Triangolo rosso
Ravensbrück - Cosa c’è dietro il silenzio sulla deportazione
Il discorso del presidente dell’Aned Gianfranco Maris
Centinaia di nomi: la memoria è già storia
di Gianfranco Maris
Cari amici,
a voi, che partecipate alla cerimonia inaugurale della lapide che l’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti ha voluto dedicare, in Ravensbrück, alle donne italiane qui deportate, Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica Italiana, invia il suo plauso per questa solenne iniziativa, nella quale egli vede una “nuova prova del prezioso impegno di testimonianza dell’Aned, affinché la memoria degli orrori del passato sia per tutti stimolo a operare in nome dei supremi valori di libertà e di pace fra tutti gli uomini.” Hanno mandato messaggi Nicola Mancino, presidente del Senato; Romano Prodi, presidente del Consiglio dei ministri; Walter Veltroni, vice presidente del Consiglio dei ministri; Luigi Berlinguer, Livia Turco, Rosi Bindi e Anna Finocchiaro, ministri, per confermare la loro adesione morale alla nostra iniziativa, anche se, impegni istituzionali non consentono loro di essere qui con noi. È presente Luciano Violante, presidente della Camera dei deputati.
La solidarietà delle istituzioni
Le istituzioni del nostro Paese ci sono, quindi, vicine con il loro consenso e con la loro solidarietà. E tuttavia, poiché qui siamo in sede etica, in luogo di verità, sarebbe retorica condannabile qualsiasi celebrazione che non denunciasse come la deportazione politica italiana, nel suo complesso, sia trascurata; non tanto dalla ricerca storica, quanto dalla informazione. Non la deportazione di donne, uomini e bambini, in quanto deportazione di “innocenti”, è trascurata; perché, anzi, sul piano della deportazione e dell’annientamento degli “innocenti” - come possono essere stati gli zingari, gli ebrei, gli omosessuali, i testimoni di Geova - l’informazione è diffusa e costante e la condanna dei cittadini è unanime. È trascurata la deportazione “politica”, la cui condanna deve necessariamente passare - e non passa - attraverso la condanna dei regimi nazista e fascista in quanto tali; del loro totalitarismo politico, del loro avventurismo criminale, della loro politica di conquista e di sottomissione dei popoli, della loro repressione statuale programmatica e criminale di ogni antagonista, di ogni dissidente. La condanna della deportazione politica è, essa stessa, una scelta di campo, non è neutrale; deve passare attraverso il riconoscimento del valore e dell'attualità dell’antifascismo. In altre parole: è trascurata la deportazione dei “responsabili” dell’azione antifascista. Nel processo a carico delle SS che avevano comandato il campo di sterminio di S. Sabba, la Corte d’Assise di Trieste condannò i comandanti del campo solo per aver soppresso 30 “innocenti”, che nulla avevano fatto contro le SS, in quanto appunto, zingari, ebrei, testimoni di Geova; ma non le condannò, né li incriminò, per lo sterminio e la deportazione di 6.000 patrioti e partigiani, assassinati senza processo in S. Sabba o inviati a morire nei campi di Buchenwald e di Ravensbrück. In Germania e in Francia le ricerche e gli studi ripropongono il fascismo e il nazismo come questione centrale nella storia del XX secolo. In Italia, invece, alle emergenze della riforma delle istituzioni e dello stato sociale si aggiunge oggi una terza emergenza: quella che nega legittimità politica all’antifascismo e nega che dalla Resistenza sia mai nata una nuova identità nazionale.
Negato il valore della Resistenza
E questo perché - negando che la Repubblica sia nata dalla Resistenza - si tenta di negare legittimità alla presenza di valori resistenziali nelle riforme istituzionali. La storia esige una lettura pluralistica delle memorie, ma è da respingere la prospettazione di una storia controversa nella quale le verità sono ancora tutte da accertare. Per avere una misura del livello al quale è scaduta la democrazia italiana basta citare due episodi che hanno avuto per protagonisti due giudici italiani, dei quali uno, il rappresentante della pubblica accusa, chiede l’archiviazione della denuncia nei confronti dei partigiani di Via Rasella non perché autori di un atto di guerra doveroso, ma per amnistia, la stessa di cui usufruirono i torturatori e i criminali nazisti e fascisti; e un altro, il giudice delle indagini preliminari, ritiene degna di approfondimento la denuncia nei confronti dei partigiani di Via Rasella, ai fini della valutazione dell’addebito a loro mosso di essere “illegittimi belligeranti”, essi stessi responsabili della strage delle Ardeatine. Sono le memorie divise o la storia mistificata che inducono perverse ombre persino sulla cultura giuridica? Si tratta di una mutazione profonda, gravemente preoccupante, della coscienza e della memoria storica di un intero Paese! In questa situazione, contro la quale non ci stancheremo di combattere, viviamo oggi, tuttavia, qui a Ravensbrück, una giornata luminosa. Scopriamo una lapide che riassume un grande lavoro di ricerca di Giovanna e Paolo Massariello, figli di Maria Arata, che fu deportata in questo campo nell’estate del 1944. La loro ricerca dà, finalmente, una misura più esatta del contributo delle donne italiane alla Resistenza politica europea.
Tutte colpevoli di antifascismo
Non poche decine e neppure poche centinaia, ma migliaia; tutte “colpevoli” di antifascismo militante. Noi siamo orgogliosi di leggere nell’opera di Erna Menser e di Vida Zaverl che, in Ravensbrück, le donne italiane erano “coscienti antifasciste”. L'Aned proseguirà nel suo impegno di ricerca. Abbiamo ultimato la raccolta di 350 interviste a donne italiane deportate ancora viventi, e siamo certi che la pubblicazione di queste personali memorie - di operaie che parteciparono agli scioperi del marzo 1944, di contadine, di impiegate, di studentesse e di insegnanti, figlie, spose, madri - nelle quali sono racchiusi sogni e paure, coraggio e tristezza, speranze e rinunce, diversità e pensieri uguali, nell'ambito di una comune scelta di sicuro segno antifascista - costituiranno, nel loro insieme, una vera memoria nazionale, nella quale tutti gli onesti si potranno riconoscere. Mentre scopriamo una lapide, con i nomi di alcune soltanto delle nostre compagne annientate nella deportazione, diciamo a tutte non solo che nessuna di loro è mai uscita dal nostro cuore e che nessuna ne uscirà mai, sino a quando avrà un battito; ma soprattutto che la loro memoria è già oggi storia, è già oggi messaggio di verità che non rimarrà inascoltato.
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La testimonianza di Bianca Paganini
Noi, sparute larve umane, eppure orgogliose resistenti
di Bianca Paganini
Mi sia concesso esprimere a tutti i presenti il commosso ringraziamento delle donne di Ravensbrück che sono qui convenute e a nome di quelle che, pur non avendo potuto partecipare a questo incontro, sono spiritualmente, ne sono certa, qui con noi. Un grazie particolare a Madame Jacobeit, direttrice del museo del campo e alle splendide donne dell’Amical di Ravensbrück che in tutti questi anni hanno lottato con pervicacia per difendere questo simbolo della memoria perché sia di monito alle future generazioni. “Ravensbrück”, Ponte dei corvi. Questa è la traduzione italiana del nome di questo luogo che oggi è così luminoso, col sole che rende iridescenti le acque del lago e i salici che s’inchinano quasi a lambirle: un paesaggio idilliaco, se non fosse per la presenza di quelle sculture raffiguranti donne macilente che suscitano pietà e tristezza in chi le guarda e che richiamano alla mente le atroci sofferenze da loro subite; se non fosse altresì per la presenza di quella statua di donna che sembra sorgere dal lago e che solleva il figlio morto in un gesto di ieratica accusa; o, ancora, se non fosse la vista di quel lunghissimo muro che testimonia la vastità del campo e su cui sono segnati i nomi delle nazioni da cui provenivano le deportate. Queste immagini suscitano in noi deportate ricordi drammatici: la luce così viva che oggi ci accoglie si stempera nel ricordo e in questo ricordo rivediamo tutto tingersi di grigio: grigia questa terra di palude che si attaccava alla pelle e vi rimaneva, grigi i baraccamenti e gli abiti delle prigioniere e su tutto questo grigiore, che ormai faceva parte di noi, il gracchiare ossessivo dei corvi che ci accompagnava durante tutta la giornata e si spegneva solo a sera, col buio della notte che finalmente cancellava il grigio del giorno e ci portava il sospirato silenzio.
130 mila deportate, 92 mila morte
F.K.L. (Frau Konzentration Lager): campo, cioè, aperto nel 1939 come campo di rieducazione per le cittadine tedesche anti-naziste, per le testimoni di Geova e per le “asociali”. Vi furono in seguito internate 130 mila donne, di tutte le nazioni invase dalle truppe naziste, e di esse ben 92 mila vi trovarono la morte. Quando la Germania mosse guerra all’Europa e nei territori occupati cominciò a serpeggiare la rivolta e si consolidò la resistenza all’invasore, le donne, via via arrestate, furono per la maggior parte deportate a Ravensbrück dove vennero contrassegnate con un numero e un triangolo rosso, segno della deportazione politica. Con l’aumentare dell’afflusso delle donne internate, il campo si ampliò: arrivarono svedesi, norvegesi, danesi, russe, polacche, olandesi, francesi, belghe, spagnole. Le prime donne italiane giungono al campo nell’agosto del 1944: sono solo 14 e provengono dalle “Nuove” di Torino. Altre arrivano ai primi di ottobre: sono 113, fra cui liguri, lombarde ed emiliane provenienti dal campo di smistamento di Bolzano; in seguito vi sono trasporti anche da Udine, Trieste, Gorizia. Secondo le ultime ricerche fatte da Giovanna e Paolo Massariello, al cui interessamento dobbiamo questa nuova lapide, sono circa 600 le italiane deportate a Ravensbrück, ma non conosciamo ancora la precisa consistenza della deportazione politica delle donne italiane, in quanto mancano notizie precise sull’internamento femminile in campi come Bergen Belsen, Mauthausen, Dachau, dove sappiamo soltanto che furono inviati piccoli gruppi di italiane. Quando arrivano a Ravensbrück, le italiane trovano il campo già sovraffollato: tra loro casalinghe, studentesse, insegnanti, commercianti. Sono donne semplici e quasi nessuna di loro conosce la lingua tedesca né, tantomeno, quella polacca, cioè le due lingue ufficialmente parlate nel campo. Sono sole, isolate, male-accette. Le altre deportate vedono in loro le appartenenti a un popolo che ha fatto la guerra al loro paese, che ha distrutto le loro case, le identificano come “fasciste” e per i tedeschi esse sono le “sporche donne di Badoglio”, cioè l’espressione stessa del tradimento. Molte vengono smistate in altri sottocampi, disperse tra deportate di altra nazionalità. E per loro la realtà si prospetta subito drammatica. Senza la conoscenza della lingua né del tipo di lavoro che l’attende nelle fabbriche, dovranno da sole trovare in se stesse la forza che le aiuti a resistere, e quindi, a sperare di salvarsi la vita. È così che, giorno dopo giorno, scoprono le regole della sopravvivenza, imparano a dire a memoria il proprio numero in lingua tedesca, a muoversi, a difendersi, a sfuggire alla violenza delle kapò e delle sorveglianti; vedono nascere fra di loro fraterni vincoli di solidarietà che le aiuta soprattutto a non lasciarsi andare e a non gettare la spugna. E tutto ciò non era facile, se si pensa che nel campo l’umanità aveva raggiunto il più basso livello di degradazione, giacché era giunto a non rispettare neppure la maternità: basti dire che alle madri venivano strappati i loro bimbi appena nati per essere sottoposti ai più scellerati esperimenti. Quanto le forze alleate sfondano i vari fronti e da una parte i Russi, dall’altra gli Americani stringono come in una morsa il territorio tedesco, le industrie chiudono le fabbriche e le deportate vengono ricondotte nel “grande campo”, dove ormai regna il caos e la morte. Poche per volta le tedesche vengono liberate, le francesi e le belghe vengono salvate dalla Croce Rossa. Tra il 25 e il 27 aprile, poiché i Russi sono ormai a pochi chilometri, ad eccezione di alcune centinaia di donne gravemente ammalate, le ultime deportate rimaste nel campo (italiane, russe, slovene), abbandonate a se stesse dai loro aguzzini in fuga, devono ora affrontare da sole il momento critico dell’evacuazione.
La tragica marcia di 200 chilometri
Sono giunte ormai al limite della resistenza fisica. Distrutte, spaventate, sparute larve umane, guidate dai cani e dai soldati, sorrette solo dalle loro misere forze e spinte dallo spirito di sopravvivenza, eccole ora in cammino sulle strade tedesche: da una parte ci sono loro, lunga fila di stracci grigi e di relitti umani, al centro le truppe tedesche che fuggono di fronte al dilagare dell’esercito russo, sull’altro versante della stessa strada la popolazione che fugge anch’essa all’incalzare delle temutissime truppe russe. Camminano per circa 200 chilometri, durante i primi chilometri con la folle paura di sentirsi mancare le forze e di essere abbattute da quel colpo alla nuca con cui i loro aguzzini giustiziavano chiunque vedessero cadere: non poche morirono così, freddate sul ciglio della strada, ormai a poche ore dalla libertà. Le altre, le più fortunate, furono liberate dai Russi a Sverin o dagli Americani a Parkim: ma forse neppure la libertà le fece gioire, giacché gli ultimi giorni erano stati per loro così terribili che difficilmente si resero conto di ciò che stava loro accadendo. Queste donne attesero quattro lunghi mesi
prima di essere rimpatriate.
Il difficile inserimento
Difficile fu il loro reinserimento nel “quotidiano”: angosciate perché non si sentivano credute o perché leggevano nei volti altrui indifferenza e dubbio, si chiusero nel loro privato, sperando di riuscire a dimenticare. Ma per noi, donne di Ravensbrück, questo non fu possibile perché, malgrado il nostro silenzio e il desiderio di oblio, da questo campo noi non siamo mai uscite. Anzi, vorrei dire che da questo campo abbiamo portato con noi, indelebile, il ricordo di donne, che, malgrado la difficoltà del linguaggio (pensate che talvolta si riusciva a colloquiare parlando in latino), malgrado la differenza di religione, di ceto sociale, di cultura, di abitudini, hanno saputo intrecciare amicizie che sono durate nel tempo. Perché nel campo quelle donne hanno imparato a conoscere le basi della vera democrazia, e soprattutto perché il campo, ad onta di tutto il male che ne hanno ricevuto, è stato per loro anche una grande scuola di vita. Una “scuola” che ha insegnato loro a scrivere, in tante lingue, il più appassionato atto di accusa contro tutte le guerre e, nello stesso tempo, il più sublime atto di fede: fede nella pace tra i popoli e altresì fede nella invincibile forza che solo l’unione degli umili può ergere a difesa del destino dell’intera umanità. Ed ora, prima di chiudere con voi questi amari ricordi, permettete che io rivolga il mio pensiero riconoscente a Lidia, Lidia Rolfi, la compagna con cui abbiamo condiviso la prigionia, il lavoro in fabbrica e tante umane sofferenze, a Lidia che con il suo coraggio indomito ha saputo infondere in noi, donne di Ravensbrück, la forza per raccontare, per testimoniare, per non dimenticare. È a lei che si deve il merito di aver avviato, per prima, le ricerche sulle donne deportate a Ravensbrück, a lei, sopra ogni altra, che oggi dobbiamo la nostra presa di coscienza: “per raccontare, per testimoniare, per non dimenticare!” Grazie, Lidia, oggi anche tu sei qui con noi.
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L’intervento di Giovanna Massariello
Una ricerca ancora aperta
di Giovanna Massariello Merzagora
Accolgo l’invito di Bianca Paganini a prendere la parola, fuori dal protocollo ufficiale, ma “fuori protocollo” era mia madre Maria Arata per le sue attività antifasciste che la condussero alla deportazione a Ravensbrück; altrettanto “fuori protocollo” fu mio nonno Emilio Arata, antifascista che già nel 1926 fu obbligato all’abbandono del posto di segretario generale della provincia di Massa e Carrara e venne a Milano ricco solo dei suoi ideali e della prole; “fuori protocollo” erano i cugini di mio padre, Umberto e Bruno Bucci, che furono trucidati alle Fosse Ardeatine. Parlo come figlia di una donna di Ravensbrück. E penso che sia importante che a questa cerimonia siano presenti i figli di queste donne, laddove il programma nazista prevedeva lo sterminio e la non trasmissione della vita attraverso gli esperimenti di sterilizzazione. La mia generazione ha raccolto l’impegno del ricordo, che si propone a sua volta di passare ai figli, per quanto la fragilità delle nuove generazioni possa consentire. Il lavoro svolto da me e da mio fratello Paolo è nato nello spirito di ridare un nome a quante più possibili donne di Ravensbrück, quelle deportate italiane misconosciute anche nella testimonianza di deportate di altre nazioni europee, invise per l’odiosa frattura politica del Paese al quale appartenevano, sottovalutate nel loro sacrificio anche nelle ricerche ufficiali sulla consistenza numerica della deportazione nei diversi campi. La ricerca è ancora aperta, perché un’indagine sistematica che dovrebbe essere condotta negli archivi di più Paesi, non è stata ancora compiuta: tuttavia il ritrovamento di liste da noi pubblicate provenienti anche da Yad Vashem, e per dono del Cdec da un archivio polacco, consentono di dire che molto c’è ancora da fare. In base al numero dei trasporti e al quantitativo umano usuale per ogni trasporto, non si è lontani dal vero ipotizzando una presenza di donne italiane (compresi i “passaggi” da un Lager all’altro) a Ravensbrück non inferiore al 1.000. Di queste deportate, più di 600 ora hanno un nome. Esprimo tutta la mia emozione per questa giornata e abbraccio come fossero tutte nostre madri le donne di Ravensbrück qui presenti.
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La testimonianza di Ferruccio Derenzini
La resistenza negli ultimi giorni di aprile a Kottern
Circa 600 deportati a Dachau coinvolti nei “gruppi di azione” organizzati per contrastare la temuta liquidazione finale del campo. L’arrivo degli “Yankees”.
di Ferruccio Derenzini (Dachau 67.312)
Era il mese di aprile dell’anno 1945. Nelle fabbriche, dove lavoravamo, riuscivamo a captare notizie, di buona fonte, sui decisivi progressi delle forze alleate sui vari fronti. Mentre molti lavoratori civili tedeschi incominciavano ad assentarsi dal lavoro, “Meister” compresi, i “lavoratori liberi”, specie quelli francesi, svolgevano un servizio d’informazione di prim’ordine nei nostri riguardi. Ci incontravamo sempre più spesso negli atri e nei gabinetti degli stabilimenti, eludendo la sorveglianza delle SS. Dopo il 20 aprile le SS non ci portarono più a lavorare. Ne traemmo subito dei buoni auspici; nel comportamento dei nostri carcerieri intravedevamo qualcosa che doveva preludere - a scadenza sempre più ravvicinata - alla nostra liberazione. Mentre le notizie della rapida avanzata di un’armata americana in direzione di Kempten (il nostro campo era a Kottern bei Kempten) ritempravano le nostre residue energie, d’altro canto l’ordinanza di Himmler - di cui venimmo a conoscenza - decretava l’eliminazione di tutti i deportati politici prima che cadessero in mano agli Alleati. Per poter contrastare e neutralizzare l’infame progetto, ci organizzammo in “gruppi d’azione”. Ne costituimmo una trentina con i circa seicento deportati del campo. Ogni gruppo era formato da 15-20 di noi, tutti o quasi di nazionalità omogenea, per ovvie ragioni. Nel nostro gruppo eravamo in diciassette tra italiani e francesi. Gli altri gruppi erano formati da olandesi, polacchi e russi. Secondo i nostri calcoli i trenta gruppi corrispondevano più o meno al numero delle SS e cani poliziotto che avremmo dovuto affrontare nel momento più opportuno. Pur fisicamente debilitati, eravamo fiduciosi nel nostro piano, decisi a tutto, anche al sacrificio della vita nell’interesse di tutti. Avremmo venduto a caro prezzo la nostra “pelle ed ossa”. All’appello del mattino del 26 aprile 1945 non ci sorpresero né il pallore né il malcelato terrore delle SS. Già nella notte si affaccendarono a far caricare un carro agricolo di equipaggiamenti, cassette di munizioni e cibarie. A noi venne distribuita una misera razione del solito “pane alla segatura” e venne ordinato di prendere l’unica coperta che avevamo in dotazione. Decine di deportati ammalati, incapaci di reggersi in piedi, vennero abbandonati al loro destino, riuniti in un’unica baracca, sorvegliati da pochi militari anziani della riserva della Wehrmacht. Era in atto la precipitosa e anche temuta evacuazione del campo. Uscimmo dai reticolati per l’ultima volta. Procedevamo in doppia fila indiana ai due lati della strada; una strada a mezza costa tra monti e colline. In mezzo alla strada, distanziati tra loro di una ventina di metri, marciavano le SS con i cani. Il carro agricolo, spinto a braccia da una ventina di deportati, chiudeva la lunga colonna. In retroguardia una nutrita pattuglia di SS sorvegliava il “prezioso” carico del carro. Risalimmo la valle dell’Iller e dopo ore e ore di marcia passammo per Durach e Bodelsberg. Qualcuno, già sfinito dalla fatica, cadeva a terra; altri, invece, non più in condizioni di reggersi in piedi, rimanevano accasciati sul ciglio della strada. Le SS di retroguardia avrebbero pensato a dar loro l’eterno riposo a raffiche di mitra. Di quelle raffiche ne udimmo parecchie in quel giorno. La marcia proseguiva e l’eliminazione cominciava! Camminavamo ormai da più di dodici ore, ma la distanza percorsa non superava i trenta chilometri; anche perché i compagni che erano in testa alla colonna si prodigavano al massimo a rallentare la marcia, consentendo ai più provati di salvarsi da un’anticipata eliminazione. Giunse la notte. Le SS ci fecero stendere sino all’alba nel bosco ceduo a monte della strada ed esse si appostarono in posizione dominante per tenerci sotto il tiro dei mitra. Faceva molto freddo. La coperta non dava alcun calore ai nostri corpi esausti e affamati. La misera razione di pane era stata già divorata al mattino, e le radici strappate alla terra e le rare lumache contese ai compagni - negli argini della strada - in disperati slanci non avevano placato i morsi della fame. Ci raggomitolammo e stringemmo gli uni agli altri tentando di riscaldarci con i nostri corpi. I “gruppi d’azione” vigilavano, con due uomini, a turno, sulle eventuali mosse delle SS. Ma nessuno dormiva in quel clima di esasperata diffidenza e di tensione. Era un dormiveglia di attesa, di paura e di speranza. Sorse finalmente l’alba del 27 aprile 1945. Le SS ci rimisero in fila sulla strada, senza nemmeno più contarci; continuammo la marcia sempre più lenta, sempre più faticosa, verso l’ignoto; un ignoto che già si profilava tale anche per le stesse SS. Quel giorno - dopo aver superato Oy e Nessenfang - perdemmo ancora molti compagni lungo la strada; non si capiva più se assassinati o solo abbandonati a se stessi, perché eravamo entrati nel vivo di una battaglia tra tedeschi e Alleati. Già nel primo pomeriggio fummo spettatori di una precipitosa ritirata della Wehrmacht, incalzata da carri armati americani e da aerei da caccia che a volo radente spezzonavano le truppe in rotta. Gli effetti dei cannoneggiamenti e dei mitragliamenti erano ormai alla portata dei nostri occhi. Vedemmo con immensa soddisfazione un’interminabile colonna di autoambulanze della croce rossa tedesca stipate di ufficiali della Wehrmacht che disperatamente cercavano di sottrarsi all’inseguimento degli Alleati. Mentre nascosti nel bosco che fiancheggiava la strada assistevamo alla precipitosa ritirata tedesca, erano già calate le ombre della sera e le SS di scorta, terrorizzate, si erano dileguate e date alla macchia nelle alture circostanti. Eravamo nell’Allgau, alle porte di Pfronten. Ci accolsero le “Volks-sturm”con scariche di fucileria, che fecero ancora qualche vittima tra i nostri compagni. Il nostro gruppo era rimasto integro e, aiutato da elementi della Resistenza francese, venne messo al sicuro in un capanno di contadini adibito a deposito di attrezzi agricoli. Lì passò la notte, mentre dal di fuori giungeva l’eco dei passi cadenzati di una delle ultime pattuglie di “Panzerfaust”. Il mattino del 28 aprile 1945 i carri armati americani entrarono a Pfronten. Fummo definitivamente liberi! Salutammo ed applaudimmo con commozione quei simpatici “Yankees” - molti gli italo-americani - che sui loro mezzi corazzati andavano all’inseguimento dei tedeschi in fuga, cantando e suonando. Ci lanciavano sigarette, cioccolato e chewing-gum, come fosse tempo di sagra, non più di guerra; mentre noi ci sbracciavamo per salutarli e ringraziarli con entusiastici “Welcome” e ripetuti “Thank you”.
Da Triangolo Rosso, novembre 1997