Triangolo rosso
Mauthausen - Sfuggiti ai franchisti nel 1939, furono catturati dai nazisti nella Francia occupata
L’odissea degli spagnoli con il triangolo blu
Così venivano “marchiati” i prigionieri che furono fra i 12 e i 15 mila. Ne sopravvissero poco più di duemila - La maggior parte di essi venne destinata a lavorare nella famigerata cava di pietra - Eliminati anche con “operazioni bagno” o iniezioni al cuore. - Un cippo ricorda il loro sacrificio
di Pietro Ramella
Esiste nella storia della deportazione politica in Germania una pagina poco conosciuta, di cui sono stati protagonisti circa dodicimila spagnoli, nonostante, durante la seconda guerra mondiale, la Spagna sia rimasta neutrale, in una posizione ambigua, prima favorevole all’Asse, poi, quando il vento cambiò, favorevole agli Alleati. Gli spagnoli in questione facevano parte dei cinquecentomila repubblicani, anziani, donne, bambini e militari, che tra fine gennaio ed inizio febbraio 1939, avevano attraversato la frontiera della Catalogna per trovare rifugio in Francia e così sfuggire alla cattura da parte dei franchisti, che praticavano la sistematica eliminazione fisica dei loro avversari, la cosiddetta limpieza (pulizia). Le autorità francesi, impreparate a fronteggiare un esodo di tali dimensioni, trattennero i profughi appena oltre il confine sui contrafforti pirenaici ad una temperatura inferiore allo zero per poi trasferirli sulle lande sabbiose del Sud -Est, dove, rinchiusi da tre lati dal filo spinato e da un lato dal mare, languirono per diversi giorni in buche umide scavate nella sabbia, con scarso cibo e senza assistenza medica. Successivamente donne, bambini e feriti furono trasferiti in strutture più adeguate e sulle spiagge del Roussillon vennero costruite delle baracche di legno per consentire agli uomini un rifugio meno precario; fu inoltre migliorata la distribuzione del cibo e l’assistenza ai feriti. Con l’aggravarsi della minaccia di guerra, il governo francese costituì delle “Compagnies de Travailleurs Ètrangers” (C.T.E.), formata ognuna da duecentocinquanta internati agli ordini di un ufficiale della riserva, utilizzate in lavori pubblici nei diversi dipartimenti o nel completamento della linea fortificata Maginot. Cinquemila rifugiati, decisi a riprendere le armi contro i tedeschi, si arruolarono nei “Battallions de Marche” della Legione Straniera. Gli appartenenti alle C.T.E. operanti al Nord e quelli militarizzati, si trovarono coinvolti nella disfatta dell’esercito francese del giugno 1940 e molti caddero prigionieri dei tedeschi, che non riconobbero loro la qualifica di prigionieri di guerra ma li considerarono, pare su sollecitazione di Ramon Serrano Suñer, cognato di Franco e ministro degli Esteri spagnolo, prigionieri politici e come tali furono inviati al campo di Mauthausen in Austria, all’epoca riservato agli antinazisti ed ai detenuti comuni tedeschi ed austriaci. I tedeschi classificarono i Rotspainer (primi stranieri internati), chiamati anche spregiativamente Spanischer Bolschewik, tra gli apolidi, imponendo loro come distintivo il triangolo blu, negando loro la qualifica di politici, cioè il triangolo rosso e la nazionalità. Il primo spagnolo ad essere registrato fu Christobal Nautissa Bernal, con il numero 3.058. Egli faceva parte del convoglio di Angoulême, dalla città della Francia centrale dove era stato costituito, giunto a Mauthausen il 6 agosto 1940. Sui vagoni erano stipate intere famiglie, ma alla stazione fu fatta una selezione: i maschi fino a dodici anni furono internati mentre le donne ed i bambini piccoli furono mandati in Spagna. Nei primi due anni, dopo gli ebrei, gli spagnoli furono i detenuti contro cui metodicamente infierirono le SS e i loro scagnozzi; molti furono destinati alla costruzione della cinta muraria del campo e delle ville per le SS, ma la maggior parte venne destinata al massacrante lavoro nella cava di pietra (la “cantera”), di proprietà della società delle SS “Deutsche Erd und Steinwerke GmbH”, di cui, tra l’altro, scavarono i tragici 186 gradini utilizzati giornalmente dai “kommando”. Negli anni 1941 e 1942 ne furono uccisi circa 4.200; le eliminazioni più feroci avvennero al sottocampo di Gusen tra il dicembre 1941 ed il gennaio 1942, quando costituirono la maggioranza dei 1.628 eliminati con “operazioni bagno” od iniezioni al cuore. Per la brutalità del trattamento loro riservato, i deportati si posero anzitutto il problema di salvare i giovani, non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello morale e politico. Nessun giovane doveva restare solo durante il lavoro all’infermeria dove erano destinati, dovevano sempre avere qualcuno al loro fianco che li sorvegliasse per impedire di cadere nelle maglie della “protezione” di Kapò o capi blocco. Fu anche deciso di aiutarli dal punto di vista alimentare, riservando loro i supplementi del rancio ottenuti con i servizi extra. Lo stesso sostegno fu dato a quanti erano ricoverati in infermeria, anticamera dei forni crematori, operazione denominata “Soccorso rosso” a ricordo del sistema assistenziale in essere nella Repubblica spagnola. La disciplina militare, la dura esperienza dei campi francesi e la giovinezza (età media 27 anni, dato che gli anziani erano stati i primi a morire) consentirono agli spagnoli di adattarsi alle condizioni di vita del campo di concentramento. Veri maestri nell’arte di organizzarsi, impararono delle parole di tedesco dai volontari germanici ed austriaci, che avevano militato nelle Brigate Internazionali, e misero a frutto quest’esperienza costituendo dei corsi di lingua; infatti, era importante capire il più velocemente possibile gli ordini urlati dai Kapò per ottenere i lavori meno pesanti o per inserirsi nell’organizzazione amministrativa del campo; molti di loro divennero interpreti, segretari d’infermeria o dell’intendenza, altri fecero i barbieri o gli addetti alle cucine e alle pulizie, approfittando del fatto che i nazisti rivolgevano le loro pesanti attenzioni ai nuovi arrivati, prigionieri di altre nazionalità (polacchi, cechi, sovietici, francesi ed italiani). Riuscirono così a migliorare le condizioni di vita, tanto che dalla primavera del 1943 non vi furono tentativi di fuga (fino allora ne erano scappati dieci, dei quali uno solo non fu ripreso) ed a partire dall’estate 1943 il loro tasso di mortalità risultò essere parecchie volte inferiore a quello degli altri gruppi. Al disopra di tutte le ideologie politiche e delle tendenze separatistiche, essi erano uniti da uno sconfinato amore per il loro Paese e dall’odio contro il sistema franchista e quello hitleriano, credevano nella sconfitta militare del nazifascismo e pensavano che il regime di Franco non sarebbe sopravvissuto al crollo delle potenze dell’Asse; per questo volevano vivere per tornare in Spagna. Sin dal 24 giugno 1941 avevano costituito il “Comitato spagnolo di resistenza”, prima cellula dell’Ami (Apparato militare internazionale), organismo militare dei diversi gruppi nazionali, formato grazie all’intermediazione di ex soldati delle Brigate Internazionali, che avrebbe gestito il campo tra la fuga delle SS ed il definitivo arrivo delle truppe americane, accolte dagli spagnoli con un grande striscione con le parole: “Los españoles antifascistas saludan a las forzas de liberación”. Essi furono l’unico gruppo nazionale che immediatamente dopo la liberazione costituì un tribunale straordinario che condannò a morte e fece giustiziare diversi connazionali che erano diventati Kapò agli ordini delle SS. Il 6 maggio 1962 fu eretta nel campo, a cura del Governo della Repubblica spagnola in esilio, una stele a ricordo del loro sacrificio, recante la semplice scritta: “Homenaje a los 7.000 Republicanos Españoles muertos por la Libertad”. Altri spagnoli, appartenenti alla Resistenza francese, furono internati, a Dachau e Buchenwald gli uomini, a Ravensbrük le donne. Pochi torneranno. Non vanno infine dimenticati i circa 30.000 inviati al lavoro coatto in Germania per effetto della reléve (scambio tra un prigioniero di guerra francese con tre lavoratori), dove molti morirono a causa dei bombardamenti alleati e degli stenti. Le amarezze degli ex deportati spagnoli non sono finite: infatti, mentre il governo tedesco ha riconosciuto la pensione ai volontari franchisti della “Divisione Azul” prima dell’indennizzo corrisposto agli internati e ai lavoratori coatti, recentemente il Partito popolare del Primo ministro Aznar non ha sottoscritto un documento presentato dagli altri partiti che proponeva un riconoscimento a quanti scelsero sessant’anni fa la via dell’esilio, compresi quindi i deportati, a causa del “golpe fascista contro la legalità repubblicana nel luglio 1936”. La verità storica fa male sotto tutti i cieli d’Europa.
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Con gli antifranchisti anche un ex primo ministro
La lista degli spagnoli che passarono attraverso lo Stalag XIB prima di essere mandati al campo di concentramento di Mauthausen - documento ufficiale del Comando del campo, ora in possesso dell’“Amicale nationale des déportés et familles de disparus de Mauthausen et ses commandos” di Parigi - comprende 10.350 nominativi, di cui specifica: data d’arrivo, nome, cognome, data e luogo di nascita, occupazione, nazionalità e numero assegnato ad ogni internato tra il 6 agosto 1940 ed il 20 dicembre 1941. Detta lista non è risultata completa, infatti altre fonti stimano che gli internati di nazionalità spagnola furono tra dodici e quindicimila, per cui - tenuto conto dei 2.398 sopravvissuti - i decessi oscillerebbero tra l’80 e l’84%. La personalità spagnola di maggior prestigio che conobbe l’inumana esperienza dei campi di internamento nazisti fu l’ex Primo ministro Francisco Largo Caballero, che arrestato in Francia nel 1943 fu internato a Orianemburg (matr. n. 69040). Riuscito a sopravvivere morirà a Parigi nel 1946.
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Memoriali e testimoni dalla Resistenza alla deportazione
Attingendo, seppur parzialmente, alla ricca bibliografia che ripercorre la tragica esperienza dei campi di sterminio, troviamo scrittori che trattano la deportazione degli spagnoli nel più ampio studio sull’esilio dei repubblicani alla fine della guerra civile, altri che riferiscono le esperienze di internati spagnoli superstiti. Dai memoriali di ex deportati italiani conosciamo infine episodi della permanenza degli spagnoli ed il loro atteggiamento nei riguardi dei nostri compatrioti. In ultimo le testimonianze orali. Gianfranco Maris ricorda la diffidenza ed il disprezzo con cui gli italiani furono accolti dagli spagnoli, ormai inseriti nella struttura concentrazionaria, atteggiamento che cambiò quando giunse Giuliano Pajetta, ex combattente della guerra di Spagna, il quale spiegò loro che anche gli italiani erano antifascisti e perseguitati. Raffaele Maruffi si ricorda di uno spagnolo del Soccorso rosso che lo aiutò, anche se - precisa - non era comunista, portandogli dei piccoli preziosi pezzi di pane mentre era in infermeria e del Kapò chiamato Negus (altrimenti conosciuto come il Negro) che non infierì mai su di lui, tanto che tuttora gli spiace di non aver saputo del suo arresto e del processo a Norimberga, in cui avrebbe voluto testimoniare a suo favore.
Bibliografia
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Da Triangolo Rosso, gennaio 2000