Triangolo rosso
Condannato all’ergastolo il boia di piazzale Loreto
Dopo Saevecke è tempo di colpire gli altri assassini rimasti impuniti
Theodor Saevecke, l’ottantottenne ex comandante della Gestapo di Milano, che ordinò il 10 agosto 1944 la fucilazione in piazzale Loreto di quindici prigionieri italiani, detenuti nel carcere di San Vittore, è stato condannato all’ergastolo.
Gli articoli sono di Franco Giannantoni
La sentenza emessa il 9 giugno scorso dal Tribunale militare di Torino, al termine di un processo durato circa un anno, ha accolto la richiesta del procuratore militare Gian Paolo Rivello. L’avvocato Gianfranco Maris ha rappresentato quale parte civile i familiari delle vittime, la Provincia di Milano, il Comune di Sesto San Giovanni e l’Anpi. Il Comune di Milano era rappresentato dall’avvocato Antonello Mandarano. A Theodor Saevecke, giudicato in contumacia (l’imputato, che vive a Bad Roithenfeld, in Germania, aveva inviato ai giudici una lettera nel dicembre del ‘96 nella quale disconosceva la competenza della magistratura militare italiana), il Tribunale ha riconosciuto le attenuanti generiche “subvalenti” alle aggravanti della premeditazione e della crudeltà. In virtù di questo meccanismo è scattato il carcere a vita. In caso contrario l’esito sarebbe stata la prescrizione. Theodor Saevecke, nato ad Amburgo il 22 marzo 1911, doveva rispondere del reato di “violenza con omicidio in danno di cittadini italiani” (articoli 13 e 185 del Codice penale militare di guerra in relazione agli articoli 575 e 577 del Codice penale) “per aver cagionato - come è scritto nella richiesta di rinvio a giudizio del Procuratore militare - quale capitano delle Forze armate tedesche, nemiche dello Stato italiano, la morte di Andrea Esposito, Domenico Fiorano, Umberto Fogagnolo, Giulio Casiraghi, Salvatore Principato, Eraldo Soncini, Renzo Del Riccio, Libero Temolo, Vitale Vertemati, Vittorio Gasparini, Andrea Ragni, Giovanni Galimberti, Egidio Mastrodomenico, Antonio Bravin, Giovanni Angelo Poletti, tutti detenuti nel reparto carcerario di San Vittore, inserendo i loro nominativi nella lista dei soggetti da fucilare, disponendone il prelevamento dal predetto reparto ed ordinandone poi la fucilazione, eseguita alle ore 6 del 10 agosto 1944 in piazzale Loreto, durante lo stato di guerra tra l’Italia e la Germania”. Sempre secondo la richiesta di rinvio a giudizio “la premeditata esecuzione di tali soggetti, che non prendevano parte alle operazioni belliche, si caratterizzava per la crudeltà del suo svolgimento, successivamente al quale veniva ordinato che i corpi dei giustiziati rimanessero esposti nella piazza per l’intera giornata. La fucilazione rappresentava la rappresaglia conseguente all’esplosione, dovuta ad un attacco dinamitardo, di un autocarro tedesco posteggiato in Milano in viale Abruzzi, l’8 agosto 1944. Poiché detta esplosione non cagionò il ferimento di alcun militare tedesco, bensì la morte di numerosi passanti, civili italiani, l’ordine di fucilazione non rappresentò l’adempimento delle direttive emanate dal maresciallo Kesselring ed in base alle quali per ogni tedesco ucciso dai partigiani dovevano essere giustiziati dieci italiani”. Un potente gerarca del Terzo Reich. Comandante dell’Aussenkommando di Milano, il commissariato della Gestapo, spietato “governatore” di San Vittore e dell’Hotel Regina, l’SS-Hauptsturmfuehrer Theodor Emil Saevecke aveva 32 anni quando arrivò per la prima volta nel cuore della Lombardia, culla della Resistenza. In diciannove mesi e diciassette giorni, dal settembre del ‘43 all’aprile del ‘45, tanto durò il suo regno di tremendo aguzzino, Milano visse una stagione di terrore e di sangue. Ex dirigente della Schilljugend di Rossbach, commissario della polizia criminale di Berlino, con le SS in Polonia, Libia ed in Tunisia prima che il colonnello Walter Rauff lo trasferisse in Italia, Theo Saevecke, classe 1911, è ora un tranquillo signore di 88 anni che vive a Bad Roithenfeld in Bassa Sassonia, pensionato dal 1971 dopo aver prestato i propri servigi alla Cia (1948) e aver percorso una brillante carriera nella polizia di Bonn. Strappato al suo quieto vivere, ricacciato con il peso dei suoi crimini in un passato che non aveva mai rimosso, davanti all’accusa dell’eccidio di piazzale Loreto, aveva reagito infastidito: “E’ una montatura, quel magistrato italiano non ha alcun diritto di frugare nelle pieghe della mia vita. Sono già stato assolto molti anni fa dai tribunali inglesi e tedeschi. E poi rispetto ad altri sono un uomo piccolo così”. Theo Saevecke è stato tutt’altro che una rotellina nel micidiale ingranaggio nazista e, una volta smascherato, aveva goduto di forti protezioni: il governo tedesco negli anni sessanta aveva aperto un’inchiesta contro di lui ma l’aveva poi chiusa senza conseguenze. Era il 15 marzo 1963 quando il consigliere di Stato Gerhard Wiedemann fu inviato in Italia per cercare di far chiarezza sullo scandalo che aveva spazzato la Germania come un uragano. Si trattò di un’istruttoria ricca di testimonianze che erano state qualche anno prima già raccolte da Giovanni Melodia, segretario generale dell’Aned, nella faticosa opera di ricostruzione della dolente memoria storica dei sopravvissuti. Una foto, ritrovata in modo fortunoso dal Comitato combattenti antifascisti di Berlino ed inviata a Milano per il riscontro, aveva contribuito a togliere ogni dubbio. Saevecke era emerso a tutto tondo dai ricordi delle vittime come un criminale che, direttamente o indirettamente, aveva coordinato ogni repressione a cominciare dalla strage di Meina sul lago Maggiore del 22 settembre 1943, quando 54 ebrei vennero massacrati da appartenenti alla Divisione corazzata “Adolf Hitler”. Saevecke aveva potuto contare su una rilevante struttura poliziesca: venti ufficiali, sessanta sottufficiali fra cui il sergente Walter Gradsack, detto “il macellaio”, il maresciallo capo Helmuth Klemm, il caporal maggiore Franz Staltmayer noto come “il porcaro”, venti soldati oltre ad un nutrito numero di militi italiani addetti alla sorveglianza. Il modello dell’AK Mailand era simile a quello di Berlino: punti di forza, l’Ufficio III (SD) per la repressione partigiana ed operaia e l’Ufficio IV con la sezione B4 per la caccia agli ebrei gestita dal maresciallo Otto Kock (da non confondere con Pietro Koch, il massacratore italiano di Villa Triste). Saevecke non si era limitato a impartire ordini, spesso aveva preso parte ai pestaggi e alle torture. Le carte del processo propongono scenari agghiaccianti, l’elenco dei martiri è lunghissimo, da Poldo Gasparotto (caduto poi a Fossoli) a Vittorio Bardini, combattente di Spagna; da Manfredo Dal Pozzo ad Antonio De Bortoli; dai gappista Alfonso Cuffaro e Alfonso Montuoro a don Achille Bolis; da Antonio La Fratta ad Erich Wacthtor; da Salomone Rath, sbranato da una cane durante un interrogatorio, a Tullio Colombo e Carlo Mallowan uccisi a bruciapelo, a Egisto Rubini, a molti altri ancora. Basti il ricordo di Aldo Ravelli, agente di borsa, fermato il 23 dicembre 1943 per favoreggiamento degli ebrei, selvaggiamente percosso a San Vittore, poi trasferito nei campi di Bolzano-Gries, Mauthausen, Gusen. “Tutti i giorni - aveva rivelato Ravelli all’inviato di Bonn Gerhard Wiedemann - c’erano dei prigionieri massacrati di botte da parte dei marescialli dell’Hotel Regina. Klemm e Staltmayer mantenevano l’ordine con il terrore. Le bastonature erano così frequenti che per noi era una novità quando non c’erano dei massacri”. Ai sabotaggi e alle azioni partigiane aveva risposto il Comando SS con una serie di stragi in un luglio di sangue: il 15 tre fucilati a Greco, il 20 altri tre a Corbetta, il 21 cinque fucilati e cinquantotto deportati a ribecco sul Naviglio, il 31 sei fucilati al Forlanini. Ma perché il 10 agosto la carneficina di piazzale Loreto se nell’esplosione del camion della Wermacht in viale Abruzzi due giorni prima non c’erano state vittime tedesche? Perché l’ordine alla Gnr e alla “Muti” di fornire un plotone d’esecuzione per quel gruppo di antifascisti innocenti? La risposta era nella paura: se da una parte i tedeschi temevano assai vicina l’insurrezione, i fascisti vedevano i gappisti di Giovanni Pesce in ogni strada. Piazzale Loreto con i quindici caduti strappati da San Vittore, Greco, Robecco e Forlanini, era stata la tappa di un piano preciso. “All’escalation del clima insurrezionale - scrive Luigi Borgomaneri nel suo esemplare Hitler a Milano – deve corrispondere l’escalation del terrore prima che l’aggressività partigiana dia fuoco alle polveri della combattività operaia. Non a caso nell’arco di poco più di tre settimane si comincia con tre fucilati, poi si passa a sei ed infine a quindici”. Una strategia che non avrebbe retto alla verifica del campo. La guerriglia partigiana, infatti, pur segnata da perdite dolorose, alla fine si sarebbe imposta. Mussolini, del resto, informato dell’eccidio di Milano, pare abbia commentato a caldo: “Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo molto caro”.
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Il procuratore militare Rivello
“La Gnr e la Muti sgherri dei tedeschi.” Fu eccidio, non rappresaglia
Due i piloni su cui il procuratore militare della Repubblica di Torino Pier Paolo Rivello ha poggiato la sua richiesta di condanna a vita per Theodor Saevecke: le dettagliate affermazioni dei sopravvissuti, oltre alle numerose testimonianze raccolte subito dopo la Liberazione dall’Ufficio investigativo alleato che hanno descritto il clima di terrore e le torture che accompagnavano gli interrogatori e la vasta documentazione che ha dimostrato come nella tragica operazione “vi sia stato un totale scavalcamento delle autorità fasciste italiane (...) ed una ideazione e preparazione provenienti direttamente dall’Ausennkommando di Milano”.
Questo in sintesi il percorso della requisitoria
Primo L’eccidio di piazzale Loreto non fu una rappresaglia perché l’esplosione di viale Abruzzi dell’10 agosto 1944 non fece vittime fra i militari del Reich. L’istituto della rappresaglia, ha ricordato il Pm, secondo la costante dottrina internazionalista, si fonda sull’attribuzione allo stato, vittima di un illecito, della possibilità di aggredire gli interessi dello Stato autore dell’illecito internazionale. Occorrono poi criteri di proporzionalità e di rispetto dei valori umani, condizioni carenti nell’eccidio del 10 agosto.
Secondo L’eccidio non costituì una “repressione collettiva” come è disciplinato dalla Convenzione dell’Aja del 1907. Detta norma si inserisce all’interno di una serie di prescrizioni che disciplinano misure di natura meramente patrimoniale. Deve dunque ritenersi che la sanzione collettiva non possa colpire persone fisiche e tanto meno provocarne la morte.
Terzo Saevecke è responsabile di “violenza con omicidio plurimo” come previsto dal codice penale militare di guerra, avendo provocato la morte di cittadini italiani “che non hanno preso parte ad operazioni militari”.
Quarto Le circostanze attenuanti generiche sono inapplicabili e, nell’eventualità di un riconoscimento delle stesse, non si possono ritenere prevalenti o equivalenti alle aggravanti. Il numero delle vittime (15) e le modalità dell’evento lo escludono. Ma non basta tener conto della gravità del delitto: occorre valutare la capacità a delinquere che assume livelli elevatissimi se si fa riferimento all’epoca dei fatti, all’uso della tortura ed attualmente, “alle frasi minacciose contro il Pubblico ministero inquirente contenute nel memoriale difensivo dell’imputato”. Un indubbio rilievo hanno avuto inoltre le affermazioni dell’imputato secondo cui durante la repressione antipartigiana non sarebbe stato compiuto tutto quanto era possibile fare, il che dimostra “l’assoluta mancanza di una rimeditazione in chiave autocritica del passato”. Si trattò di un eccidio e non di una rappresaglia. Infatti nell’attentato dell’8 agosto ’44 ad un autocarro della Wermacht, non ci furono vittime fra i soldati del Reich -. Le attenuanti generiche concesse all’imputato sono state dichiarate “subvalenti” rispetto alle aggravanti della crudeltà e della premeditazione.
Quinto Il reato non è prescritto dal momento che per la sussistenza della crudeltà e della premeditazione, la pena prevista dalla legge è quella dell’ergastolo. “Affinché l’istituto della prescrizione risponda alle ragioni di opportunità politica - ha ricordato il Pm Rivello - è necessario che si sia quasi perduta la memoria del fatto criminoso o che l’allarme sociale da esso suscitato, sia scomparso.” Ciò non è accaduto, tanto che “il ricordo di piazzale Loreto è destinato a rimanere imperituro presso tutto il popolo italiano”
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L’avvocato Gianfranco Maris, parte civile
“Una sentenza che aiuta a capire la storia”
“Un paese non è civile se non ha tra i principi fondamentali che regolano la sua convivenza l’obbligatorietà dell’azione penale perché i delitti siano sempre puniti, in ogni tempo ed in ogni luogo”. Con queste parole l’avvocato Gianfranco Maris, parte civile per i familiari dei caduti in piazzale Loreto, per la Provincia di Milano e per l’Anpi, ha iniziato il proprio intervento al Convegno sulla sentenza contro Theodor Saevecke svoltosi a Milano il 24 giugno nel salone di via Mascagni, presenti il procuratore militare Pier Paolo Rivello, il professor Luigi Borgomaneri, consulente storico del Pm, Sergio Fogagnolo per i familiari dei quindici martiri, l’avvocato Antonello Mandarano, parte civile per il Comune di Milano e il presidente dell’Anpi lombarda Tino Casali. Un principio, quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non è stato sempre rispettato. Ha detto infatti Maris: “Ora sappiamo per il rapporto che il Consiglio della magistratura militare ha pubblicato di recente che tremila faldoni che contenevano le notizie dei delitti commessi durante l’occupazione nazista in Italia sono stati occultati nell’archivio del Tribunale supremo militare di Roma in un grande armadio con le ante rivolte verso il muro. (ndr: la scoperta è avvenuta nel 1994 e alcuni fascicoli sono già stati affidati per lo svolgimento dei processi alle Procure militari competenti per territorio.) Su ogni faldone c’era la scritta ‘archiviazione provvisoria’, un istituto giuridico inesistente. Queste archiviazioni sono state operate nel periodo dell’immediato dopoguerra sicuramente con il concerto tra il procuratore generale presso il Tribunale supremo militare ed i vari ministri della Giustizia e della Difesa. Una vera e propria crisi etica di istituzioni che hanno subordinato il loro dovere alle loro valutazioni politiche, gestendo in prima persona e direttamente la ‘politica’, non di loro competenza, per favorire la ricostruzione ed i rapporti di mercato tra i vari paesi d’Europa nel timore che la celebrazione dei processi potesse compromettere i rapporti economici tra ‘vincitori e vinti’ di un tempo”. Una crisi etica non superata. Maris ha speso parole amarissime per il silenzio dei mass media in occasione del processo a Saevecke: “Informazione poca e scarna. Persino ‘l’Unità’ e lo dico perché è l’assenza che più mi dilania, non ha scritto del processo e della sua conclusione. Spetterà a noi, con le nostre scarne forze, sopperire a questa omissione”. Una sentenza quella contro Theodor Saevecke che se fosse stata emessa nel 1946 avrebbe avuto un altro valore. Ma non sarebbe stata, come è stata quella del giugno 1999, portatrice di nuovi valori ed informazioni. Maris li ha definiti “valori addizionali”, un itinerario nuovo per la ricerca storica. Il primo è che nel ’44 la Patria non era morta al punto che “tanti uomini e tante donne sentirono il bisogno, proprio in quel momento, di assumersi impegni di lotta che implicavano il pericolo della vita stessa”. La sentenza di Torino giunge dunque puntuale a smentire coloro che in questa inaccettabile e pericolosa stagione del revisionismo hanno parlato e parlano dell’8 settembre del ‘43 come della tomba della nazione, delle memorie divise, di perdita dell’identità del popolo italiano. “Sui corpi straziati dei fucilati di piazzale Loreto - ha aggiunto Maris - furono trovate fotografie di figli e di mogli, come per gli impiccati di Bassano del Grappa e per gli assassinati della Benedicta, su cui, con grafia spezzata, questi martiri, prima di morire, scrissero Viva l’Italia. Dopo l’8 settembre, ci dicono queste scritte, la Patria, distrutta per lo scempio retorico che il fascismo ne aveva fatto, degradandola a strumento di mobilitazione, per mandare i giovani a rapinare lontano, era rinata. E questo è già un valore nuovo che oggi può esprimere una sentenza che esamina quei fatti lontani”. Altro chiarimento: piazzale Loreto fu un tragico eccidio e non una rappresaglia. Lo dirà in modo articolato la motivazione della sentenza fra qualche mese. “La rappresaglia - ha sostenuto Maris - non esiste, non è un diritto perché uno Stato che ne occupa un altro, non può ucciderne i cittadini per incutere quel terrore diffuso che induce all’obbedienza servile. Chi sostiene il contrario distorce la verità”. Infine una riflessione che cancella alla radice la disinvolta interpretazione che diede ad esempio Renzo de Felice, dei fascisti “patrioti” né più né meno come i partigiani nel preservare l’Italia da più feroci azioni tedesche. “In questo processo - ha commentato Maris - è emerso che gli armati in camicia nera, la ‘Muti’ e la Gnr, erano strutture alle dipendenze dei tedeschi. Il plotone di esecuzione formato da militi italiani era stato convocato per ordine di Saevecke. La sentenza è esemplare: la Repubblica sociale italiana è stata solo una struttura di mascheramento e di supporto dell’occupazione tedesca, se è vero com’è vero, che le sue milizie politiche armate erano direttamente sottoposte agli ordini dell’Aussenkommando delle città occupate”. L’avvocato Maris ha infine segnalato che, sempre al Tribunale militare di Torino, il 23 maggio, ha avuto inizio (Pubblico ministero il dottor Rivello) il processo per una delle più spietate stragi tedesche in Italia, quella del colle della Benedicta dove furono fucilati 75 giovani inermi. Il responsabile è il tenente colonnello Siegfried Engel, capo della Gestapo di Genova. L’omologo di Saevecke. Come il suo camerata, vive tranquillo in una cittadina tedesca.
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L’annotazione sul registro-matricola di S. Vittore
“Trasferiti per Bergamo” Ma andavano alla morte
Il colonnello Giovanni Pollini, comandante provinciale della Gnr di Milano, aveva ricevuto la sera del 9 agosto 1944 l’ordine del comando tedesco di mettere a disposizione per il giorno successivo un plotone di militi della Rsi da utilizzare per la fucilazione di quindici ostaggi “in base al recente bando del maresciallo Kesselring”. Il bando prevedeva l’esecuzione di dieci ostaggi per ogni vittima tedesca. Ma nell’attentato all’autocarro della Wermacht alle 8.15 dell’8 agosto 1944 in viale Abruzzi, spunto per la carneficina di piazzale Loreto, non era deceduto nessun tedesco: i sei morti ed i dieci feriti erano stati tutti italiani. Che senso allora aveva richiamare l’ordine di Kesselring e per quale ragione il capitano Theodor Saevecke si era rivolto al colonnello Walter Rauff, responsabile della Sipo-SD dell’Italia nord-occidentale perché strappasse al generale Willy Tensfeld, comandante generale delle SS, l’autorizzazione per una feroce repressione? Apparentemente nessuno. Ma fra i tedeschi aleggiava in quei giorni il terrore di una prossima insurrezione popolare ed occorreva replicare con un’ulteriore escalation di segno terroristico dopo le precedenti fucilazioni di Greco, Robecco e del campo Forlanini. Ai fascisti a quel punto non era restato che ubbidire, interpretando il ruolo di freddi esecutori, vincolati com’erano, a loro volta, da una circolare del comandante generale della Gnr Renato Ricci che imponeva, se fosse stata richiesta, la collaborazione coi comandi germanici di piazza “per gli impieghi di polizia militare”. A nulla era servito il preoccupato attivismo del capo della Provincia Piero Parini, il quale aveva tentato invano di mettersi in contatto con i comandanti tedeschi nel tentativo di impedire l’eccidio e, nello stesso tempo, di salvare gli ultimi brandelli di credibilità della vacillante sovranità repubblichina. Tutti si negarono, Saevecke compreso. Era fallito anche il tentativo, sempre di Parini, di inviare in nottata il comandante Pollini dal colonnello Kolberck, responsabile militare della piazza di Milano, “per fargli presente che le vittime di viale Abruzzi erano tutte italiane e che se rappresaglia si fosse fatta anche le autorità italiane dovevano esprimere il loro avviso”. Alle 5 del mattino del 10 agosto Pollini aveva informato il capo della Provincia che Kolberck non si era fatto trovare. Più o meno negli stessi momenti i quindici morituri stavano per lasciare San Vittore. Nel “Pro memoria per il Duce” Parini aveva riferito che gli ostaggi erano stati svegliati alle 4.30 ed in cortile avevano consegnato a ciascuno una tuta per dar loro l’illusione della partenza per il lavoro in Germania. Sul registro del carcere era apparso annotato: “Trasferiti per Bergamo”. Dal diario di Ottavio Rapetti, un giovane di 21 anni detenuto a San Vittore, si era saputo che Vitale Vertemati era apparso conscio della prossima fine: “Entra la guardia con un milite e chiama la matricola 2742- scrive Rapetti - È la matricola Vitale. Si alza mortalmente pallido, ci guardiamo negli occhi. Ha capito. Vedo che ha molto coraggio. Ci abbracciamo e dice di salutare sua madre”. I quindici prigionieri (il criterio della loro scelta, a parte la comune matrice politica, resterà ignoto, anche se in un primo momento era stato stilato e comunicato con manifesti murali e con i giornali un elenco di ventisei persone da eliminare, fra cui anche una donna di 50 anni) arrivarono in piazzale Loreto alle 5.45 dove ad attenderli c’erano un ufficiale tedesco con quattro soldati. Il colonnello Pollini assistette alla disordinata esecuzione dei quindici martiri disposti a semicerchio, affidata ad un plotone misto della Gnr e della Legione autonoma “Ettore Muti”. Ci fu chi come Eraldo Soncini, un milanese di 43 anni, tentò una disperata fuga ma venne raggiunto dai colpi dei fascisti in una casa vicino alla chiesa di via Palestrina. Per ordine tedesco i corpi rimasero sul terreno, esposti fino al pomeriggio inoltrato. Scrisse il capo della Provincia Parini per il duce: “Cominciarono a transitare per piazzale Loreto gli operai che si recavano al lavoro e tutti si fermavano ad osservare il mucchio dei cadaveri che era raccapricciante oltre ogni dire perché i cadaveri erano in tutte le posizioni, cosparsi di terribili ferite e di sangue. Avvenivano scene di spavento da parte di donne svenute e in tutti era evidente lo sdegno e l’orrore”. Uno spettacolo tremendo che avrebbe dovuto servir da monito, piegare la Milano antifascista.
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In memoria dei fucilati
Una poesia di Alfonso Gatto
Alfonso Gatto dedicò ai fucilati una breve poesia, edita poco dopo clandestinamente, intitolata:
“Per i compagni fucilati in piazzale Loreto”.
Ed era l’alba, poi tutto fu fermo
La città, il cielo, il fiato del giorno.
Restarono i carnefici soltanto
Vivi davanti ai morti.
Era silenzio l’urlo del mattino,
Silenzio il cielo ferito:
Un silenzio di case, di Milano.
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Il messaggio di Boldrini
Dopo la sentenza di condanna di Saevecke, un caloroso messaggio è stato inviato dal presidente nazionale dell’Anpi, Arrigo Boldrini, al presidente dell’Aned Gianfranco Maris.
“A nome del Comitato nazionale e mio personale, desidero ringraziarti vivamente per il grande contributo “scrive Boldrini” quale patrono di parte civile dell’Anpi e dei familiari dei Caduti, a determinare la sentenza di condanna all’ergastolo di Theodor Emil Saevecke, colpevole di aver ordinato l’esecuzione di 15 partigiani in piazzale Loreto a Milano. La sentenza del Tribunale militare è di grande valore morale e civile. Essa, infatti, come tu hai sottolineato nell’aula del Tribunale, afferma ‘una linea di condotta etica’ che gli uomini devono avere in qualsiasi situazione di vita, in guerra come in pace, nel proprio Paese, come in qualsiasi altro Paese”. “Siamo grati della tua sensibilità e lieti per il successo ottenuto”.
Da Triangolo Rosso, ottobre 1999