TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI
Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)
presentazione di Ferruccio Parri
Capitolo 5 - Folsselbürg
RICEVIMENTO IN TERRA TEDESCA
«Alle aussteigen!». «Tutti scendano!». Un plotone delle SS, schierato di fronte alla tradotta, punta i fucili mitragliatori verso di noi, mentre una muta di cani poliziotti, che abbaia maledettamente, tenuta a stento a guinzaglio, si avventa contro i nuovi ospiti. Questo il ricevimento in terra tedesca. Quella scena inaspettata è un colpo per tutti. Il campo di punizione balena immediatamente nel nostro pensiero. «Porci d'italiani! Fuori le sigarette; fuori i liquori; fuori le cibarie». E giù colpi all'impazzata col calcio del fucile: sulla testa, sulle gambe, sui fianchi. I cani lupo ci addentano i polpacci. Incolonnati per cinque ci conducono verso il Lager. Poche case tozze coi tetti altissimi, a ripido spiovente; un modesto albergo; la chiesetta gotica col campanile aguzzo; le scuole comunali. Più in alto, sul pendio del colle, alcune casette civettuole in legno per l'alloggio degli ufficiali di Hitler. Le poche persone - donne, vecchi e fanciulli - che incontriamo in questo lontano villaggio nordico, sperduto tra i pianori e le selve dell'Alta Baviera, ci guardano senza alcuno stupore. Nessuna espressione di pietà su quei volti. Qualche prigioniero, lungo il percorso, cade scivolando sul ghiaccio e sulla neve, ma viene fatto rialzare con calci brutali. Se qualcuno rimane indietro d'un solo passo, viene battuto e sospinto innanzi col calcio del fucile. I cani poliziotti ci strappano le vesti. Un povero vecchio, che cammina stentatamente davanti a me, ha ridotto i pantaloni a brandelli e mostra le carni vive. Il suo volto è terreo. Un soldato di scorta cammina al mio fianco. Dall'espressione del suo sguardo intuisco che vi è in quell'uomo un fondo di bontà. Mi azzardo a rivolgergli la parola. «Prego, si va a lavorare o ci portano in un campo di concentramento ?» «Non lo so» mi rispose. Seppi solo più tardi che ai soldati tedeschi era proibito di rispondere a qualsiasi nostra domanda, come era proibito a noi di rivolgere loro la parola. Ma queste regole nessuno ce le spiegò mai; abbiamo dovuto impararle a colpi di bastone.
UNA VISIONE DEL CAMPO DELLA MORTE
I ruderi di un antico castello germanico, da cui svetta un'alta torre diroccata ed annerita dal tempo, dominano, dalla sommità di una altura pietrosa, come giganti neri, come spettri sinistri e solitari, i pianori e le selve circostanti coperte di neve. A pochi chilometri si profila, bianchissimo, sulla cima d'un colle ameno, un santuario cecoslovacco: simbolo della fede e del dolore umano. Sullo sfondo di questo paesaggio fantastico, avvolto in un banco di nebbie perenni, stormi di corvi svolazzano attorno ai blocchi, si appoggiano sulle nude pietraie e sugli abeti ondeggianti battuti dalle tempeste. Ai piedi della rocca, in una stretta conca solitaria, denominata «la Valle dell'inferno», si distende ad ampi terrazzi il campo di concentramento «Konzentrazionsarbeitlager» sommerso anch'esso nel gelo e nella neve. All'ingresso del campo, il palazzotto del comando - una solida costruzione in pietra viva - poi l'ampio piazzale delle adunate, i bagni di pulizia, le cucine, l'infermeria, il bordello per i tedeschi, il magazzino viveri ed infine i baraccamenti, chiamati «blocchi». In fondo al campo, il crematorio, dove i corpi umani vengono gettati alle fiamme - morti o agonizzanti - e ridotti a poche once di fosfato di calcio e ad una colonna cinerea di fumo che si disperde nell'aria grigia. Il Lager è recintato da una doppia rete metallica e da fili spinati attraversati dalla corrente ad alta tensione. Intorno al Lager si alzano le torri di guardia, munite di mitragliatrici e di fari proiettori che scrutano nella notte. Questo campo, tristemente famoso, è un campo - madre, con 18 dipendenze, o campi di lavoro, dislocati nell'Alta Baviera, che contiene 18 mila prigionieri civili di diverse nazionalità. Esso fu costruito, a quanto ci dissero, per ordine di Adolfo Hitler fin dal 1934, dopo il colpo di stato del 2 agosto, per rinchiudervi i suoi avversari politici.
NUDI NELLA TORMENTA DI NEVE
All'entrata del campo, la colonna dei prigionieri è obbligata a rendere il saluto militare al comandante, piazzato come una statua sulle gradinate del palazzotto del comando. Ed eccoci introdotti in un ampio salone che contiene centinaia di persone. Un ordine perentorio ci viene dato, in tono selvaggio, tradotto in più lingue: «Spogliatevi ! ». Poi, via, via: «Consegnate il denaro, gli orologi, le bottiglie di liquori, le sigarette, le scarpe, il cappello, le valigie, le coperte, gli oggetti personali...». In una parola: tutto. Denaro, penna stilografica, orologio, portafogli, vengono ritirati da un ufficia1e e custoditi in un apposito sacchetto; tutto il resto viene buttato alla rinfusa in mezzo alla sala. Nessuno ebbe più nulla di quanto gli apparteneva. «Los! Los!». Presto! Presto! Tutte le operazioni devono essere fatte in un baleno e senza pronunciare motto. Grossi tubi di gomma attorcigliati con filo di ferro e robusti nerbi di bue, accompagnati da grida selvagge che richiamano alla mente l'uomo delle caverne, volano a casaccio sui nostri corpi ignudi. Il terrore invade i nostri spiriti. Nudo, mi presento all'ufficiale con una fotografia in mano. «Vi prego tenente, lasciatemi questa fotografia: sono le mie due bambine». «Nach dem Krieg». Dopo la guerra, mi rispose secco quell'uomo, strappandomi di mano l'effige delle mie creature. Dopo la guerra... Quella fotografia mi era stata consegnata alla stazione di Udine, dalla mia figliola, al momento della partenza. Pochi minuti dopo fummo cacciati a colpi di bastone sul piazzale delle adunate, completamente nudi, nella tormenta di neve. Il primo atto del dramma è cominciato.
IL BLOCCO CONTUMACIALE
Centinaia di corpi ignudi sfrecciano come tante ombre nella densa caligine, agitata dalla tempesta di neve, ed infilano un sotterraneo: un ampio salone attrezzato per la doccia collettiva. La prospettiva di un bagno di pulizia ci rincuora. Siamo tutti stanchi, sudici, carichi di pidocchi, col corpo congelato. In quelle condizioni, un bagno di pulizia ci sembrava una provvidenza; ma quell'operazione ci getta nuovamente nel terrore e nello sgomento. Fattaci la famosa «Strasse» a rasoio dalla fronte alla nuca, rasati i capelli a zero ed ogni altra parte del corpo, e bagnate quelle parti con uno straccio imbevuto di petrolio e di creolina, siamo condotti in massa nel salone-doccia. L'acqua calda scende a rosa dai diaframmi metallici fissati al soffitto, generando un denso vapore che ci toglie la vista e il respiro. In pochi minuti la doccia è fatta. Ad un tratto cinque aguzzini, muniti di nerbi di bue, di tubi di gomma e verga metallica, si gettano come pazzi su di noi e ci battono a casaccio, senza misericordia, in ogni parte del corpo, sulle carni nude. Sotto i colpi degli aguzzini inferociti i prigionieri si serrano smarriti in gruppi, cercando ciascuno di penetrare nel centro, onde sottrarsi alla fustigazione. Terminata quella scena si passa nel magazzino vestiario per la dotazione del corredo personale. Una camicia, mutande, giacca, pantaloni, un paio di calzetti, pullover, guanti, berretto e pianelle di legno ai piedi. È tutto. Nessun indumento per il cambio. Non un fazzoletto da naso. Non un temperino. Non una matita. Nessun oggetto personale, insomma. Quegli indumenti appartenevano già ad altri prigionieri passati per la disinfezione. Siamo vestiti con le fogge più strane, come tanti arlecchini da circo equestre, buffi fino al ridicolo. Chi indossa una giacca magiara e chi un giubbetto russo, chi calza pantaloni che gli arrivano alle ginocchia e chi li trascina per la sala, chi indossa una camicia a tunica e chi si infila una camicia stretta come una budella con polsi che non riesce ad abbottonare. Conciati in quella maniera, senza cappotto e senza scarpe ai piedi, siamo condotti a passo di marcia, incolonnati per cinque, al blocco contumaciale: blocco 21. Lungo il percorso un compagno rivolge la parola all'uomo che ci scorta. Per tutta risposta si prende un scarica di pugni sotto il mento che lo rovesciano al suolo. Entrati nel blocco siamo invitati a prendere posto in un batter d'occhio nelle cuccette: una serie di giacigli di legno, larghi 70-80 cm., sovrapposti a castello. Quattro uomini per cuccetta; ed anche sei. Se uno di noi sentiva il bisogno di girarsi, dovevano muoversi tutti assieme come un sol blocco. «Los! Los! Hunde!». Presto! Presto! Cani! Sotto la sferza degli aguzzini le cuccette sono prese d'assalto ed occupate. I pochi superstiti, leggendo queste pagine, si vedranno ancora accatastati su quei castelli di legno, con le teste e i gomiti sporgenti e con gli occhi sbarrati, muti e sgomenti, tra il frastuono di grida selvagge e sotto la furia delle nerbate. Di lì a poco ecco entrare il capo - blocco, un energumeno con gli occhi d'acciaio, frusta in mano, triangolo verde sulla giacca, che indicava: reati comuni. Era questi un tedesco condannato all'ergastolo per omicidio e tratto dal penitenziario per tenere la disciplina nel campo. Un autentico criminale, dunque, che aveva modo di soddisfare qui i suoi istinti aggressivi acquistando benemerenze, e, forse, a guerra finita, il condono. Quel criminale - cinico, altezzoso e brutale - ci tenne un discorso, tradotto in diverse lingue lì per lì, che suonava press'a poco così: «Voi siete in un campo di concentramento. Qui regna la disciplina più ferrea. Il nostro modo di trattarvi dipenderà dal vostro contegno. Chi ruba, chi tenta la fuga, chi commette atti di sabotaggio, eccetera eccetera, verrà punito col carcere, con la fucilazione, verrà impiccato o portato vivo al crematorio». Eravamo tutti convinti ormai, dalle esperienze già fatte, che quelle parole non venivano pronunciate invano.
IL NUMERO 41927
L'indomani fummo catalogati per nazionalità, razza, professione, età, luogo di nascita, religione, ed ognuno fu contrassegnato con un numero. Il signor Pietro Pascoli - così tutti gli altri - da quel momento divenne il numero 41927. La personalità era distrutta. Il prigioniero politico non può avere una volontà, una opinione, non può esprimere un desiderio, un bisogno. Non ha diritti, ma soltanto doveri: doveri ai quali egli deve sottoporsi prontamente, ciecamente, come un automa, pena il castigo o la morte. L'ultimo degli aguzzini ha diritto di vita o di morte sul prigioniero politico, come il patrizio sullo schiavo nel mondo antico. Terzo giorno: visita medica. In meno di un'ora 800 uomini sono visitati e classificati per categoria. in base alla loro costituzione fisica. Le categorie sono quattro e ad ognuno di noi viene stampato in rosso sulla fronte il numero corrispondente alla categoria assegnata. Il numero 1 indica idoneo ai lavori pesanti, il 2 ai lavori manuali, il 3 ai servizi sedentari, il 4 inabile al lavoro, che voleva dire, praticamente, candidato al crematorio. Questa classificazione non verrà poi rispettata: compagni classificati di 3.a categoria vennero inviati ai lavori pesanti, come capitò al compagno Morra e ad altri. Un triangolo rosso con una I in mezzo, cucito sulla giacca e sui pantaloni, indicava: «politico italiano». Il triangolo giallo contrassegnava gli ebrei. Un infuso di tiglio al mattino, un litro di zuppa di rape, trecento grammi di pane nero, confezionato con segala e segatura di legno, venti grammi di margarina od un pezzetto di Wurst, costituivano il rancio per 24 ore. L'acqua del campo non era potabile. Chi ne avesse fatto uso per spegnere la sete veniva colto dalla dissenteria o dal tifo. Migliaia di deportati sono periti così nei Lager tedeschi. Alle 4.30 del mattino, a tutta notte, una voce vigorosa, risuonava nel blocco, seguita dal maneggio del bastone. «Aufstehen! Heraus! Los! Los!». Su, alzatevi! Presto! Fuori! Fuori c'è il ghiaccio, c'è la tormenta di neve, c'è la nebbia densa che penetra nelle ossa. «Fuori!». Ottocento uomini sono inquadrati in un baleno nel cortile. I fari proiettori, installati sulle torri di guardia, rompono le tenebre ed incrociano le loro luci sinistre su di noi. Tutt'intorno le abetaie ondeggiano mugghiando sotto la bufera che infuria. Il freddo penetra nelle carni. Le povere vesti s'inzuppano d'acqua. «Mütze auf! Mütze ab!». «Su il berretto!, Giù il berretto!»... «Destr riga!... Sinistr riga!»... Così per mezz'ora, per un'ora. «Voi italiani avete bisogno di disciplina» ci dicevano. Poi l'appello, il famoso appello, lungo, interminabile. Centinaia di uomini, tenuti in posizione di attenti, vengono chiamati ad uno ad uno per il loro numero di matricola, in lingua tedesca, senza più traduzioni. Nel Lager non si farà più il nostro nome. «41925» «Hier!» «41926» «Hier!» «41927» «Hier!» Ben pochi conoscevano la lingua tedesca, ma tutti dovevano rispondere prontamente alla chiamata. Chi non rispondeva veniva battuto. Chi si scostava dalla sua fila veniva battuto. Se qualcuno mancava all'appello, o vi era un errore di chiamata, l'appello si ripeteva sotto tutte le intemperie, per ore e ore, con 25 e 30 centigradi sotto zero. Anche gli ammalati erano costretti ad uscire all'aperto, sotto la tormenta di neve, per l'appello. Terminata l'operazione si rientrava nel blocco, in fila indiana. Il camerone era riscaldato con stille a segatura ed era illuminato a luce elettrica. Nel rientrare, colui che passava dinanzi all'ufficio del capo - blocco era battuto. Colui che non faceva il saluto a quell'aguzzino veniva battuto. Il prigioniero che non eseguiva con prontezza qualsiasi ordine, dato in lingua tedesca, veniva battuto. Le ore della giornata, ore lunghe interminabili, si passavano per lo più in piedi, ammassati nei corridoi che separavano i castelli di legno; altri rimanevano in cuccetta ad osservare le scene ed a meditare sulla propria sorte, sulla vita dell'uomo in questo benedetto mondo, e sulla famiglia lontana. Sentimenti, convinzioni, cultura, ideologie, venivano poste al vaglio di questa nuova tremenda realtà che mostrava l'uomo regredito ai suoi istinti primari, spoglio da ogni soprastruttura convenzionale. Qualcuno non riusciva a mandar giù la brodaglia di rape e la passava a qualche amico o compagno di sventura, ma doveva ben presto assuefarsi al menù del Lager se voleva sopravvivere. Più che a parole i prigionieri politici si parlavano tra loro con gli occhi. Erano espressioni di ansia, di angoscia, di odio, di stupore, di rivolta, di sbigottimento, di terrore. «Quanto durerà questa guerra maledetta?». «Finirà prima la guerra, o finiremo prima noi?». Era un duello tremendo con il tempo; e la posta di questo duello era la nostra stessa esistenza. Sul far della sera, all'ora del crepuscolo, nuovo interminabile appello in corte. Alle 22 silenzio. L'indomani tutto si ripeteva con regolarità cronometrica. Al contumaciale, così per gli altri blocchi, era proibito uscire in cortile e proibito circolare per il Lager. Ci era consentito di uscire soltanto per sciacquarci il viso e per fare i bisogni corporali in una baracca accanto, nella quale venivano accatastati, completamente nudi, i cadaveri dei compagni deceduti durante la notte. Visione macabra, ma l'uomo ha una sorprendente capacità di adattamento alle situazioni e alle vicende di questo mondo.
IL DOTTOR FELICE DA VILLA
Oltre le bastonate, che chiameremo qui «normali», c'erano le punizioni vere e proprie. Un tale per aver orinato di notte attraverso una fessura del blocco, si buscò cinque nerbate sul dorso; poi, fatto salire su uno sgabello di legno venne comandato a rimanervi impalato per due lunghe ore con le mani congiunte a rovescio dietro la nuca. Pare un gioco da caserma, questo. Provatelo, ma provatelo a lungo... Un altro per aver lordato il pavimento, colto da dissenteria, si prese 25 nerbate. Vedo ancora quel disgraziato disteso bocconi sullo sgabello di legno col carnefice in piedi che mena come un forsennato su quelle povere carni straziate, guidato da un sadismo feroce. La vittima geme, urla, si dimena, implora pietà, ma inutilmente. Caduto il venticinquesimo colpo egli si affloscia sul pavimento, indi lentamente si rialza e raggiunge con fatica la propria cuccetta. Un giorno venne la volta di un amico carissimo: il dottor Felice da Villa, di Udine. Felice da Villa, non molto felice, in verità, era medico divisionale della Garibaldi, nella zona libera di Faedis, in Friuli. Durante la ritirata delle Forze partigiane, nell'ottobre del '44, egli si rifiutò di seguire i comandi per restare sul posto in quel di Gradiscutta, nell'ospedaletto da campo n. 130, ad assistere i suoi feriti. Mentre le truppe partigiane ed i comandi si ritiravano in zona di sicurezza per portarsi su nuove posizioni, da Villa esclamò con la fierezza di un capitano di mare: «Se la nave andrà a picco affonderò anch'io». Fu catturato dai cosacchi nell'esercizio delle sue funzioni di medico, tradotto in Via Spalato e deportato in Germania. Il dottor da Villa era affetto da un'infezione diffusa al cuoio capelluto, dovuta allo strappo dei capelli praticatagli qualche giorno prima da un barbitonsore russo. In quelle condizioni, privo di ogni cura, l'amico da Villa non trovò di meglio che fasciare le parti martoriate con degli stracci di coperta rinvenuti in un angolo del blocco. Per questo delitto il dottor da Villa si buscò una scarica di nerbate sulla testa, proprio sulle parti ammalate. Mi sentii spezzare il cuore. Tipo piuttosto depressivo, il da Villa fu vinto dallo sconforto. Strisciando tra i castelli di legno riuscii pian piano a portarmi fino a lui. «Animo, da Villa! Qui bisogna resistere. Dobbiamo salvare la vita per tornare a casa. Animo!». «lo non tornerò a casa, caro Pascoli» mi disse. «Tu tornerai; tu hai forza d'animo e capacità di adattamento e sei di buona costituzione fisica, ma io... non tornerò. Ritornando in Friuli dirai a mio padre che qui ho sofferto tutto il soffribile». Sofferto tutto il soffribile!... Eravamo solo agli inizi del nostro calvario.
ERMANNO DE CARLI
In quei primi giorni di prigionia venni a sapere che nel blocco accanto, blocco 22, si trovavano da alcune settimane diversi miei amici di Gorizia: il prof. Ermanno De Carli; suo figlio Attilio, studente in ingegneria; il dottor Cantarutti; il prof. Giorni; l'avv. Pietro Filla, rappresentante del P.L.I. nel C.L.N. provinciale; il prof. Umberto Bonnes, socialista, ed altri. Tutti amici cari che conoscevo da tanti anni. Con Ermanno De Carli avevo sostenuto a Gorizia nella mia gioventù le ardite battaglie per la redenzione del lavoro e con lui, come con tanti altri, avevo mantenuto il contatto e la buona amicizia, contatti che si fecero più frequenti durante il periodo della cospirazione. Quando seppi che si trovavano a pochi passi dal mio blocco fui vinto da un solo desiderio: vederli. Una mattina, uscendo dal blocco per recarmi alle latrine, vidi duecento uomini tutti vestiti a zebra, inquadrati nel cortile. Una figura alta, dal comportamento dignitoso, aveva gli occhi fissi su di me: era De Cadi padre. «Ermanno!» gridai. Guidato da un impulso irresistibile mi precipitai verso di lui per abbracciarlo. Avevo fatto pochi passi quando tre colpi di bastone mi caddero sulla testa, rovesciandomi sulla neve. Sotto i colpi di quell'aguzzino mi voltai indietro e gridai: «Coraggio, Ermanno! Baciami Attilio». Pochi minuti dopo l'intera colonna partì ed altri prigionieri civili, reclutati nei vari Paesi d'Europa, presero il loro posto al blocco 22. Tutti quei miei amici, avviati ai lavori forzati, perirono due mesi dopo, in terra tedesca.
MORS TUA, VITA MEA
Ho parlato spesso in queste pagine, e dovrò parlarne ancora per necessità di cose, degli aguzzini. Ma chi sono questi esseri, classificati con tale nome? In buona parte sono dei prigionieri politici come noi che hanno accettato di fare i capi - blocco, capi - stube, capi-squadra, ecc. per una doppia scodella di zuppa, sottratta alle nostre razioni. I militari non si lordano le mani per batterci; essi freddano i prigionieri a colpi di pistola, li impiccano sui piazzali del campo, li passano al crematorio o alla camera a gas. La tortura quotidiana, la tortura di tutte le ore, di tutti i minuti, è affidata ai nostri stessi compagni di sventura, i quali, in compenso, hanno salva la loro vita. Mors tua, vita mea... Certamente, siamo in presenza, in questi casi, di tipi inferiori, dotati di tendenze sadiste ed aggressive e di scarsi freni inibitori di ordine morale; ma il comportamento di questi uomini, che si ripete identico in tutti i Lager tedeschi, rivela innanzitutto un fenomeno di regressione dell'Io razionale, vale a dire un ritorno allo stato puramente istintivo ed emotivo dell'uomo, dovuto alla dura vita dei Lager e al desiderio di sopravvivere; fenomeno che non tocca soltanto gli aguzzini, ma prende tutti o quasi i deportati, in forme e gradi diversi come si vedrà in seguito; e rivela inoltre una tecnica diabolica, propria dei comandi tedeschi, mirante alla eliminazione spietata, sistematica, di tutti i nemici razziali e politici del nazismo, per opera degli stessi compagni di sventura.
EMILIO PONTONI
Terminato il periodo contumaciale, che durò otto giorni, fummo smistati nei vari blocchi del campo. I giovanissimi, e, tra questi, Vero Fabian di Prato Carnico, figlio di un mio vecchio compagno di fede, furono concentrati in un unico blocco, adibiti, come ci dissero, ai lavori leggeri del campo. Preciserò a questo punto che nessun giovane dai quindici ai diciotto anni poté resistere alle durezze dei Lager nazisti; bisognosi di cure e di alimenti, essi perirono per primi in terra tedesca invocando la mamma e la Patria lontana. lo fui destinato, con centoventi compagni, al blocco 11, ubicato nella parte più alta della Valle, da cui si godeva la vista di uno scenario naturale fantastico, tutto bianco, e la distesa agghiacciante del famoso campo della morte. Alla nostra destra il «bordello» pei soldati di Hitler, dove alcune salariate dell'amore spegnevano gli stimoli erotici di quei biondi carnefici. Al blocco N. 11 veniamo a contatto per la prima volta con prigionieri di altre nazionalità, in gran parte russi, francesi, cechi, polacchi e austriaci. Questo blocco è un blocco tipo. Una baracca in legno, costruita a regola d'arte, distinta in quattro locali: ingresso con pensilina, gabinetti e lavabi, soggiorno e spogliatoio, dormitorio. Lì per li, entrando in quel blocco, ricevemmo l'impressione che il peggio fosse superato e che la vita nel campo, dopo le prime durissime lezioni del contumaciale, dettate, secondo la nostra interpretazione, dalla necessità di piegarci alla disciplina del prigioniero di guerra, fosse regolata secondo le Convenzioni internazionali. Ma anche qui, come sempre, ci colpì ben presto una amara delusione. Trecento uomini sono costretti a rimanere in piedi 18, ore su 24, pressati corpo a corpo, nel locale di soggiorno, in uno spazio di 50 mq., obbligali in quella posizione a consumare anche il rancio. Il prigioniero che viene a trovarsi nel corridoio di passaggio, sospinto dalla massa compatta, è preso a nerbate. Dopo qualche giorno il capo - blocco acconsentì che una parte dei prigionieri soggiornasse nel locale attrezzato per gabinetti e lavabi, ma questo locale non era riscaldato, ed i prigionieri dovevano adattarsi ad un freddo siderale ed assistere a spettacoli nauseanti. «Come potremo resistere a questo martirio? Qui moriremo tutti!». Fame. Fame nera. E sete. Sete da morire. Dobbiamo limitarci a bagnare le labbra e il palato, altrimenti si corre il rischio di buscarci il tifo o la dissenteria. Non riuscivamo a renderci conto dapprincipio perché mai si fosse costruito un campo di concentramento dove mancava l'acqua potabile; lo abbiamo capito più tardi quando fummo trasferiti in altri campi del Reich, nei quali si verificava lo stesso fenomeno, e dopo una serie di altre durissime incredibili esperienze. Al blocco 11 i prigionieri devono spogliarsi nel locale di soggiorno e depositare quivi gli abiti in pacchi accatastati negli angoli della sala o entro scaffali. Tutto quindi ha l'apparenza di un ordine perfetto; sennonché al mattino i nostri pacchi vestiario li troviamo manomessi e gli indumenti sono gettati in mucchio in mezzo alla sala. Nessuno trova più la sua roba, o la trova sostituita con altri indumenti laceri e sudici. Ciò non ostante in cinque minuti, sotto i colpi del bastone, bisogna essere vestiti ed allineati in corte per l'appello, con o senza giacca, con o senza pantaloni, con o senza pianelle ai piedi. Fuori, come sempre, infuria la bufera ed il termometro segna 25 ed anche 30 sotto zero. Anch'io in quelle circostanze venni derubato dei guanti e di un bei maglione di lana, che la sorte mi aveva dato in dotazione al momento dell'arrivo a Flossenbürg. Qualche giorno dopo questo fatto, mi si avvicina un giovane con tutta affabilità. «Vuoi un maglione?» mi chiede. Gli gettai le braccia al collo. «Sei molto buono, tu» gli dissi. «Eccoti il maglione, ne ho altri quattro. Però mi devi dare una razione di zuppa ed una di pane, anche a rate». Rimasi stupefatto. Dovevo scegliere tra la fame e la polmonite. Rinunciai alla razione di zuppa e pane. A rate... In quello stesso blocco mi trovai in cuccia con Mario Nicoloso di Buia, De Lucia di Cividale e con l'avv. Emilio Pontoni, emiliano di origine, residente a Udine. Emilio Pontoni non era un deportato politico. Fondatore del Fascio di Trieste, ufficiale dell'Esercito di Salò, addetto ai servizi della Polizia Economica tedesca, ammiratore dei nazisti, l'avvocato Pontoni fu arrestato e tradotto in Germania con noi, perché, coinvolto in un illecito affare di pellicce con una ditta udinese, tentò di corrompere un maresciallo tedesco per salvare la situazione. Emilio Pontoni non era quindi un combattente per la libertà. Un comunista ed un fascista lì trovavano in cuccia, testa a testa, per ironia della sorte, condannati a subire le stesse sventure, ma per motivi ben diversi. «Vedremo» dissi una sera in tono confidenziale al Pontoni «chi di noi due muterà per primo le sue opinioni qui dentro». L'avv. Pontoni morì un mese dopo, colpito da broncopolmonite, già esausto di forze, entro le viscere di una montagna, nelle gallerie di Happurg, presso Norimberga. Non so, perché la sorte ci divise ben presto, quali fossero le sue opinioni sulla Germania nazista e sul fascismo al momento della morte; ma ho ragione di ritenere che Egli le avesse un po' mutate dinanzi ad una visione così drammatica delle vicende umane, come del resto anch'io andavo analizzando, entro me stesso, i metodi di governo e della lotta politica, ed alcuni aspetti della dottrina marxista, insufficiente, nella sua unilateralità, come qualunque altra dottrina, ad interpretare la realtà umana, che è il prodotto di infiniti fattori, ponderabili ed imponderabili, storici e contingenti, che si influenzano e si condizionano a vicenda nel vasto teatro della vita. L'avvocato Emilio Pontoni era un complice dei crimini perpetrati dai nazi-fascisti contro la civiltà e contro i diritti naturali e la dignità dell'uomo; ma dinanzi alla maestà della morte che tutti eguaglia, e nel ricordo del martirio patito in comune, scenda l'oblio sul suo passato.
LA «TIGRE»
Sulla parete di fondo del blocco 11 spiccava una tigre dipinta a pastello. L'aveva fatta disegnare il capo-blocco, un uomo piccolo, felino, tutto nervosità e violenza, da un prigioniero politico per identificarsi con quella fiera. Tutti i prigionieri, in sordina, lo chiamavano infatti «la Tigre». Ed ecco un episodio che basterà a confermare questa sua indole. Nel blocco, da diversi giorni, si trascinava uno scheletro vivente, piegato su sé stesso, che a malapena riusciva a reggersi in piedi. Era un povero russo rimandato dall'anticrematorio. L'anticrematorio è l'anticamera del crematorio vero e proprio, dove venivano condotti i prigionieri ormai spacciati, tenuti a mezza razione viveri, in attesa del loro turno... L'aveva salvato un suo amico, addetto a quel servizio, rimandandolo, chissà come, tra i vivi. Una mattina manca un uomo all'appello. Conta e riconta quell'uomo non si fa vivo. Incominciano allora le ricerche entro e fuori del blocco. Ricerche pazienti, lunghissime. In quella snervante attesa tutti i prigionieri rimangono inquadrati sul piazzale esterno, battuti da un nevischio che penetra le povere vesti e taglia il viso. Dopo due ore di ricerche vediamo uscire dalla baracca il capo-blocco che trascina fuori, lungo disteso, un corpo umano che non dava apparenti segni di vita. Era quel povero russo rimandato dall'anticrematorio. Quel disgraziato, incapace di sostenere il martirio dell'appello, si era rifugiato sotto le cuccette in fondo al dormitorio. Assistiamo allora ad uno spettacolo straziante. «La Tigre» armata di un robusto nerbo di bue con vermo metallico assestò 25 colpi violenti su quello scheletro vivente, disteso sulla neve. La vittima rimane inerte sotto le tremende interminabili sferzate, incapace di reagire, col velo della morte sugli occhi. Qualche gemito, qualche fioco lamento, poi più nulla. Era spirato. Nicoloso, De Lucia: ricordate? «La Tigre» aveva ucciso un uomo già morto, per devoto omaggio alla razza superiore..., sotto gli occhi di trecento uomini inorriditi, impotenti a reagire dinanzi a tanta brutalità, pena il loro sterminio in massa.
UNA COSCIENZA PURA
Nella sconfortante degradazione in cui cade l'uomo del Lager, per il quale la vita non ha più significato, non mancano episodi di bellezza morale che rivelano, per un imponderabile ed insopprimibile contrasto, i più alti valori dello spirito umano. L'episodio questa volta, e non è il solo, fu rivelato da un ex ufficiale superiore dell'Esercito rosso. I superstiti del blocco 11 ricorderanno certamente una figura alta, dal comportamento signorile, che mostrava attenzioni per tutti, senza distinzione di nazionalità o di razza. Era lui che ci dava i migliori consigli per sfuggire alle fustigazioni, che ci passava la sua miski (la gamella) ed il suo cucchiaio, di cui molti di noi erano privi, per darci il modo di prendere la bevanda calda di tiglio o la zuppa di rape; era lui che aveva una parola buona per tutti nei momenti di maggiore sconforto, e distribuiva a qualcuno persino parte del suo rancio. Era una coscienza pura. Uno dei pochi mirabili esemplari che stanno a indicare, contro la negazione delle filosofie pessimistiche, la perfettibilità, sia pure lenta, lentissima, dell'essere umano. Con uomini siffatti, pensai, il mondo andrebbe a posto da sé, e lo spettro della guerra, col suo sinistro corteo dei campi di sterminio, resterebbe un triste ricordo del passato. .
LUNACEK
Nei campi di annientamento non si moriva soltanto per maltrattamenti, per fame, per malattie, nelle camere a gas o per impiccagioni, si moriva anche per avvilimento. Lunacek, un giovane di Abbazia, dai lineamenti distinti, esile e slanciato, si lasciò prendere fino dai primi giorni dallo scoraggiamento. Nel blocco quel ragazzo viveva sempre isolato, chiuso in se stesso, senza pronunciare motto con alcuno, rifiutava il cibo e mostrava uno sguardo assente trasognato e triste. Capii subito che si trattava di una depressione psichica e cercai di rincuorarlo. «Tu morirai se continuerai così: sforzati a mangiare, mettiti in nostra compagnia, scambia qualche parola, qui bisogna resistere, bisogna salvarsi: capisci? Dobbiamo tornare a casa». Tutto fu vano. Quel giovane resistette per qualche giorno ancora, resistette anche durante il «trasporto» che ci condusse pochi giorni dopo ad Hersbruck; ma, giunto in quel Lager, Egli spirò, isolato da tutti, pensando forse al profumo dei suoi lauri, all'incanto del suo cielo e del suo mare.
COME SI SALVARONO DUE ITALIANI
In quei tristi giorni al blocco 11 incontrai un italiano, anziano del campo. «Siamo arrivati qui in 700» mi disse «con un convoglio da Milano, mesi or sono: di quei 700 siamo rimasti in due». «E gli altri?». «Tutti morti. Quando arrivammo noi la vita in questo campo era un inferno. Ora va meglio». «Come vi siete salvati?». «Oh, in un modo molto ingegnoso. Con un pezzetto di pane della mia razione acquistavo guanti vecchi e calzetti di lana gualciti, li sfilavo e con due ferretti di fortuna li rifacevo bell'e nuovi, rivendendoli per un pezzo di pane più grosso». «E l'altro?». «L'altro si salvò con espedienti del genere». Questo racconto pronunciato con tutta sincerità, mi sollevò l'animo: l'italiano, dopo tutto, pensai, non è peggiore degli altri, come viene giudicato da troppa gente nel mondo.
FUMATORI IMPENITENTI
L'attaccamento alla vita è insopprimibile in ciascuno di noi, ma vi sono bisogni acquisiti che superano quell'attaccamento: il fumare, ad esempio. Abbiamo visto uomini in campo di concentramento rodere la propria razione di pane o di zuppa per un pizzico di «majorka», entrato di nascosto nel campo, o per una sigaretta fatturata con foglie secche tritate, avvolte in carta straccia ricuperata non si sa come. Questi uomini, che erano già finiti, si ammalavano e morivano. Morivano per fame o per malattia; ma cosa poteva dire oramai la vita a costoro? Fumavano una sigaretta: ecco tutto. Questi episodi, come è facile intuire, varcano i limiti di un «atto empirico» per assurgere a valore di «dramma umano». È chiaro che l'individuo giunto a questo «limite» non ha più alcun interesse per il mondo, né per se stesso. Tutto è crollato in lui: il suo animo ed il mondo esteriore, miti e credenze, l'illusione e la speranza, la fede negli uomini e la fiducia in sé, l'umano ed il trascendente. A questi «limiti» ha condotto l'uomo la brutalità nazista nei campi di sterminio: lo ha condotto cioè alla negazione della vita e di se stesso; lo ha condotto alla morte morale prima ancora che a quella fisica. Ma in questi racconti, che rispecchiano la verità delle cose, vedremo episodi ben più drammatici: episodi che l'uomo normale non riesce a concepire e che ci danno la misura della vastità e della profondità del dramma vissuto dai deportati nei Lager nazisti.
UNA INIZIATIVA CHE FA DISONORE
Fedele al principio della obiettività che inspira la documentazione di questi racconti, citerò qui un fatto che farà poco onore agli italiani: a molti italiani. L'avv. Emilio Pontoni, del quale ho parlato nelle pagine precedenti, un giorno prese l'iniziativa di presentare al comandante del campo una domanda collettiva mirante ad ottenere l'arruolamento volontario nella Wehrmacht, allo scopo di sottrarsi, secondo lui, al martirio del Lager. Su 120 del mio gruppo, presenti al blocco 11, ben 60 sottoscrissero il modulo. Vale a dire: il 50 per cento. «Si tratta di salvare la vita» mi dissero. «E tu perché non firmi?». «lo sono qui per una Idea» risposi «e seguo la mia sorte. Del resto la vostra domanda non verrà, accolta: statene pur certi». Le domande furono naturalmente respinte e da quel giorno gli italiani nel campo furono disprezzati più di prima. Per spiegarci questo fenomeno è bene «distinguere» tra deportati e deportati. Non tutti i deportati nei campi di eliminazione erano degli uomini politici, degli uomini cioè guidati da una fede e da un ideale di vita, o veri Combattenti della Libertà, anche se in campo di concentramento tutti fummo classificati «politici», cioè «triangolo rosso» e soggetti ad identico rigore di vita. Molti, moltissimi, in verità, furono arrestati a casaccio in Italia e negli altri Paesi d'Europa, e tradotti in Germania, a causa di rastrellamenti o per rappresaglie contro interi centri abitati, o su false denunce o delazioni. Altri ancora - vedi l'episodio dell'avv. Pontoni - furono deportati, in numero certamente esiguo, per reati comuni, o per delitti di altra natura.
LA PELATURA DELLE PATATE
Flossenbürg, come si è detto, era un campo-madre: un campo di smistamento. Solo 500 prigionieri, su 18 mila presenti nel Lager, erano occupati nelle officine del luogo o nelle cave di pietra; tutti gli altri erano destinati ai lavori forzati nelle sue 18 dipendenze. Pur tuttavia il comandante trovava modo di farci fare qualche cosa a turno per farci assaggiare in anticipo il trattamento usato ai prigionieri politici nei «campi di lavoro». Uno di questi assaggi era quello della pelatura delle patate. La pelatura veniva fatta di notte negli scantinati delle cucine del campo, che erano attrezzatissime. Quel lavoro veniva condotto a ritmo accelerato per 12 ore consecutive, senza soste e senza cibo, sotto il controllo degli aguzzini armati di randelli. Nessuno poteva alzare un solo istante la testa dalla marmitta o drizzare la schiena. Chi alzava il capo era battuto. Chi drizzava la schiena per tirare il fiato era battuto. Chi pronunciava una parola era battuto. Chi tagliava la scorza troppa grossa era battuto. Chi non terminava il quantitativo prescritto nel tempo stabilito veniva battuto, e chi lo terminava in anticipo riceveva un'altra marmitta di patate da pelare. Il prof. Moviglia, mia compagna di prigionia, comandato una notte a quel genere di lavora, mi confessò che avrebbe preferita morire piuttosto che ripetere quell'operazione. Ed infatti l'amico Moviglia, professare di filosofia, morì per deperimento organico e per dissenteria sanguigna nel campo di Dachau, a liberazione avvenuta, dopo aver vissuto ben altre e più dure esperienze.
IL LAUSKONTROLLE
Ogni settimana i prigionieri sona soggetti al «lauskantralle»: visita dei pidocchi. In quell'operazione i prigionieri, completamente nudi, ritti su una sgabello. di legna, vengono scrutati con una grossa lampada elettrica in ogni parte del corpo. Il prigioniero che viene travato con un solo pidocchio addosso è inviato al «bagno di pulizia» durante la notte, mentre i suoi indumenti passano alla disinfezione. Operazione più che provvidenziale. Vedremo ora in che modo tale operazione si compie nei Lager nazisti. Consegnati gli indumenti, i prigionieri vengono accompagnati nel salone delle docce che il lettore già conosce. Una sera, condottovi lì dentro, assiste ad una spettacolo nuovo. Cento uomini che parlano diverse lingue attendono con evidente sollievo la doccia ristoratrice. Sono tante larve umane, con occhi infossati, semispenti, che si aggirano come tanti spettri, con stinchi scoperti, per il salone. Nessuno ha un gesto. Nessuna ha una parola. Forse non sono più neppure capaci di un gesto o di una parola. Ad un tratto due aguzzini, impugnata un tubo di gomma di considerevole diametro, ci investono con un potente getto d'acqua gelata. Quando l'operazione è cessata molti uomini sono afflosciati al suolo; altri, più in forza, si muovono su e giù per il salone per riscaldarsi le povere membra col moto. Solo dopo quattro ore di attesa, dico quattro, l'acqua calda scende sui nostri corpi esausti e rattrappiti, e la doccia in quindici minuti è fatta. Indi ci vengono rasati a zero i capelli ed i peli in ogni parte del corpo, strofinate poi con uno straccio imbevuto di petrolio e creolina. Il bagno di pulizia è fatto. Ma i nostri indumenti, le nostre misere vesti, non arrivano ancora dalla disinfezione e perciò si è costretti a sostare ignudi nel salone ancora per ore e ore. Giro lo sguardo per vedere se riesco ad incontrare lì dentro qualche italiano. Ecco un giovane alto e scarno dal viso straordinariamente buono, con le costole a fior di pelle, che mi fissa. Sul petto di quel compagno di sventura spicca un numero tatuata con inchiostro indelebile. Lo avvicino. «Sei italiano?». «Sì, di Milano». «E tu?». «Di Udine». «E... quel numero lì?». «Come, non lo sai?». «No, sono arrivato da pochi giorni dall'Italia». «Significa anticrematorio, spacciato... Per me è finita» soggiunse. Girando lo sguardo per il salone vidi diversi prigionieri marcati con quel numero. Quel giovane milanese era giunto da alcuni mesi a Flossenbürg, affetto da blenorragia, malattia che in quel campo, come del resto ogni altra malattia, non veniva curata. Per me è finita... Feci del mio meglio per rincuorarlo. «Coraggio» gli dissi «la guerra finirà presto. I Russi hanno sfondato e puntano sull'Oder; gli Alleati sono sbarcati in Francia e stanno per occupare la Germania; presto verranno a liberarci, coraggio». «Gli Alleati libereranno te» mi rispose «che sei ancora in forze; quanto a me... solo la morte ormai verrà a liberarmi». Rimasi senza parole. Alle quattro del mattino ci portarono finalmente gli indumenti, ma la sosta nello scantinato continuava. Solo alle sette, dopo dieci ore di martirio, ci fecero uscire da quella bolgia dantesca. Nell'uscire mi voltai indietro come per fissarmi in mente l'immagine di quel triste luogo. Quattro compagni giacevano immobili sul pavimento. La morte li aveva liberati. Ogni notte nel Lager si ripeteva quello spettacolo. Fuori, sul piazzale, il ghiaccio e la neve scricchiolavano sotto i nostri zoccoli di legno. Una densa caligine, rotta dai bagliori delle lampade elettriche e dal chiarore dell'alba, avvolge il campo di concentramento. Le grida e gli urli degli aguzzini, stanchi anch'essi della veglia estenuante, si smorzano nella fosca quiete del Lager. Laggiù... in lontananza, da una rozza ciminiera si alza una colonna di fumo che si sperde nell'aria fredda e grigia. È il crematorio che funziona.
MUSICA E CANNONI
Qualche giorno dopo fummo trasferiti a tutta notte al blocco 8. Qui veniamo accolti a randellate. Ognuno doveva sistemarsi in un baleno alla rinfusa nelle cuccette sotto la furia delle nerbate. lo mi trovai testa a testa col generale Eugenio Morrà, già comandante nelle formazioni partigiane della Bassa Friulana. Di fronte a noi un compagno si caccia sotto i castelli per sfuggire le nerbate, ma esso viene subito scoperto e bastonato a sangue. Il mattino seguente, all'appello, vidi uno spettacolo nuovo. Due compagni portavano a spalla un troncone umano, un uomo con entrambe le gambe amputate, obbligato anche lui come tutti gli altri ad uscire sul piazzale ed allinearsi per il controllo. Poteva fuggire dal campo quel moncone umano? Da un blocco vicino ci giungono le note di una orchestrina improvvisata e la voce melodica di un tenore. Gli aguzzini si divertivano tra il dolore e la morte.
UN LEMBO DI CIELO
Il giorno del «trasporto» si avvicina. Ciascuno di noi sognava ormai soltanto il lavoro, da tutti concepito come una liberazione. Altra visita medica. Il medico, che era un polacco, ci accoglie con ceffoni sul viso e con pedate negli stinchi. Anche i medici, dunque... Anche gli intellettuali. Anche questi uomini, vissuti in ambienti civili e civilmente educati, abbrutiti dalla vita del Lager, erano regrediti ai loro istinti primitivi, al pari del povero mugik della steppa o dell'abitatore dei tuguri. In meno di mezz'ora duecento uomini sono visitati. Classificati in base a siffatta visita veniamo condotti al blocco 5. Qui qualche cosa cambia. Il capo-blocco ci accoglie con un cordiale sorriso. Ciò ci sorprende non poco. Avevamo ormai perduto di vista i segni dell'umano sul volto degli uomini preposti alla disciplina del campo; o, meglio, preposti alla nostra sistematica eliminazione. Quell'uomo portava sulla giacca il triangolo rosso. Era un antinazista austriaco internato a Flossenbürg per i suoi ideali di vita, ai quali, come tanti altri prigionieri, teneva fede, coerente nella sua condotta anche tra i rigori dei reticolati di ferro. Ma quella fortuna, quel lembo di cielo fra tante tempeste, durò poco. Lo stesso giorno infatti fummo trasferiti al blocco dei partenti.
«VA PENSIERO SULL'ALI DORATE...»
Qui ci vestono a zebra. Un tessuto rado ottenuto con rifiuti di cotone, confezionato a strisce perpendicolari grigie e azzurre. Pantaloni, giacche, soprabito e berretto, zoccoli di legno o stivali ai piedi. Nessun indumento per ricambio. Anche in questo blocco c'è un'atmosfera di quiete che ci solleva un po' l'animo: la quiete che precede la tempesta. A pochi metri corre il filo spinato che circonda il Lager. Laggiù, verso il locale dei bagni, uomini nudi attraversano di corsa il piazzale, fuggendo come tante ombre avvolte nel grigiore del nevischio. È la scena che vivemmo noi al momento dell'arrivo, che si ripete ad ogni avvicendamento dei prigionieri. Lungo un sentiero, che si apre tra le nevi, avanza una interminabile teoria di barelle cariche di cadaveri scoperti e denudati, che si muove come un macabro corteo. Questo spettacolo si ripete ogni mattina. Sono i morti della notte, raccolti nei blocchi e nel Revier (ospedaletto del campo), che vengono portati ai forni crematori. Tre settimane, tre settimane che ci sembrano un secolo, sono passate. Il contingente di 600 uomini, partiti dalle carceri giudiziarie di Udine, Gorizia e Trieste, si dispone a partire per tre diverse destinazioni: gli specialisti, o classificati per tali, sono destinati nelle officine a Lipsia e a Kamenz, e, tra questi ultimi i miei due amici Nicoloso Mario e il dottor da Villa; tutti gli altri, ed io tra questi, furono inviati ad Hersbruck, destinati ai lavori manuali pesanti. Ex ufficiali, intellettuali e professionisti furono aggregati a quest'ultimo gruppo. Il 1° febbraio 1945 la colonna destinata ad Hersbruck varcava i cancelli del Lager, rendendo il saluto militare al comandante, come al momento dell'arrivo. Il campo di Flossenbürg, il terribile campo di Flossenbürg, è lasciato alle spalle. Andammo incontro a ben più dure e tragiche esperienze, ma quelle prime giornate di prigionia tra i reticolati di ferro, nessuno di noi le ha dimenticate, nessuno potrà dimenticarle mai. Sul pavimento dei vagoni bestiame c'è un leggero strato di paglia. Siamo allogati 50 per vagone, scortati, questa volta, da soldati della Wehrmacht, tutti anziani. Lungo il percorso ci viene distribuita la razione viveri: mezzo chilo di pane e trenta grammi di margarina. Uno dei nostri rimane senza margarina: allora vidi compiere un gesto che, provati da tante esperienze del Lager, nessuno se l'aspettava. Uno dei militari di scorta estrae da un tascapane una mezza forma di formaggio, ne taglia un bel pezzo con un grosso coltello e lo porge al prigioniero. La neve è scomparsa dalle campagne. La temperatura si è fatta più mite. Piove. Tutto dispone alla serenità e alle più liete speranze. Sulle nostre labbra ritorna il sorriso. Si canta. Cinquanta voci intonano il coro del Nabucco, che è un richiamo nostalgico della nostra terra lontana: «Va, pensiero sull'ali dorate». Gli uomini di scorta restano ammirati. Molti dei nostri hanno le lacrime agli occhi. Fa notte. Durante la notte ci sentiamo effettivamente a disagio perché siamo in troppi sul vagone, ma tutto si sopporta quando lo spirito è sereno. Spunta il giorno. Le porte dei vagoni si aprono. La neve riappare sui pianori e sulle alture circostanti. Il convoglio si ferma. Una stazioncina senza pretese. Hersbruck.