Triangolo rosso

Quei KZ di là del mare

L’iniziativa della Fondazione Ferramonti

Dopo 55 anni una lapide ricorda i crimini fascisti nel campo di Arbe

Nel Lager di Mussolini sull'isola croata furono rinchiusi 15.000 internati. Il regime di detenzione era così duro che vi furono circa 1.500 morti. Una pagina di storia rimossa, all'insegna del mito "Italiani brava gente".

 

di Teresa Grande

 

Il problema della memoria dei crimini che gravano sul passato di una Nazione implica la questione della scrittura della storia, ovvero di ciò che del passato fa storia e fonda, in senso ampio, gli orientamenti sociali e culturali del presente. La storia ufficiale e le idee dominanti che circolano, soprattutto attraverso i media, rispetto al passato di una Nazione ne strutturano una immagine che tende ad essere omologante e ad eleggere un “oggetto unico” di memoria che non corrisponde affatto alla somma algebrica delle singole memorie in questione (i diversi soggetti coinvolti e le tappe storiche che vi si riferiscono). I discorsi ufficiali sul passato sono pertanto verità parziali, spesso tentativi di autoglorificazione in cui è possibile riconoscere le idiosincrasie e le contraddizioni, i sintomi di verità ben più grandi e inquietanti, rimossi da una memoria illusoriamente portata a circoscrivere la barbarie nell’altro e ad evitarne l’integrazione nella nostra soggettività storica. La memoria di una Nazione si compone dunque di un “racconto” costituito da parti “scelte” del passato: alcuni eventi vengono esaltati, altri rimossi. Queste “parti scelte” non sono pertanto frutto del caso, ma sono strutturate e interpretate in modo tale da tracciare le grandi linee di quella che possiamo chiamare una “singolarità nazionale”, la delimitazione cioè dei confini di significato entro cui è possibile inscrivere il giudizio sul passato e su quanto ad esso è legato. In questa prospettiva, ad esempio, la specificità del fascismo italiano nella vicenda delle persecuzioni razziali durante la Seconda guerra mondiale non è stata definita, nel dopoguerra e negli anni successivi, sulla base della valutazione dei crimini commessi dagli italiani, ma è stata costruita, al contrario, operando un confronto con il fenomeno della deportazione e dei Lager nazisti. Eleggendo come “oggetto unico” della memoria della persecuzione razziale il Lager tedesco, questo confronto (insieme alla diffusione del mito degli “italiani brava gente”), ha banalizzato e relativizzato i crimini compiuti dall’Italia fascista ed ha costruito così una “singolarità nazionale” forgiata sul modello del “male minore”. Se negli ultimi anni una parte della storiografia italiana sta criticando e tentando di smontare questo modello del “male minore” tramite, ad esempio, lo studio delle misure di internamento adottate dal governo italiano prima dell’8 settembre del 1943, quindi nel periodo precedente l’occupazione tedesca, prendono forma tuttavia altri modelli di banalizzazione e tentativi nuovi di cancellazione dei crimini italiani. Pensiamo a questo proposito al fenomeno recente di diffusione del “mito delle foibe” operato da una parte del mondo intellettuale e politico italiano: il giudizio sul passato non si fonda qui sul confronto con un “male peggiore”, ma è emesso addirittura tacendo sulle proprie colpe e, di conseguenza, ignorando l’ineludibile concatenazione storica degli eventi. Si assiste infatti in Italia ad una attitudine generalizzata a parlare del “caso foibe” (l’uccisione di italiani da parte dei partigiani di Tito nel periodo a cavallo della primavera del 1945), decontestualizzando questa vicenda da quella più generale dell’aggressione nazi-fascista della Jugoslavia nella primavera del 1941 e dalle successive politiche di “pulizia etnica” intraprese dal governo di Mussolini: l’internamento delle popolazioni delle zone jugoslave annesse all’Italia in campi di concentramento ed altre misure ad esso collegate come ad esempio il saccheggio e l’incendio di villaggi e l’uccisione di ostaggi. Intessuto attorno al silenzio di questi crimini, il “mito delle foibe” rappresenta un vero e proprio tentativo di costruire un discorso “restauratore” riguardo alla vicenda del dominio italiano sul territorio jugoslavo occupato e all’atteggiamento fascista nei confronti degli “allogeni”, un discorso che, riconoscendo all’Italia solo lo statuto assoluto di “vittima” e non quello, antecedente, di “aggressore”, mira a ristabilire una presunta integrità e una dignità storica impossibili da provare. Le polemiche suscitate dalla costruzione del “caso foibe” - che si trova attualmente ad un crocevia di giudizi storici, politici e giudiziari - rendono particolarmente importante ristabilire l’intera verità storica, precisare cioè quali sono state le responsabilità dell’Italia che pesano sul destino subito dalle popolazioni slovene e croate prima e durante l’occupazione della Jugoslavia. La sua vicenda è emblematica del modo in cui questi crimini siano praticamente assenti dalla topografia della nostra memoria nazionale e di come il silenzio in Italia contrasti con la memoria viva dei luoghi e delle popolazioni coinvolte. Il campo di Arbe fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitò complessivamente circa 15.000 internati tra sloveni, croati, anche ebrei. In poco più di un anno di funzionamento (il campo cessò di esistere l’11 settembre del 1943), il regime di vita particolarmente duro causò la morte di circa 1.500 internati. La memoria delle vittime (in maggioranza slovene) di questo campo italiano è custodita oggi da un grande cimitero memoriale sorto su una parte del campo e sul luogo che, già all’epoca, ne costituiva il cimitero. Al suo interno una cupola racchiude un mosaico, opera dello scultore Mario Preglj, che simbolizza la lotta eterna dell’uomo per la conquista della libertà. Poco lontano dal complesso commemorativo alcune sporadiche baracche, inglobate nei terreni coltivati di privati cittadini, sfuggono allo sguardo del visitatore distratto. La loro presenza è però ancora in grado di rievocare in modo autentico il progetto inquietante che l’Italia fascista aveva riservato alle popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo dominio. Nel settembre di ogni anno, nell’anniversario della liberazione, questo “luogo della memoria” ospita una sentita cerimonia a cui partecipano rappresentanti delle Repubbliche slovena e croata e nutriti gruppi di ex internati. A queste cerimonie né la società civile, né il governo italiano sono mai stati presenti. Il silenzio da parte italiana è stato finalmente rotto il 12 settembre di quest’anno, in occasione del 55° anniversario della liberazione del campo: la Fondazione Internazionale “Ferramonti di Tarsia” ha partecipato alla manifestazione con una propria delegazione, ed ha apposto all’ingresso del cimitero una lapide il cui testo, scritto in italiano e in croato, dichiara per la prima volta da parte italiana, sullo stesso luogo teatro di questo crimine, le colpe dell’Italia. Il testo della lapide recita: «In memoria di quanti, negli anni 1942-1943, qui finirono internati soffrirono e morirono per mano dell’Italia fascista”. Il significato dell’iniziativa - che si inserisce nel quadro più ampio delle attività che la Fondazione Ferramonti ha dispiegato in questi anni per promuovere la ricerca e il recupero della memoria dell’internamento civile fascista - è stato precisato dal presidente della Fondazione Carlo Spartaco Capogreco nel discorso che ha accompagnato lo scoprimento della lapide. L’intera cerimonia si è svolta in un clima carico di emozioni e di ricordi ancora vivi, sottolineati dalla commozione con cui, come un comune “giorno dei morti”, gli ex internati e i familiari presenti depositavano fiori e corone sulle tombe delle vittime. A ragione Milan Osredkar, sloveno ed ex internato a Gonars, ha definito quello di Arbe “il più grande cimitero sloveno”. La presenza italiana ha suscitato grande soddisfazione tra le autorità politiche e i rappresentanti delle varie associazioni presenti alla manifestazione, segno, forse, della speranza che il lungo silenzio italiano su questo passato tristemente comune venga finalmente messo in discussione e che anche questa verità storica entri nel quadro del dibattito attuale sui rapporti tra l’Italia e la Jugoslavia negli anni della Seconda guerra mondiale. Il 55° anniversario della liberazione del campo è stato anche l’occasione per la presentazione di due pubblicazioni che il croato Ivo Kovacic e l’ex internato, e già ministro sloveno ai tempi di Tito, Anton Vratusa hanno dedicato alla vicenda di Arbe. Questi volumi vanno ad arricchire la già fiorente bibliografia sulla storia di questo campo di internamento dell’Italia fascista a cui la storiografia italiana ha, finora, prestato poca attenzione. Ricordare la tragedia del campo di Arbe e riconoscerne le responsabilità italiane non è però solo un problema storiografico o di politica internazionale, ma anche di sensibilità civile. L’atto pioniere dell’apposizione della lapide va interpretato in tal senso come un gesto dirompente per il «risveglio” della coscienza nazionale atrofizzata, come una denuncia della mancata elaborazione della memoria (collettiva e storica) degli italiani di questo crimine dell’Italia fascista.

Da Triangolo Rosso, dicembre 1998

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