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È figlia di MARIA ARATA MASSSARIELLO ex deportata del Lager di
Ravensbrück,
autrice del libro Il ponte dei corvi. Ed. Mursia,
1995.
Dopo le testimonianze che abbiamo ora ascoltato, le mie
parole suoneranno assai meno drammatiche, perché non ha vissuto in prima
persona l’esperienza dei Lager; vorrei però raccontare come i miei fratelli
ed io abbiamo vissuto l’esperienza toccata a nostra madre. Nel complesso, elle
ha saputo parlare di quegli anni con serenità, non incitandoci all’odio nei
confrontidei responsabili di
quelle terribili azioni, ma esortandoci al rispetto verso il prossimo: un
messaggio di pace, quindi, e non di vendetta.Mia madre, Maria Arata Massariello, è deceduta nel 1975, e
nessuno di voi ha potuto conoscerla. Specializzata in botanica, fu insegnante di
scienze naturali presso il liceo Carducci di Milano e qui, come anche in
università dove era assistente, svolgeva propaganda antifascista: organizzava
incontri fra studenti e si occupava di raccogliere viveri e medicinali per
gruppi partigiani grazie ai suoi rapporti con l’Istituto Sieroterapico
Milanese. Era in contatto con altri coraggiosi insegnanti del liceo Carducci tra
cui il professor Quintino Di Vona, che venne fucilato e al quale è intitolata
oggi la nostra Brigata. Mia madre fu arrestata il 4 luglio 1944 e, dopo un breve
periodo a San Vittore, fu inviata al campo di Bolzano e quindi a Ravensbrück,
probabilmente nello stesso trasporto di cui fece parte Ida Desandré. Da qui fu
mandata in un campo di lavoro a Neu-Brandeburg a fabbricare aeroplani: essendo
un’insegnante, non era capace di svolgere questo lavoro pesante, ma dovette
presto imparare a suon di frusta. Rientrò in seguito nel campo di Ravensbrück
dove, il 30 aprile 1945, fu liberata dai russi.Dopo la liberazione, fu anzitutto ricoverata in ospedale,
dove le furono prestate molte attenzioni. Il primo ottobre dello stesso anno,
pochi mesi dopo la Liberazione, riprese l’insegnamento al liceo, pur non
trovandosi nelle migliori condizioni fisiche e psicologiche. Ho avuto
l’occasione di parlare con una delle allieve di quell’anno, che sapeva della
sua prigionia. Ella mi raccontò come i ragazzi, talvolta, notassero dei momenti
di crisi in cui la loro insegnante appariva assente, e fossero turbati da questo
comportamento.
Nel 1946 mia madre si sposò. Era convinta di non poter avere
figli a causa delle pratiche di sterilizzazione sperimentate sulle donne nel
campo di Ravensbrück; si accostò al matrimonio considerandolo un’alta
missione perché si unì ad un collega rimasto vedovo durante la guerra con due
figli piccoli. In casa diceva sempre che, nel ricordo delle compagne decedute,
il fatto di essere sopravvissuta assumeva un grandissimo valore e che, perciò,
doveva impiegare al meglio la propria vita: per questo, oltre
all’insegnamento, si dedicò con impegno alla famiglia che contava già due
figli e dove ne nacquero – contrariamente alle sue aspettative per i motivi
citati – ancora tre. Già nei primi anni successivi al ritorno dal campo di
concentramento, mia madre annotò le esperienze vissute per timore di
dimenticare i particolari degli anni di prigionia: era molto sentito in lei il
dovere di tramandare una testimonianza precisa ed efficace, perché potesse
rappresentare un insegnamento alle generazioni future.La sua vita era molto faticosa: c’erano la scuola, la casa,
cinque figli e condizioni economiche non certo rosee dopo la guerra. Quello che
ricordo di lei era l’estrema serenità, l’ottimismo e la gioia di vivere. In
effetti, dava l’impressione di godere di tutto, atteggiamento che penso possa
riscontrarsi in quelle persone che, ad un passo dalla morte, hanno avuta salva
la vita.
Similmente a quanto osservato da Lidia Rolfi, anch’io
ricordo come a mia madre non fosse stato rivolto alcun invito a parlare
ufficialmente della propria esperienza, ed anche a scuola nessuno se ne
interessò molto; così, si confidò soprattutto con noi, che ci abituammo fin
da piccoli ad ascoltare questi racconti drammatici, pensando che tutti i bambini
sapessero queste cose o ne avessero almeno sentito parlare. Crescemmo fra questi
racconti, riportati senza alcun sentimento di astio e di odio, ma con una grande
serenità. La nostra casa era inoltre frequentata da ex compagni di Lager,
cosicché conoscemmo direttamente diverse persone citate nelle memorie di mia
madre, ad esempio i componenti della famiglia del professo Di Vona, coi quali
abbiamo avuto sempre ottimi rapporti.Vorrei ricordare alcuni aspetti del vissuto di mia madre in
relazione ai suoi ricordi degli anni della guerra. Con la lingua tedesca, ad
esempio, aveva un rapporto ambivalente. Da un lato le dava fastidio, al mare,
ascoltare la voce dei bagnanti tedeschi, e, dall’altro, ci svegliava al
mattino della domenica pronunciando – con la consueta voce gioviale – il
verbo “aufstehen” (alzarsi), con cui veniva svegliata durante la prigionia;
altre volte diceva “schnell” (veloce). Ancor oggi non riesco a spiegarmi
come potesse usare, nell’ambito familiare, queste parole che avrebbero dovuto
– come infatti avveniva quando sentiva parlare dei teschi – farla
inorridire. Ricordo anche come fosse vietato, in casa nostra, cucinare carne
alla griglia, e se per errore ne veniva bruciata un po’, ne era subito
infastidita ed apriva le finestre: anche gli odori fanno parte del ricordo. Un
altro suo tipico atteggiamento era la repulsione verso qualunque gesto che le
richiamasse la spoliazione subita nel Lager: ad esempio, durante un ricovero in
ospedale – si era negli anni settanta – quindi ben lontano da quelli della
prigionia – insistette per non mettersi in camicia da notte come tutti gli
altri, sebbene i medici la riprendessero perché, al momento della visita, la
trovavano vestita in modo non adatto all’esigenza del momento.Due eventi sono per me molto importanti: il primo accadde nel
1969, quando la mamma volle portarci in pellegrinaggio a Ravensbrück. In quegli
anni la città si trovava nella Repubblica Democratica Tedesca e perciò il
viaggio fu reso più difficile dai permessi necessari al transito: lei, però,teneva molto al fatto che il marito ed i figli osservassero con i loro
occhi il luogo della propria tortura, che sembrava aver rivisto con serenità
d’animo. L’anno successivo, però, si ammalò e penso che la violenta
emozione provata in quel viaggio possa esserne stata la causa. Il secondo evento
– sicuramente il più importante è stato la malattia che colpì mia madre la
quale, rendendosi conto di non avere più possibilità di guarigione, cominciò
a dare una forma organica alle note e ai ricordi del proprio diario della
deportazione. L’impegno dedicato alla stesura di queste memorie, a mio parere,
non fu motivato soltanto dalla sua forzata immobilità che le permetteva di
scrivere con la calma che non aveva mai avuto, ma soprattutto dall’esigenza,
fortemente sentita, di porre in evidenza l’evento fondamentale della sua vita,
l’esperienza del Lager. Tutti gli altri eventi della sua esistenza – il
marito ed i figli che le stavano vicino – rimasero nell’ombra, e negli
ultimi mesi di vita che la vedemmo immersa in questi ricordi che riviveva
intensamente, tanto che soffrivamo un poco – soprattutto mio padre – di
questo estraniarsi. Eravamo d’altro canto contenti che potesse realizzare ciò
cui teneva tanto: la possibilità di tramandare la stesura del manoscritto,
senza però aver potuto rileggerlo. Lo consegnammo alla casa editrice Mursia che
pubblicò il libro cinque anni dopo la sua morte: per me è importante sapere
che è stato scritto nel momento in cui vedeva vicina la propria fine, e lo
considero il suo testamento morale.
Da
«... per non dimenticare». Atti di due incontri a Nova Milanese, con le
presentazioni di Italo Tibaldi (ex deportato del Lager di Ebensee,
sottocampo del Lager di Mauthausen, autore del libro Compagni di Viaggio,
Ed. Franco Angeli, 1994, vice Presidente del Comitato Internazionale di
Mauthausen): «Donne nei Lager. La scelta di testimoniare» (ottobre 1995)
e «Sacerdoti nei lager» (aprile 1996), a cura di Laura Deleidi e Giuseppe
Paleari, Comune di Nova Milanese, Assessorato alla Cultura e Biblioteca Civica
Popolare.