Triangolo rosso
Il
racconto – L’arrivo a Flossenburg nei ricordi di Venanzio Gibillini
“La prima e l’ultima volta che ci chiamarono per nome”
Il
tempo non ha cancellato e non lo cancellerà mai il ricordo di quel lontanissimo
mattino del 7 settembre 1944 quando alle prime luci del giorno il treno si fermò
nella piccola stazione di Flossenburg, paese situato ai confini con la
Cecoslovacchia. Non racconterò di quel terribile viaggio che durò 2 giorni e
due notti ma cercherò di descrivere le sensazioni provate dal momento che
aprirono le porte di quei carri e l'ingresso nel Lager. Prima ancora che il
convoglio si fermasse definitivamente già sentimmo urlare in tedesco e
l'abbaiare dei cani. In quella tensione d'angoscia e smarrimento s'aprirono le
porte dei carri. Vedemmo SS che gridando e gesticolando ci facevano capire che
dovevamo scendere il più presto possibile. La distruzione della nostra
personalità incominciava con l'apertura dei vagoni. Sempre gridando, SS. e Kapò
ci incolonnarono per cinque; così come degli automi salimmo verso il paese
in cima al colle dove si trovava il Lager. L'indifferenza della gente del
posto al nostro passaggio era quasi totale. Non eravamo ancora entrati nel
Lager, che fummo scioccati alla vista di strani individui, magri, silenziosi,
vestiti con la divisa da galeotti, pantaloni e giacca a righe verticali bianche
e blu, anche loro indifferenti al nostro passaggio.
Angosciato
da quella visione cercai di respingere il pensiero che sarei finito come quei
disgraziati. Ma non fu così; in quella bolgia infernale, dove tutti i
valori umani erano capovolti, dove non eravamo più degli uomini ma dei pezzi,
dove le nostre vite potevano essere annientate, per un nonnulla quella bolgia
ci inghiottì. Entrati nel Lager fummo sistemati con tutte le nostre cose in
un grande piazzale dietro la "Kommandantur". Lì rimanemmo un po' di
tempo in attesa dell'evolversi della nostra situazione. Nel frattempo
rivedemmo ancora i prigionieri vestiti a righe, così capimmo che nella bolgia
c'eravamo pure noi 500 circa arrivati da Bolzano. Dal comando uscì un ufficiale
delle SS
che
chiamò "Dolmetscher Raus". L'interprete, ch'era il buon Teresio
"nobile figura d'altruismo, un grande". Traducendo il nazista disse
che facevano l'appello e noi dovevamo rispondere Hier (qui) quando venivamo
chiamati. Fu l'ultima volta che ci chiamarono per nome. Terminato l'appello
ci portarono in una tendopoli e lì spogliati completamente indi dovevamo
consegnare tutto, qualsiasi cosa. Chi tentava di celare il più banale oggetto
veniva pestato a morte, vedevo persone anziane indecise se consegnare le
fedi matrimoniali, o le foto dei propri cari ma tutto era inutile; da quella
grossa tenda uscimmo completamente nudi e subito fummo avviati ai bagni.
L'edificio delle docce era in muratura, la porta d'entrata era semiinterrata.
Ai due lati c'erano dei gradini che scendevano, sui primi gradini da ambo i
lati due individui armati con dei tubi di gomma ci colpivano spingendoci
dentro in una specie di grande anticamera tutta piastrellata. Notammo dei
manifesti con la figura di un pidocchio ingrandito e una scritta in tedesco
diceva pressappoco così: difenditi da questo parassita che è la tua morte.
Sempre spingendoci ci portarono nel locale delle docce e fu a questo punto
che entrarono in azione i "Friseur" armati di macchinette e rasoi ci
tosarono in ogni parte del corpo, poi ci disinfettarono sotto le ascelle e sul
pube con una specie di lisoformio che bruciava terribilmente e in più con una
macchinetta fine ci fecero la cosiddetta "Strasse", cioè una riga
che partiva dalla fronte e finiva alla nuca, cosa che facevano solo a italiani
e russi. Così nudi, senza capelli rasati in tutte le parti del corpo, tutti
uguali con la nostra dignità di uomo colpita profondamente in quel locale che
sembrava un girone dell'inferno dantesco ci accingemmo a fare la doccia.
Finalmente aprirono l'acqua, non ricordo se era fredda o calda, ricordo che fu
una operazione veloce. Ancora bagnati fummo spinti fuori e fecero una
selezione; dovevamo presentarci davanti a dei militi alcuni col camice bianco
da ufficiale medico, senza toccarci ci scrutarono davanti e dietro uno; uno di
loro aveva un barattolo contenente del colorante credo rosso, ci fecero un
segno sulla fronte, notammo che il segno per noi giovani era identico e noi
eravamo la maggioranza. Terminata questa operazione sempre nudi e sempre più
smarriti ci portarono in un altro posto dove ci vestirono. Nel
frattempo prendevamo visione della grandezza del campo. Il compito di vestirci
era affidato a degli zebrati
"prominenti": anche loro gridavano e colpivano con tubi di gomma
senza motivo ma con bestiale ferocia; la maggioranza di loro erano polacchi. Il
vestiario per noi nuovi arrivati e destinati al blocco di quarantena era
composto
quasi tutto da ex divise militari di tutti gli eserciti d'Europa risalenti alla
prima guerra mondiale, ormai logori dal tempo. Sulla giacca per tutta la
grandezza della schiena c'erano verniciate due lettere: KL i pantaloni erano
sbarrati con due strisce oblique e ai piedi avevamo zoccoli di legno già
usati. Senza troppo osservare le taglie ci vestirono e così conciati,
desolati, distrutti e un po' grotteschi allo stesso tempo, ci condussero alla
nostra
destinazione alla baracca 23. Il
blocco 23 era in fondo al campo verso destra, avanti pochi metri c'era un altro
blocco, il 24, di fronte al 24 c'erano le latrine. I due blocchi e le latrine
erano isolati dal resto del campo da una rete, essendo il blocco 23 di
quarantena e il 24 composto da deportati terminali senza più alcuna speranza,
così detti "Musulmaner". Arrivati davanti al nostro blocco ci colpì
un odore strano, un lezzo nauseante, scoprimmo che sotto qualche metro delle
due baracche esistevano i forni crematori che funzionavano a pieno ritmo.
Appena dopo il blocco della morte, il 24, c'erano un cancello ed una scalinata
che scendeva al crematorio e sopra il cancello, subito fuori del reticolato
percorso dall’alta tensione, la torretta in muratura dove stava la guardia
delle 55 munita di faro e di mitragliatrice. Le
latrine erano un indescrivibile obbrobrio
ora è difficile descriverle in tutti i loro particolari, troppi anni sono
passati, ma la loro mostruosità e bruttura
resta indelebile nella mia memoria.
Quel
posto era grande
circa un terzo dei blocchi, nel mezzo una rete divideva a metà il
"locale" l'altra metà serviva a altri due blocchi chiamati di
transito ch'erano il blocco 21 e il 22. Per i bisogni corporali nel centro si
trovava una grossa buca, sopra la buca una tavola traversale. Tutto intorno al
perimetro del locale, c'era un lavandino in legno con diversi rubinetti. Quando
il crematorio non ce la faceva più a smaltire quel suo ingrato lavoro, quei pietosi
corpi venivano ammucchiati
proprio
sotto il lavandino.
Anche
fuori
delle latrine c'era un angolino dove venivano accatastati i morti, poi sul
torace scrivevano il numero di matricola, e degli addetti guardavano loro in
bocca se avevano denti d'oro, che naturalmente toglievano e lì rimanevano in
attesa del forno crematorio. Ma il momento più deplorevole e stomachevole di
quel gabinetto era al mattino alle ore 4 o 4 e mezza all' "Anfstenen",
la sveglia: bisognava fare presto, arrivare prima di quei poveri infelici del
blocco 24 quasi tutti colpiti dalla dissenteria e dallo scorbuto, che malgrado
quelle pietose condizioni venivano spinti e bastonati dagli addetti alle
latrine, quell' orrendo posto doveva servire diverse centinaia di prigionieri.
Nemmeno i decenni hanno sbiadito queste sensazioni di memoria realmente vissute.
Venanzio
Gibellini, Flossenburg, m
Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, n. 2 aprile 1998, per gentile concessione