Triangolo rosso
Ricordiamo bene quel tunnel verso la libertà
Due tentativi senza successo
Operaio della Breda, dopo la scoperta dello scavo fuggì presso Vipiteno dai vagoni piombati in viaggio verso la Germania. Ripreso, fu deportato a Flossenburg, dove riuscì a sopravvivere e a tornare.
di Armando Milani
Era proprio fine novembre ‘44. Anche Milani era al blocco B e questo tunnel sotterraneo era praticamente terminato. Solo che una guardia della garitta vedendo muoversi qualcosa in terra oltre il recinto, ha mitragliato per cui tutti sono rientrati precipitosamente in baracca. Milani non ricorda i nomi che cita l’Alessi; sa che erano un gruppetto di deportati che da alcuni giorni stavano scavando questo tunnel. Per la verità a Milani non è capitata quella punizione di cui parla Alessi. A lui non è successo niente. Probabilmente qualcuno ha fatto dei nomi compreso quello di Alessi, ma non quello di Milani. Fallito quel tentativo, Milani ci riprovò, fuggendo due settimane dopo dai vagoni piombati, assieme ad altri 10 compagni, presso Vipiteno, durante il trasporto del 14.12.44 che giunse a Flossenburg il 20.12.44. Il Milani con gli altri 10 è stato però subito ripreso, rinchiuso nelle carceri di Bressanone per qualche giorno e riportato al campo di Bolzano nelle celle... con tutte le reazioni violente che si possono immaginare. È poi ripartito da Bolzano il 20.1.45 e giunse a Flossenburg il 23.1.45. L’episodio di questa fuga non riuscita, con relative conseguenze è evidenziato nel volume della V. Morelli I deportati italiani nei campi di sterminio da pag. 52 a pag. 54. Un particolare: la matricola di Giorgio Alessi, 23543, è probabilmente sbagliata perché in quel trasporto, le matricole vanno dal 43450 al 43850 - vedi I. Tibaldi Compagni di viaggio, - che sia 43543? Armando Milani è molto contento ed emozionato nell’aver letto questa notizia. Sono passati ormai 53 anni da quell’episodio e non ricorda assolutamente i nomi di quell’avventura.
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Tutti i dettagli di quel piano
di Vittore Gorza
Con altri compagni di prigionia (fra i quali l’amico Augusto De Zordi) entrai nel campo di concentramento di Bolzano (nome ufficiale del Lager Polizeiliches Durchgangslager Bozen - Gries) verso la fine del mese di novembre 1944. Provenivo da Feltre ove avevo trascorso una quarantina di giorni da incubo nella caserma Zannettelli dopo il mio arresto a Mugnai di Feltre a causa della delazione di un partigiano che non seppe resistere alle torture. Ebbi la sventura di cadere nelle mani del Maresciallo delle SS Guglielmo Niedermajer, suddito tedesco, ma nativo di Appiano (Bolzano). Il Niedermajer, noto come Villy, seminò la morte nel Feltrino. Nel dopoguerra venne più volte processato in contumacia da tribunali militari per assassinii, torture, ruberie e impiccagioni. Fu condannato a decine di anni di reclusione. Venni immatricolato e rinchiuso nel lager nel Blocco E destinato ai “pericolosi”. In questo enorme stanzone i tedeschi avevano ammassato circa 300 persone. Il nostro Blocco confinava col Blocco F (riservato alle donne) dal quale era separato da una tramezza di legno. Arrampicandosi sugli ultimi ripiani dei castelli era possibile comunicare con loro, in quanto il divisorio non era molto alto. Cosa molto utile per noi perché, essendo le donne addette ai lavori esterni, potevano uscire dal campo per recarsi alla galleria del Virgolo, ove erano installate le macchine della ditta Imi che produceva cuscinetti a sfere. Clandestinamente ricevevano pacchi con cibo ed indumenti dai loro e nostri familiari che poi passavano a noi del Blocco E. Qui rividi con gioia Luigia Zannivan, che aveva diviso con me i giorni di prigionia a Feltre. Alla Zannivan e ad un’altra mia vecchia amica, Idalma Rech della valle di Seren del Grappa, debbo molta gratitudine per aver alleviato un poco i morsi della fame nel periodo del mio internamento nel lager di Bolzano. Nel Blocco E ritrovai due miei paesani: Angelo Maccagnan e Pasquale Zanin, partigiani come me, arrestati nel medesimo giorno. Anche loro seguirono la mia stessa sorte: prima a Mauthausen, poi a Gusen II. Pasquale Zanin, matricola 115782, morì a Gusen il 28 aprile 1945; Angelo Maccagna ebbe la fortuna di rientrare a casa, dopo la liberazione del campo da parte degli anglo-americani il 5 maggio 1945, ma morì alcuni mesi dopo. Tutti nel Blocco eravamo consci che la nostra prigionia a Bolzano sarebbe stata di breve durata: ci aspettavano i campi di eliminazione in Germania. Quindi un solo pensiero martellava continuamente il nostro cervello: fuggire ed evitare così i “trasporti”. L’occasione di fuga ce la fornì un giovane ingegnere ligure che studiò il lager e ne ricavò una piantina con precisione meticolosa. Radunò parecchi di noi, a parer suo i più “fidati”: 14 veneti, 12 liguri e qualche lombardo. Angelo Maccagnan ed io ci unimmo a questo gruppo. Il piano di evasione consisteva nello scavo di un pozzetto dietro un “castello” appoggiato alla parete del nostro Blocco. Da qui partiva una galleria di circa 5 metri, alta 50 cm, rafforzata con traversine di legno (ricavate dai castelli), seguendo le regole dell’arte mineraria, che ci avrebbe portati in aperta campagna, al di là del muro di cinta. A piano ultimato, il lavoro fu immediatamente iniziato e si prolungò per quasi tutto il mese di dicembre. A turno si doveva scavare, stando ventre a terra, proprio come le talpe. La durata dei turni di lavoro era di un quarto d’ora ciascuno. Lì sotto ci si sentiva mancare il respiro ma tutti noi lavoravamo con accanimento (usando le più attente precauzioni al fine di attenuare il rumore), sperando che quel rischio e quella fatica venissero premiati con la libertà. L’amico Pasquale Zanin, al mio invito a collaborare, fu costretto a rifiutare perché soffriva di claustrofobia. Ricordo anche l’ex tenente degli alpini di Calalo (di cui non rammento il nome e che sarebbe poi morto a Gusen): quanta volontà mise nel tentativo! Era inesauribile, rimaneva sempre molto a lungo nel “buco”, molto più a lungo del turno prestabilito. Davvero avrebbe meritato che la fuga fosse andata a buon fine! Si scavava con qualsiasi oggetto: cucchiai, ferri, e specialmente con le mani, riuscendo a compiere veri miracoli. Il terriccio di riporto – trasportato con un gavettino – veniva nascosto nei pagliericci e gettato nella latrina del Blocco e scaricato direttamente in un ruscello. Al termine del turno di lavoro, alcuni compagni stazionavano di guardia sui castelli che sovrastavano il tunnel, canterellando e fischiando per coprire i rumori che provenivano dal sottosuolo. Il nostro lavoro procurava lamentele da parte di chi ignaro di ciò che stava accadendo - trovava in quei giorni la latrina sempre occupata. Tutto procedeva secondo i piani del nostro bravo ingegnere. Dopo una ventina di giorni la nostra fatica poteva dirsi terminata: secondo i calcoli avevamo sorpassato il muro di cinta ed era sufficiente scavare ancora mezzo metro circa per guadagnare l’esterno del campo e quindi la sospirata libertà. Fu deciso che l’evasione sarebbe avvenuta la notte di Natale. Motivo: le SS, durante le festività, avevano l’abitudine di ubriacarsi, quindi la sorveglianza era notevolmente inferiore. Avevamo inoltre stabilito di tirare a sorte chi dovesse uscire coi primi che avrebbero avuto maggior probabilità di riuscita. Uno dei primi ad uscire sarebbe stato un vecchio partigiano di Trento che (pratico della zona ci avrebbe guidati per strade oscure e accompagnati per un tratto. Egli raccomandava a noi tutti che – una volta liberi – non dovevamo assolutamente chiedere aiuto agli altoatesini: si correva il rischio di essere denunciati. Fra di noi regnava l’ottimismo, ma qui successe l’imprevisto. Un anziano del Blocco – ignaro della fuga – si accorse che un pagliericcio – invece dei soliti trucioli di legno – conteneva terriccio. La cosa lo insospettì e – frugando fra i castelli – scoprì l’ingresso della galleria sotterranea. Imprecando, disse che avrebbe confessato tutto al capoblocco e che non voleva incorrere in eventuali rappresaglie. Vane furono le nostre minacce: andò dal capoblocco e confessò tutto. Il comando delle SS fu informato: improvvisamente entrò il comandante del campo (ten. Tith) accompagnato dal capo disciplina, il sergente Hans Haage. Quest’ultimo ordinò di rimuovere i castelli, rimanendo stupefatto e ammirato dalla perfezione dell’opera. Poi ad alta voce, ci avvisò che fuori ci aspettavano le mitragliatrici. Era la vigilia di Natale del 1944. Tith e Haage ci fecero uscire tutti sul piazzale del campo e, con tono minaccioso, dissero che si dovevano presentare i colpevoli. In un primo tempo nessuno obbedì all’invito. Rimanemmo parecchie ore immobili sull’attenti. I due comandanti ripeterono il loro ordine. Nel frattempo alcuni furono individuati e portati nelle celle del campo (ove, pare, sono stati fustigati a sangue). I nostri aguzzini, non soddisfatti dell’esiguo numero di colpevoli, rinnovarono la minaccia e aggiunsero che – se non se ne fossero presentati altri – avrebbero punito l’intero Blocco. Noi responsabili – questo bisogna ammetterlo – indugiavamo a farci avanti. Un senso di vigliaccheria ci tratteneva: credo fosse giustificabile. Poi, costretti da chi temeva per la sua sorte, ci decidemmo. Per porre termine a questo supplizio, concordammo che una decina di noi doveva farsi riconoscere e tirammo a sorte. Sfortunatamente fui uno dei primi. Ricordo che invitai Angelo a seguirmi e tentennando alla fine accettò. Ce la cavammo con una buona dose di schiaffi, quindi ci riportarono nel Blocco. Eravamo disperati, sfiniti e semiassiderati e, per di più a digiuno dal giorno prima. A questo pensarono le ragazze del Blocco F. Generose, ci offrirono la metà delle loro razioni, tolte dai pacchi ricevuti da casa. Aiuto e sostegno lo ebbi, quel giorno, soprattutto da Luigina Zannivan, che si dimostrò affettuosa come una sorella. Un po’ di conforto lo trovammo anche in don Narciso Sordo, un prete di Trento, che celebrò la messa al campo il giorno di Natale. (Deportato a Mauthausen, morirà anch’egli a Gusen II). Le punizioni per il tentativo di evasione non si fermarono solo all’interno del campo di Bolzano, ma ebbero un seguito. Mi fu raccontato a Mauthausen da chi partì con il “trasporto” precedente al mio (quello dell’8 gennaio), che – una volta stipati nel vagone – salì Lanz, una guardia del campo spietata e feroce. Con lui, un ucraino e un SS. Lanz chiese ancora chi fossero gli esecutori materiali del tunnel nel Blocco E. Non ottenendo alcuna risposta, si infuriò. Poi tutti e tre, si lanciarono contro i deportati e – accecati dall’ira – colpirono selvaggiamente i malcapitati più vicini con i calci dei mitra. L’ucraino si accanì con la baionetta contro Benito Fossano che ebbe la fronte spaccata. Un certo Marchetti – preso per il bavero da Lanz e stretto al collo tra i due battenti della porta scorrevole del vagone – venne quasi strozzato. Anche il prete di Trento don Narciso Sordo e un certo Pinna (che morirà anch’egli a Mauthausen), rimasero feriti per le percosse. Al mio ritorno da Mauthausen ebbi modo di sapere – attraverso una testimonianza scritta – che colui che aveva avvisato le SS del tentativo di fuga nel lager di Bolzano, come premio del tradimento, aveva evitato la partenza per la Germania. Alla liberazione del campo, questi raggiunse Milano. In piazza del Duomo scivolò battendo il capo sul selciato, perdendo la vita. Strano destino il suo! I prigionieri del Blocco E furono deportati interamente in Germania. L’80% di essi non fece più ritorno.
Testimonianza di Vittore Gorza deportato a Mauthausen – matricola 126227 – raccolta dal nipote Franco Ciusa nei primi anni del dopoguerra.
Da Triangolo Rosso, febbraio 1998