Triangolo rosso

Un ex deportato di Mauthausen a Birkenau

L’industria della morte

Il viaggio è terminato! Ora ha inizio il periodo di riflessione e, se possibile, di comprensione di tutto quello che è stato visto e sentito durante l’indimenticabile esperienza della visita ai campi di Auschwitz 1 e Auschwitz 2 - Birkenau.

 

di Marcello Martini

 

Sono Marcello Martini, ex deportato politico di Mauthausen, matricola n. 76.430; sono tornato varie volte in questo Kz, per accompagnare studenti, insegnanti e semplici cittadini interessati a conoscere le testimonianze dei sopravvissuti e i luoghi della deportazione. Ho visitato anche altri Lager accompagnando i vincitori del concorso annuale di Storia contemporanea indetto dalla Regione Piemonte, iniziativa peraltro unica in tutta Italia; e ho portato la mia testimonianza sia durante i viaggi, sia in tante scuole piemontesi e di altre regioni. Credevo quindi che la mia personale esperienza e le attività di questi ultimi anni mi avessero già preparato a ogni sorta di emozione che le visite ai campi di eliminazione nazisti sempre producono. Mi sono trovato invece completamente disorientato, direi indifeso, di fronte alla sensazione di annientamento che la grandiosità mostruosa dei due Lager provoca. Gli aggettivi terribile, crudele, tremendo non possono rendere appieno le emozioni suscitate: pare che tutte le esperienze dirette e indirette precedenti vengano annullate, quasi risucchiate dalle geometriche strutture dello sterminio. Mi è apparso chiaro ed evidente il paragone tra Mauthausen e il complesso di Auschwitz. Mentre Mauthausen e i suoi sottocampi possono rappresentare il laboratorio ben organizzato di un bravo artigiano, Auschwitz, ma soprattutto Birkenau, sono l’industria moderna e razionale, studiata e realizzata in ogni dettaglio; avevano lo stesso tipo di produzione: la morte di tutti gli oppositori e i diversi, ma organizzata nel complesso di Auschwitz per essere attuata con la migliore funzionalità, per sfruttare in totale economicità anche i cadaveri delle vittime. Di Auschwitz avevo già visto fotografie e filmati, sia delle 40.000 paia di scarpe, sia delle valigie identificate coi nomi dei proprietari, sia, peggio ancora, della massa di capelli femminili; ma l’impatto emotivo provato di fronte a quelle enormi vetrine è stato veramente improvviso e violento. Fra il grigiore uniforme delle scarpe spiccavano tre o quattro di colore rosso: mi hanno colpito con incredibile efficacia simbolica, come il cappottino rosso nel film Schindler’s List di Steven Spielberg. Ma il vero “pugno nello stomaco” è stato per me la visita di Birkenau. Non c’è nulla che richiami, almeno in apparenza, l’attenzione: una scura costruzione, nemmeno tanto imponente, un ingresso, il binario che passa attraverso il portone centrale, di qua e di là pali con filo spinato elettrificato. Non appena però si varca l’ingresso, ci si rende conto della vastità del fenomeno Lager Kz e del suo significato. Decine di baracche ben allineate sono ancora visibili nei venti ettari di terreno che costituiscono l’area in cui è sorto Birkenau. Le baracche non sono come quelle di Mauthausen o di Dachau, costruite con pannelli di legno ben connessi e infissi funzionali. A Birkenau la luce arriva da un lucernario sul tetto o direttamente dalla porta: il pavimento è in terra battuta e le assi delle pareti sono leggere ed irregolari. È facile capire quindi quella che può essere stata la vita dei deportati durante i mesi invernali nella località fredda e piovosa dove sorge il campo. Il portone d’ingresso, attraversato dai binari è l’enorme bocca che ingoiava i lunghi convogli di carri bestiame! Una bocca mai sazia che tutti i giorni veniva alimentata dalle solerti SS, che selezionavano con uno sguardo chi doveva essere subito ucciso, o chi avrebbe potuto avere una più lunga e dolorosa agonia, economicamente redditizia per il Terzo Reich. La banchina tutt’ora esistente, alla fine dei binari, termina con due costruzioni, una per lato, dove sei camere a gas e dieci forni crematori attendevano i nuovi arrivati: donne incinte, bambini, vecchi, disabili erano i primi a scendere i gradini verso gli spogliatoi e le camere a gas; seguivano poi altre bocche che divenivano inutili per mancanza di disponibilità di alloggiamenti! Anche se le due costruzioni seminterrate sono state fatte saltare dalle SS in fuga, la semplice visione delle macerie è sufficiente per dimostrare l’enormità dei crimini commessi in nome della razza superiore! Durante la visita i miei occhi di ex-deportato vedevano i campi ancora efficienti e popolati dalle figure spettrali vestite a righe o coperte di stracci che si muovevano nella neve o nel fango, spinte da urla, minacce, colpi di bastone, vessate da ogni tipo di violenza materiale e psichica. Vedevo il crematorio fumare e ancora percepivo il tremendo odore di carne bruciata che si spandeva tutt’attorno per chilometri e chilometri. Mi ha molto impressionato il silenzio ovattato che si percepisce all’interno del filo spinato di Birkenau. Non riesco a spiegarmi a che cosa si debba attribuire questo fenomeno, ma i rumori della strada, delle auto che transitano a poche decine di metri non arrivano distinti e chiari, ma filtrati quasi da un invisibile pannello fonoassorbente. Questa strana sensazione è stata avvertita anche da altre persone che hanno visitato il Lager con le più svariate condizioni ambientali e atmosferiche. La nostra comitiva ha attraversato il Lager in silenzio, colpita dalla medesima emozione. Sono state deposte corone d’alloro sia ad Auschwitz, presso il muro delle fucilazioni, sia presso il monumento di Birkenau al termine del binario. Le parole degli oratori, scevre di ogni retorica, hanno risentito della sacralità del luogo e hanno espresso il comune desiderio e impegno a non dimenticare. Voglio infine sottolineare ancora due particolari; il primo riguarda il rilevante numero di inesattezze e imprecisioni, a volte decisamente inaccettabili, dette dalle guide polacche durante la visita. Il compagno Pio Bigo sopravvissuto ad Auschwitz, è dovuto intervenire per precisare ai partecipanti la realtà dei fatti. Il secondo invece è relativo al discorso del sindaco della cittadina polacca di Auschwitz che dopo i convenevoli d’obbligo, si è mostrato veramente dispiaciuto del fatto che i Lager fossero così vicini alla sua città, perciò conosciuta in tutto il mondo per la presenza dei campi della morte. Inoltre mai ha rammentato o commentato quanto accaduto e compiuto cinquanta anni fa contro la popolazione ebraica; e nemmeno una volta la parola “ebreo” è stata pronunciata durante l’intero discorso di benvenuto.

Da Triangolo Rosso, novembre 1997

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