Triangolo rosso
La testimonianza di Gigi Mazzullo sugli ultimi giorni di attività del campo
“All’inferno di Dachau ho conosciuto un angelo”
La generosità del giovane ebreo romano che arrivò a dividere la sua zuppa con il compagno ormai allo stremo
di Luigi Mazzullo
Erano gli ultimi tempi, prima della liberazione di Dachau. Il Blocco 23 era ricolmo di deportati ormai “inservibili”: nessuno veniva impiegato per un qualsiasi lavoro all’interno od all’esterno del campo. Era un Blocco considerato quasi un “Revier”, chiuso in se stesso, dove morivano moltissimi ogni giorno di sfinimento o per il tifo. I cadaveri venivano ammucchiati di fronte alla quarta “stube”, sul retro del Blocco 21. Le giornate trascorrevano in un oblio interminabile: la solita fame, il solito freddo, le solite “conte” e le solite percosse dei capi-blocco, spesso senza nessuna ragione, e... la solita brodaglia, una volta al giorno. Veramente, per molti di noi, i morsi della fame non si avvertivano più, come se ci fossimo abituati al digiuno. Anche le zuffe per leccare i rimasugli di zuppa, al fondo dei bidoni, non avvenivano più. La distribuzione della cosiddetta “minestra”, fatta di rape secche e da altri ingredienti non identificabili, in una brodaglia giallastra avveniva solo per coloro che ancora potevano andare a ritirarla, assieme alla fetta di pane nero (ogni giorno più sottile). Io, sempre più spesso, non riuscivo ad alzarmi dalla cuccetta del secondo ripiano del “castello”, proprio in fondo alla quarta stube. In quel periodo, erano tanti i moribondi che le SS, bontà loro, non ci obbligavano a restare tutto il giorno all’aperto, fuori dalla baracca, come invece era sempre avvenuto. Tempo prima dividevo il giaciglio con due compagni russi che però morirono, prima l’uno e poi l’altro durante la notte. Ricordo che il primo venne rimosso da alcuni compagni e portato fuori al solito posto, mentre quando morì il secondo me lo lasciarono lì accanto per quasi due giorni. Successivamente prese posto accanto a me un giovane italiano di Roma, non solo perché s’era fatto spazio ma anche perché nella stube (come del resto in tutto il Blocco 23) c’erano pochissimi italiani, forse due o tre. Questo ragazzo, dopo un paio di giorni senza dire una parola, cominciò a parlarmi spinto forse da un estremo bisogno di comunicare ed esprimere tutta la sua angoscia interiore. Così mi disse che era ebreo e che si chiamava Piperno di cognome e che abitava a Roma, nel ghetto, con la sua famiglia. Mi disse che era stato portato a Dachau da Auschwitz, dove avevano eliminato entrambi i genitori ed una zia. Simpatizzammo subito, forse perché aveva intuito che il suo racconto mi aveva commosso e rattristato. Ricordo che, con le lacrime agli occhi, ci abbracciammo istintivamente, come fratelli. Quel ragazzo, penso, non avrà avuto più di sedici-diciassette anni ed era malconcio come la maggior parte di noi, ma vedendo il mio stato di estrema debolezza che, spesso, non mi permetteva di scendere per mettermi in fila per la distribuzione del rancio od anche solo per andare ai “bagni”, cercò d’aiutarmi in ogni modo. Quando constatò che neppure col suo aiuto potevo alzarmi per andare a prendere la mia razione di “minestra” lui, uno sconosciuto, decise di aiutarmi al massimo. Sarei rimasto senza la possibilità di alimentarmi, anche perché a nessuno era consentito ritirare razioni altrui. Così Piperno (non ricordo assolutamente il suo nome) mosso da pietà umana s’impose e m’impose una soluzione incredibile: della sua razione m’imboccava la parte “solida” ed egli si accontentava della brodaglia. Così, e solo così, riuscii a sopravvivere fino al giorno, non lontano, della liberazione, mentre lui, proprio pochi giorni prima, ebbe un ben diverso e triste destino. Quest’angelo custode, questo ragazzo ebreo, fu fatto affluire nell’Appelplatz assieme alla maggioranza degli ebrei, dei russi e degli ex nazisti tedeschi ancora presenti nel Lager e fatti partire sotto scorta in piena notte per un destino senza ritorno. Così, l’amico Piperno fu inghiottito nella notte.
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“Si, forse sono io quel ragazzo ebreo”
Mario Piperno, deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia dopo la razzia del ghetto di Roma del 16 ottobre, vive ancora nella capitale e ricorda quei giorni Sorpresa: ha 82 anni e vive ancora a Roma quell’ “angelo” di Dachau
D. V.
“Sì posso essere io quel ragazzo di cui parla Gigi Mazzullo”. Dall’altro capo del filo la voce arriva velata ma forte. È la voce di un uomo anziano: Mario Piperno, “romano de’ Roma”, oggi 82enne, era a Dachau negli ultimi giorni della guerra, dopo essere stato ad Auschwitz e in diversi altri campi nazisti. Nei Lager ha lasciato larga parte della sua famiglia: i genitori, Mosé e Colomba, uccisi all’arrivo a Birkenau, dopo un viaggio di 5 giorni nei vagoni piombati da Roma, il 23 ottobre del 1943. E poi un fratello, una sorella, alcuni zii, cugini... Affetti falciati dalla furia nazista; un pezzo di storia familiare come purtroppo ce ne sono tante nella comunità ebraica romana, ancora segnata nel profondo dalla razzia del ghetto del 16 ottobre 1943. Italo Tibaldi, da noi interrogato, conferma che nella documentazione in possesso dell’Aned sugli ingressi nel campo di Dachau figurano solo due Piperno. Uno era francese. L’altro, Mario, romano, proveniente da Buchenwald, era certamente vivo al momento della liberazione del campo. Mario Piperno è dunque probabilmente quell’”angelo” che Mazzullo ricorda da oltre 50 anni come il ragazzo che gli salvò la vita, togliendosi letteralmente la zuppa di bocca negli ultimi giorni dell’aprile del ‘45. E proprio Angelo si chiamava suo fratello maggiore, anch’egli deportato con tutti gli altri, in quel convoglio che mosse dalla capitale il 18 ottobre. Sopravvissuto alla prima selezione, Angelo era certamente ancora vivo nel febbraio 1945. Dopo di allora, di lui si è persa ogni traccia; anche lui fu inghiottito dalla spaventosa macchina nazista dello sterminio. Mario Piperno non aveva 16 anni, contrariamente a quanto crede di ricordare il nostro Mazzullo. Nato a Roma il 6 giugno 1916, aveva dunque 27 anni quando fu preso il 16 ottobre con tutta la famiglia dai tedeschi e richiuso nel Collegio militare. Dopo appena 2 giorni, l’inizio dello spaventoso viaggio, che per centinaia di ebrei romani terminò 5 giorni dopo, il 23 ottobre, nelle camere a gas di Birkenau. Mario, giovane e forte, superò la selezione. E iniziò un lungo viaggio nel tunnel dei Lager nazisti, che lo portò in diversi campi, di volta in volta sospinto dagli aguzzini in estenuanti marce davanti all’avanzata degli eserciti alleati. Un calvario che lo condusse infine a Dachau. Dove giunse dopo quasi un anno e mezzo di tormenti, in condizioni fisiche tali da giustificare l’equivoco di Mazzullo circa la sua età. Ricorda di quel ragazzo italiano quasi morente che ancora oggi parla di un Piperno che gli diede parte della sua zuppa, salvandogli la vita a Dachau? “È possibile, cosa vuole, sono passati tanti anni. Mi è successo qualche volta. Erano le occasioni della vita. Non lo si faceva perché uno si chiamava Mazzullo, o Tizio, o Caio. Lo si faceva e basta. Si cercava di sostenersi l’uno con l’altro”. E lei lo ha fatto per altri deportati? “Sì, l’ho fatto. Erano situazioni... chi non ci è passato forse non può capire”. Gigi Mazzullo è convinto da allora che lei sia stato ucciso in quei giorni. Nella sua testimonianza dice che il suo “angelo custode” fu fermato con altri ebrei e russi sull’Appelplatz, e avviato “per un destino senza ritorno”. Lei ricorda la sua liberazione? “Sì è vero, ci hanno separato dagli altri. Ma vede, in quei giorni c’era un’enorme confusione, e forse neanche loro sapevano cosa fare di noi”. E a lei come andò, invece? “Cosa devo dire; ci fu un gran baccano, e a un certo punto vedemmo delle camionette degli Alleati. Fu così che anche per me arrivò la liberazione, lì a Dachau. Non ha una fotografia di questo Mazzullo?”. Potrei facilmente procurargliene una di questi anni. “No, io vorrei una foto di allora, per vedere se lo riconosco. Ma lo so, è difficile. In quei giorni eravamo tutti degli spettri. Chissà, magari se ci incontrassimo...” La telefonata con “l’angelo custode” di Dachau finisce qui. Chissà che Mario Piperno e Gigi Mazzullo non ci possano raccontare presto un seguito a sorpresa.
Da Triangolo Rosso, dicembre 1998