TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)

presentazione di Ferruccio Parri

Capitolo 7 - Una tragica marcia

«LÀ ABBIAMO LASCIATO I NOSTRI MORTI»

 

8 aprile 1945. Lunghe colonne di prigionieri civili, vestiti a zebra, con una coperta arrotolata a tracolla e con misere bisacce sul dorso, attraversano a passo di marcia la civettuola cittadina di Hersbruck. La popolazione lungo le vie ci guarda ammutolita. Sul volto di quella gente, così fredda, così orgogliosa di sé, si legge lo sgomento: la nostra partenza diceva loro che l'occupazione della città era imminente. Quando giungemmo in questi luoghi, nel crudo dell'inverno, i bambini ci sputavano contro. «Italienische Hunde, Sie mussen arbeiten!». Cani di italiani, dovete lavorare! Il cannone americano e le vicende dei fronti europei avevano indotto i tedeschi a riflettere. Alfredo Nobel, inventore della nitroglicerina, dominava le ombre di Nietzsche e degli Hohenzollern. li mito della «Razza superiore» stava per cadere nella polvere. Mi voltai indietro, guardai per l'ultima volta il terribile Lager. Otto chilometri più innanzi eccovi lo Stollbau. Sulla destra della rotabile, il crematorio. «Là abbiamo lasciato i nostri morti» dissi all'amico Polo. «Molti morti». Il Poeta qui non potrà cantare:

«A egregie cose il forte animo accendono

l'urne dei forti...».

Il Poeta tace ma forse i superstiti coi figli benedetti, sosteranno un giorno davanti a questi simulacri per raccogliere un pugno di cenere, portarla nella terra natale e custodirla per i figli dei figli.

 

LA BOLGIA DANTESCA

 

Nei prati spuntano le prime viole. Per due giorni consecutivi siamo forniti dall'autocarro del campo che segue le colonne, poi la marcia continua a totale digiuno. Norimberga era caduta. Quarto giorno. Il cannone tuona da ogni parte. Cadono le ombre della sera. È notte fonda. ­ Quella notte fu terribile. Seicento uomini, comandati dall'Ober, di nostra triste conoscenza, esausti, affamati, arsi dalla sete, sono cacciati come una muta di cani randagi, sotto una tempesta di randellate, entro uno stavolo in muratura che poteva contenerne al massimo un centinaio. Gemiti, imprecazioni, bestemmie, baruffe. Impossibile trovare un posticino per rannicchiarvici. Nella mischia i più forti hanno ragione sui deboli, i quali, costretti dalla calca e dall'oscurità che regna completa a camminare sui corpi dei loro compagni, vengono picchiati da tutti. Ognuno impreca nella sua lingua. Sotto la sferza violenta dell'Ober capo e dei suoi aguzzini inferociti il tumulto si accende tra quegli uomini che non sono più uomini e non sono bestie. In quel caos tremendo io riuscii come per miracolo a scovarmi un angolino sopra una catasta di legna a ridosso di una parete. Mi pareva di sentirmi felice. Ero riuscito a salvarmi dalla mischia furibonda e mi ero posto al sicuro dalle randellate. Ad un tratto, mentre stavo consumando gli ultimi cento grammi di pane nero che tenevo di scorta, mi piombarono addosso due energumeni, i quali, colpendomi con una tempesta di pugni sul capo, accesero una lotta furibonda per strapparmi quel pane e per scacciarmi da quel posticino, denunciando ad alta voce all'Ober capo che io stavo rubando il pane dalle loro mani. Per fortuna le grida di quei due uomini abbrutiti dalla vita dei Lager si confusero col baccano indiavolato della bolgia infernale, altrimenti sarei stato fucilato all'istante. Nella lotta disperata il pane cadde in minutissime briciole sulla catasta di legna, mentre io, vinto da forze superiori, dovetti cedere il posticino a quei due manigoldi. Passai l'intera notte seduto in bilico su una tavola che sporgeva dalla catasta, con gli scarponi chiodati dei due intrusi che mi maciullavano il capo. In quella notte, per la prima volta nella mia vita, invocai la morte.

 

SEPOLTO VIVO

 

La notte seguente buona parte dei prigionieri dormì all'addiaccio adagiata su un sottile strato di paglia e vigilata dalle baionette. Ci sentimmo felici. Dopo due giorni di sosta forzata le colonne si rimettono in marcia per strade secondarie e per sentieri campestri attraverso i pianori e le foreste bavaresi. Aerei alleati e tedeschi si danno battaglia sopra le nostre teste. Il sole splende alto all'orizzonte e viene a confortare coi suoi tepidi raggi quella turba di miserabili. Altra sosta notturna. Altra bolgia infernale. I più audaci tentano di appropriarsi qualche patata cruda in una vicina fattoria, ma vengono freddati sul posto a colpi di pistola. Il maresciallo Ciro Mari, che oggi comanda la Stazione dei CC a Pordenone, in quella circostanza, ebbe salva la vita per puro miracolo. Un italiano riesce ad accaparrarsi una grossa rapa che divide tra i suoi compagni presenti. Una fetta di quella rapa fu donata anche a me: fu l'unico alimento che misi nello stomaco dopo diversi giorni di marcia forzata a pieno digiuno. Al mattino seguente gli uomini si rimettono in cammino. Si coprono venticinque chilometri al giorno. Ogni ora di marcia dieci minuti di sosta. I prigionieri incominciano a cadere al suolo. Un compagno della mia colonna si affloscia all'imbocco di una foresta. Egli viene trascinato sotto una pianta da una squadra di quattro prigionieri, ben piantati, muniti di picche e di badili. È la squadra dei «seppellitori» che segue la colonna. Ai piedi di quella pianta fu scavata rapidamente una piccola fossa ed il corpo di quell'infelice fu rotolato dentro e coperto con un leggero strato di terra. Quel povero essere respirava ancora ed aveva gli occhi aperti. Ero a conoscenza che si gettassero gli uomini in fin di vita nei forni crematori o tra le cataste dei cadaveri, e che li conducessero sani e vitali a morire in massa nelle camere a gas, ma la mia fantasia non poteva certamente immaginare che in Germania, nel Paese di Emanuele Kant, di Goethe, di Beehtoven, di Schopenhauer, di Carlo Marx, si arrivasse anche a seppellire vivi gli uomini. Più innanzi altri prigionieri cadono al suolo, poi altri ed altri ancora. Sinistri colpi d'arma da fuoco echeggiano nella foresta. Il comando della colonna aveva ordinato di freddare con due colpi di pistola alla nuca tutti gli uomini che cadevano al suolo. I colpi di pistola si susseguono. Tutto il percorso è seminato di cadaveri boccheggianti nel sangue abbandonati ai margini della strada. «Chi sarà quello?». «Un italiano... un russo... un polacco... un francese?».

 

SCENE BIBLICHE

 

La marcia continua. Vinti dallo sfinimento i prigionieri si sbarazzano della zavorra gettando via coperte, giubbe, bisacce, scarpe, camicie e persino la miski. Camminano seminudi sotto il sole di primavera. Anche mezzo chilo di peso; anche pochi grammi, sono troppi. I contadini bavaresi, impietositi, ci lanciano delle patate crude. Attraverso i centri abitati le donne ci avvicinano con secchi d'acqua potabile, ma i soldati di scorta le allontanano e ci sospingono in avanti col calcio del fucile. Proibito alla popolazione tedesca di porgere un sorso d'acqua ai prigionieri assetati. Durante una sosta prolungata i contadini di un villaggio offrono al comando delle colonne alcune marmitte di zuppa di mais. Tutti hanno ricevono la razione, fuorché gli italiani, i quali vengono cacciati indietro di prepotenza. Durante le notti si dorme all'addiaccio, sotto una pioggia scrosciante, avvolti in una coperta di cotone, distesi sull'erba, entro una stecconata di legno come tante mandrie di buoi, circondati dalle baionette e dalle mitragliatrici. La pioggia penetra fin dentro le ossa. Qualche anno dopo, in Italia, verranno respinte quasi in blocco le domande di pensione presentate dai pochi superstiti, in quanto le malattie acquisite in tali circostanze venivano giudicate «non per causa di servizio». I burocrati dei Ministeri non potevano certamente comprendere, a tavolino, qualunque fosse stata la loro qualifica o specialità, quello che era stato il dramma vissuto dal deportato in Germania; e non potevano, di conseguenza, valutare le «minorazioni» subite dal nostro organismo, non solo fisiche ma benanco di altra natura, come la perdita parziale della memoria, astenie psico-nervose, irritabilità, paralisi della volontà attiva, squilibri, ecc. Entro quella stecconata i prigionieri, riuniti in gruppi, accendono qua e là dei fuocherelli per asciugare le casacche, cuociono qualche patata cruda e del radicchio selvatico. Una notte io e l'amico Polo, sempre uniti, riusciamo a raccogliere tre patate lanciate dai contadini entro il recinto. Tre patate per due uomini in sei giornate di marcia. Quei bivacchi notturni rischiarati dai bagliori dei fuocherelli accesi qua e là offrono la visione di orde primitive, selvagge.

 

VIA CRUCIS

 

Mentre attraversiamo un piccolo centro abitato un contadino esce da una casa con una grossa pagnotta in mano e la lancia al mio gruppo. Cento mani si alzano per afferrarla. Un compagno l'afferra due file dopo di me, ma l’Ober capo si precipita su di lui, gli strappa di mano la pagnotta e la porge ad un suo fedele aguzzino. Poco più innanzi vediamo quel bestione caricarsi sulle spalle un ragazzo, portarlo così per un lungo tratto, indi adagiarlo con cura su un carro che segue la colonna. Chi era quel giovane e che cosa rappresentava egli per l’Ober capo? La marcia continua. La colonna uscita dalla foresta imbocca una salita a tornanti. Il cielo è limpidissimo, d'un azzurro profondo, punteggiato da bianchi ciuffi di nubi vaganti che si staccano dal verde cupo degli abeti, formando un quadro naturale di incomparabile bellezza. Lungo quella salita sono dislocate le icone di una Via Crucis. Il Calvario di Cristo riviveva dinanzi al Calvario di quella turba di morituri. I prigionieri passano dinanzi a quelle immagini sacre a capo chino, girano lo sguardo su di esse e pregano in silenzio. Lo spettacolo è commovente. In cima al colle si profila bianchissima una Chiesa cattolica. Sul sagrato di quella Chiesa spicca un alto Crocefisso in legno. Sosta di dieci minuti. Il Cristo morente sulla Croce pare ci guardi con infinita pietà. A pochi passi dalla Chiesa ecco un ruscello d'acqua limpida che scorre tra il verde dei prati. Il comandante della colonna ci consente, per la prima ed unica volta, di avvicinarci a quel ruscello per dissetarci. La marcia continua. Tuona nuovamente il cannone. I proiettili esplodono a poca distanza da noi. Lungo la rotabile colonne di automezzi militari battono in ritirata. Nelle vie di un centro abitato incontriamo colonne di prigionieri alleati, in divisa militare, anch'essi in movimento. Sono americani russi francesi inglesi. Essi ci salutano commossi, ci porgono delle sigarette e dei biscotti. Il nostro cuore s'allarga. Durante le soste i prigionieri si gettano carponi nei fossati per raccogliere radicchio selvatico. L'erba, l'erba cruda dei prati, è diventata ormai da più giorni il nostro unico cibo.

 

PRIMAVERA SUL DANUBIO

 

Dall'alto di una ripa ecco delinearsi una valle lussureggiante. Alte ciminiere fumano, la ferrovia si snoda a più binari, linde cittadine si alternano tra parchi e giardini illuminati dal sole. Tutt'intorno bianche casette e ciliegi in fiore. In fondo valle scorre lento maestoso un fiume: il Danubio. Le carni sono stanche, ma lo spirito non è ancora morto. Primavera. I versi del poeta indiano Kàlidâsa mi balzano alla memoria:

«Primavera coi teneri concerti

De' soavi usignoli ebbri d'amore

Par che mossa a pietà de' miei tormenti

Mi chieda la ragion del mio dolore».

La brezza mattutina diffonde nell'aria ondate di profumo. Poesia. Il mio pensiero corre alla terra lontana, corre al mio bel Friuli ed ai ridenti colli tarcentini anch'essi coperti di ciliegi in fiore. Tutta la natura è in festa, sul Danubio e nella mia terra lontana: festa di luci e di colori. Quella visione luminosa venne interrotta bruscamente da una scena inumana che mi richiamò d'improvviso alla realtà. Quattro fanciulli corrono a perdifiato verso una vicina fattoria e di lì a poco ritornano con involtini tra le mani che offrono ai prigionieri. Ci offrono del pane, delle patate, del lardo, col sorriso sul volto e con la gioia nel cuore: la gioia incontaminata di chi sa di donare senza nulla chiedere; ma i soldati di scorta allontanano quei ragazzi impedendo loro di compiere quell'atto di umana pietà, e col calcio del fucile colpiscono i prigionieri che avidamente stendono la mano. «Sinite parvulos venire ad me», aveva detto Gesù alle genti... La stessa scena si ripete con una giovane elegante signora che esce da un villino con un canestro tra le mani colmo di panini imbottiti. I fanciulli si fermano impietriti a guardare la scena a distanza, mentre quella giovane signora, rientrando nel suo villino, sosta sulla porta, congiunge le mani al cielo ed impreca apertamente contro quei soldati crudeli. Con quei due gesti il popolo tedesco gridava: basta! Il destino di Hitler era segnato.

 

ASSALTO ALL'ARMA BIANCA

 

Attraversato il Danubio - che non è blu, come lo vide un mattino d'estate Giovanni Strauss passeggiando sulle sue sponde a Vienna, con una fanciulla dagli occhi azzurri - eccoci a Saal S. Donau; indi, a pochi chilometri, in un piccolo campo di concentramento. Lo stato di abbandono in cui è lasciato quel campo lascia intravedere che tutto stia per finire, che il grande sipario stia per calare sulla tempesta che sconvolge il mondo. Qui si concentrano tutte le colonne di prigionieri partite da Hersbruck. Arrivati finalmente in un Lager, tutti ci attendiamo la distribuzione del rancio, ma questa attesa è vana. Si cuoce nella miski, in gruppetti separati, l'erba del prato. Un compagno di Gorizia, che passa la mano sotto il filo spinato del campo per raccogliere un ciuffo di radicchio selvatico, è freddato in quella posizione con un colpo di fucile. Gli infermieri del campo, che dispongono delle razioni di zuppa dei moribondi ricoverati al Revier, si avvicinano ai nuovi venuti per proporre il solito baratto. «Avete tabacco, del sale?». Solo l'indomani sera arrivano le marmitte con una zuppa di piselli in scatola. È un assalto. I capi colonna si sforzano di allineare i prigionieri per la distribuzione del rancio, ma i prigionieri, spinti dai morsi della fame, si lanciano in disordine sulle marmitte e ne nasce una mischia tremenda. In quell'istante suona l'allarme aereo. «Tutti nel blocco!». È notte. Le luci si spengono. Cessato l'allarme gli affamati tornano alla carica. La confusione raggiunge il parossismo. Allora si assiste ad un fatto terribile: militari, capi colonna, capi squadra, muniti di stanghe, di bastoni e del calcio del fucile si avventano furibondi sulla calca dei prigionieri. La scena è indescrivibile. I colpi cadono all'impazzata su tutti. La massa degli affamati sotto quei colpi si sbanda, ondeggia, si contrae, torna alla carica. In quella mischia anch'io mi buscai una bastonata alla testa che mi stramazzò al suolo. Fui salvato per puro caso da un compagno di Gorizia che si trovava accanto a me. Fu l'ultima bastonata che presi in Germania. Le marmitte, ancora piene, vengono ritirate, ed i prigionieri sono cacciati entro il «blocco», dai militari delle SS con un assalto all'arma bianca, senza la consumazione del pasto. All'alba del giorno seguente io uscii, non visto, sul piazzale per rendermi conto di ciò che era accaduto in quella notte tremenda. Quattordici cadaveri erano disseminati al suolo.

 

ESSEN! ESSEN!

 

Nella stessa mattinata visita medica. Si trattava di scegliere quelli che potevano proseguire la marcia a piedi e quelli che dovevano proseguire con un convoglio ferroviario. Ottenni dal medico, per me e per l'amico Polo, di far parte del convoglio. Proseguire a piedi, per me, come per tanti altri, voleva dire morte sicura, Tirai un profondo respiro: fra poche ore, pensai, saremo a Dachau. In quelle condizioni nella mente di ciascuno di noi il campo di concentramento ci appariva come l'unica speranza di salvezza. Nel Lager di Saal S. Donau, per un pizzico di tabacco che avevo ricevuto in dono a Norimberga, ottenni in cambio da un infermiere una miski colma di densa zuppa di piselli, che consumai assieme all'amico Polo in un angolo appartato. Forse fu quella miski di zuppa che mi salvò la vita durante quella tragica marcia. Un altro compagno invece, poco avveduto, che aveva fatto lo stesso cambio, mentre stava consumando la zuppa in mezzo ad altri prigionieri, fu accerchiato da cinque compagni che affondarono le dita nella sua miski. Ne nacque una zuffa. La miski fu rovesciata ed i piselli caddero nel fango sotto i piedi dei contendenti. Sei uomini si gettarono al suolo ed affondarono le unghie nel pantano portando alla bocca manciate di terra e di piselli. Verso mezzodì le colonne appiedate, consumata finalmente un'abbondante razione di zuppa, si misero in marcia. Con queste colonne partì l'Ober capo, l'uomo violento e crudele che il lettore già conosce. Quando quel criminale mi passò davanti, dagli abissi del mio animo salì un'imprecazione: «Che tu sia maledetto!». Erano i morti che imprecavano. L'indomani disposero anche per noi la partenza. Ci attendevamo la distribuzione del rancio come era stato fatto per le colonne appiedate, ma l'attesa fu vana. Le colonne si misero in marcia per raggiungere lo scalo ferroviario. Non si mangiava da otto giorni. Appena voltate le spalle al Lager sopraggiunge un contr'ordine : «Tutti indietro!». Allora si assiste ad uno spettacolo che forse non si è mai verificato nella storia del mondo: quattrocentotrenta uomini rompono le file e si buttano carponi sui prati circostanti a brucar l'erba come una mandria di buoi al pascolo. Solo l'indomani, terzo giorno di sosta in quel Lager, ci viene somministrata una razione di zuppa. Consumato il pasto siamo condotti su un binario morto a Saal e fatti salire su cinque vagoni bestiame scoperti: ottantacinque uomini per vagone. Tutti ci attendevamo la dotazione di una razione di pane per il viaggio, ma inutilmente. A tarda sera i prigionieri si mettono a gridare in coro: «Essen! Essen!». Mangiare! Mangiare! Sul far della notte una locomotiva si aggancia ai vagoni ed il convoglio parte, ma dopo alcuni chilometri di percorso la macchina cessa di sbuffare ed il convoglio si ferma in mezzo ad una foresta di abeti, in piena oscurità. La scorta militare scende, piazza le mitragliatrici attorno al convoglio, accende un fuoco e si prepara la mensa. Quegli uomini mangiano a sazietà sotto i nostri occhi: è durissima cosa veder mangiare gli altri quando si è martoriati dalla fame. Nuvoloni neri si addensano all'orizzonte. Piove a dirotto. Tutti siamo invasi dal terrore. «Che ci abbiano condotti qui per finirci in mezzo alla foresta?». Tutto potevamo attenderei oramai dai tedeschi. Colpi di fucile e qualche raffica di mitra echeggiano ad intervalli a scopo intimidatorio nell'oscura foresta, pur tuttavia qualcuno dei nostri in quelle drammatiche circostanze tenta la fuga. Sui vagoni si accendono le solite mischie tra i prigionieri per contendersi un centimetro di spazio. Urla, pugni, bestemmie. I più prepotenti riescono a sdraiarsi comodamente senza riguardo verso gli altri, i quali sono così costretti a rimanere in piedi per ore e ore pressati corpo a corpo. Il quadro del dramma è presto fatto. Sui vagoni c'è l'inferno, fuori sparano i fucili, dal cielo cade una pioggia torrenziale, e tutto si svolge a notte alta nel silenzio cupo di una foresta. Può sembrare romanzesco questo racconto, ma tutto è reale. L'indomani la scena è immutata. Piove ancora. All'alba del terzo giorno sul mio vagone tre sono i morti. Sugli altri vagoni identiche scene. Siamo oramai rassegnati a morire tutti per sfinimento e per fame, uno dopo l'altro, in quel luogo deserto e selvaggio. «Chi documenterà al mondo, ai nostri cari lontani, quella che fu la nostra tragedia?». Lo stesso giorno, a pomeriggio avanzato, quando tutte le speranze si erano oramai dileguate, ecco giungere una locomotiva sbuffando nella fitta abetaia. La macchina viene agganciata ai vagoni in sosta ed il convoglio si mette in moto.

 

UN UFFICIALE DELLE SS PIANGE

 

Eccoci nuovamente alla stazione di Saal sul Danubio. Dopo una breve sosta il convoglio riparte portando seco quel carico di morti e di semivivi. Il Danubio, il grande fiume che scorre lento e maestoso nella pianura bavarese per trovar pace nel Mar Nero, è lasciato alle spalle. Nelle stazioni in transito la popolazione si avvicina alla tradotta con sacchi colmi di patate crude che lancia sui vagoni ai prigionieri. Rendiamo omaggio al contadino bavarese. Durante una sosta un friulano scende dal vagone e si avvicina ad una fontana per dissetarsi; un colpo di fucile lo fredda mentre egli apre la bocca sotto lo zampillo ristoratore. Gli uomini continuano a morire. Una mattina all'alba qualche cosa si muove tra il cumulo dei cadaveri, avvolto in una coperta: è un prigioniero ritenuto morto che vive ancora e si dimena lentamente per liberarsi. Sopra di lui due polacchi, in piedi, si disputano accanitamente una patata cruda, calpestando quel disgraziato con le scarpe chiodate. «Levatevi di lì!» gridai loro in tedesco. «È ancora vivo». Quei due manigoldi non si mossero e continuarono ad azzuffarsi. Allora, aiutato da un compagno ungherese, raccolsi le mie povere forze e tentai di farli scendere a viva forza dalla catasta dei cadaveri. Non ci fu verso. La patata cadde tra il cumulo dei morti e quel povero essere che ancora si dimenava a malapena, spirò sotto i miei occhi, finito dai suoi compagni di sventura. L'ombra dell'abate Pascal mi apparve dinanzi e mi sembrò volesse ripetere la sua dura sentenza: «Più conosco gli uomini e più amo le bestie». All'alba del quarto giorno ventidue cadaveri erano ammucchiati in un angolo del mio vagone e, tra questi, due friulani di Treppo Grande. Il cielo si fa limpido, sereno. Il  sole splende sulla natura in fiore e sulle miserie umane. Il  convoglio rallenta. Si ferma. Dachau ! Da quel convoglio scendono a stento duecento sessanta larve umane: cento settanta cadaveri, spogliati dalle loro vesti, ridotti al puro scheletro, rimangono freddi ed inerti su quel convoglio, accatastati negli angoli dei vagoni, a testimoniarci gli orrori di un regime politico e lo stato semibarbaro dell'uomo contemporaneo. Incolonnati per cinque, i sopravvissuti, povere creature che non hanno più nulla di umano nelle loro sembianze, coperti di stracci e con una misera casacca a tracolla, si trascinano in avanti come tanti spettri, come tante ombre vaganti, barcollando sulle ginocchia che non reggono più il peso del corpo, e si avviano passo passo verso il campo di concentramento. Un ufficiale delle SS, ritto sulla porta di una villetta sul viale che conduce al campo di concentramento, a vedere quel miserando spettacolo china la testa e piange. Quanti uomini perirono in quella tragica marcia? Cinquecento?.. Mille?.. Duemila?.. Chissà! Forse nessuno lo saprà mai.

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