedere ma nel blocco nel quale si trovava vi erano dei sacerdoti polacchi. Certamente ha fatto una santa morte. Il suo sacrificio varrà ad ottenere benedizioni e grazie sulla famiglia e sulla Patria”. Toccò al primo sindaco della Liberazione, il comunista Enrico Bonfanti, garibaldino di Spagna e poi confinato a Ventotene, firmare il 20 marzo 1946, il documento ufficiale con il quale si attestava il martirio di Calogero Marrone “antifascista e fervente patriota, collaboratore nella lotta clandestina contro il tedesco invasore”.

Da Triangolo Rosso, aprile 2000

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