Triangolo rosso

Il ricordo dell’ex deportato Gianfranco Araldi

Sopravvissuti per caso nel tunnel delle V2

Nel rifugio già pronto per l’esplosione si precipitarono i civili per sfuggire ad un bombardamento della città vicina - E così anche gli italiani si salvarono - Trasferiti su carri bestiame verso Belsen, dove arrivarono però le truppe inglesi - Fame, angherie, torture, fucilazioni per i soldati che avevano rifiutato di collaborare con i tedeschi – Il ricordo dell’ex deportato Gianfranco Araldi

 

Noi giovani militari fummo internati al Dora contro ogni accordo internazionale sulla tutela dei prigionieri di guerra. Fin dall’inizio eravamo destinati a morire, dopo aver lavorato in condizioni disumane nel campo di lavoro forzato, impegnato nella costruzione delle armi segrete V1 e V2, con cui Hitler contava di vincere la guerra. Quando invece si delineò con chiarezza la sconfitta della Germania, i comandanti del lager pensarono di eliminarci tutti all’interno del tunnel che serviva per la fabbricazione delle armi segrete. Avevano già minato gli ingressi, ma un bombardamento sulla città di Nordhausen fece confluire, proprio nel tunnel, l’intera popolazione civile. E noi fummo salvi. Allora le SS ci caricarono su vagoni bestiame, 110 su ogni carro, con una razione costituita da un pezzo di pane e una fetta di carne in scatola, e ci inviarono ai confini della Danimarca, per farci “sparire” in un altro campo. Ma per come stavano volgendo le vicende belliche, nessun lager si prese la responsabilità di questo sterminio. E noi continuammo a vagare a nord della Germania, su un treno che nessuno voleva. Non ci davano da mangiare, già i prigionieri erano stremati dai patimenti, per cui i morti all’interno dei vagoni aumentavano di giorno in giorno. Noi sopravvissuti aspettavamo il nostro turno. Ma la speranza ci ha sempre sorretto e l’attaccamento alla vita non ci ha mai abbandonato. Dopo tre giorni arrivammo alla stazione di Bergen, con destinazione il campo di sterminio di Belsen, distante circa tre chilometri. Ci misero in colonna e camminammo lungo un viale alberato, scortati da militari tedeschi con i cani. Chi, sfinito, non ce la faceva a tenere il passo, veniva freddato con un colpo di pistola alla tempia da un sottufficiale e abbandonato ai lati della strada. Arrivati a Belsen, siamo stati liberati dalle truppe inglesi. Proprio a Belsen abbiamo saputo che un medico delle SS aveva comunicato che per noi era stato preparato un vagone di pane avvelenato per eliminarci tutti. Furono 302 i nostri compagni che non riuscirono a farcela. Chi per la fame, chi per le malattie, chi per le torture, chi per le esecuzioni capitali. E i loro corpi non ricevettero nemmeno una degna sepoltura: accatastati con le ruspe e caricati sui camion, scomparvero nei forni crematori. Unico documento sulla loro sorte rimangono i cartellini di identità che avevamo al campo e che riuscimmo a sottrarre alle salme, impedendone la distruzione da parte delle SS. Io li conservo tuttora. Fra i compagni meno fortunati vi furono sette alpini, fucilati con l’accusa di sabotaggio. La verità è che quei ragazzi, dovendo sostenere un turno di lavoro particolarmente pesante, avevano diritto ad una razione supplementare di zuppa, che però non ricevevano mai: quel misero cibo veniva venduto al mercato nero. Allora protestarono, dichiarando che in mancanza del supplemento avrebbero chiesto un altro turno di lavoro. Da qui la condanna per sabotaggio. L’esecuzione avvenne alla presenza di tutti i militari italiani: sei alpini furono fucilati in piedi, il settimo - che non si reggeva - fu assassinato con un colpo di pistola alla tempia mentre era sdraiato a terra. È proprio a questo tipo di sacrificio che vogliamo oggi rendere il dovuto onore. E la presenza ufficiale dell’esercito italiano alla nostra celebrazione ha questo significato. Erano militari di leva senza nessuna colpa, se non quella di essere rimasti fedeli alla loro patria, nonostante la deportazione: se avessero collaborato con le SS, si sarebbero salvati.

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KZ Dora: oltre 300 morirono per non collaborare

 

La storia dei 302 militari italiani “uccisi dalle torture, dal lavoro forzato e dalle malattie” nel campo di sterminio di Dora, è parte di quella dei 650.000 soldati catturati dai tedeschi, “che rifiutarono nella stragrande maggioranza, l’adesione al nazifascismo”. Lo ha ricordato il presidente della Camera, Luciano Violante, nel suo messaggio in occasione della cerimonia commemorativa di Salsomaggiore Terme. Di analogo tenore l’omaggio del ministro della Difesa Carlo Scognamiglio “ai caduti del KZ Dora e in tutti i lager ai quali” ha aggiunto “rinnoviamo la nostra gratitudine per una testimonianza di grande valore morale che costituisce un alto riferimento per la coscienza di ogni cittadino”. Dopo il discorso del sindaco di Salsomaggiore, prof. Adriano Grolli (“la città è onorata - ha detto tra l’altro - di ospitare da anni la commemorazione”), hanno parlato un sopravvissuto del lager, Gianfranco Araldi, e la figlia Lucia. Insegnante di scuola media, Lucia Araldi si è soffermata sull’interesse che - come dimostra la sua esperienza – suscitano le testimonianze degli ex deportati: “Anche i ragazzi apparentemente più insensibili restano senza parole – ha detto - ad ascoltare per ore i loro racconti”.

Da Triangolo Rosso, gennaio 2000

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