TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Athos Gori

"… La rassegnazione accelerava la morte … quelli che reagivano con una certa volontà politica, son quelli che hanno meno ceduto … Forse perché si accendeva in loro una volontà di non lasciarsi andare, di tornare a casa, di continuare a vivere, di lottare malgrado tutto".

Gori - Deportato nel campo di sterminio Gusen 1

Il 6 dicembre del 1943 fui arrestato. Con una spiata, un fascista che aveva aderito alla repubblica di Salò, mi accusò di essere un organizzatore dell'assistenza ai partigiani e della diffusione di stampa clandestina nello stabilimento Concordia della Falck. In ferriera effettivamente avevamo costituito un'organizzazione per mandare giovani renitenti e ricercati dalla polizia nazifascista in montagna. Nei primi tempi si mandavano sulle montagne del Lecchese. Si raccoglievano viveri e indumenti. Avevamo sempre possibilità di attingere alle scorte di alimentari per la mensa interna. Poi, le scarpe per esempio; siccome la ditta passava a certi lavoratori che ne avevano diritto delle calzature, questi ci rinunciavano e noi, d'accordo con la direzione della Falck, facevamo in modo che risultassero consegnate agli operai; invece si mandavano su in montagna. Quella spia era stata messa fuori dallo stabilimento il 25 luglio. Rientrata dopo l’ 8 settembre s'era vendicato facendo i nomi di diversi antifascisti. Eravamo in quattro i segnalati. Ma ci han portato via in tre. lo, Natale Canducci e Mario Piraccini. Mancavano cinque minuti a mezzogiorno, stavo preparandomi per uscire, incontro il povero Canducci che mi dice: - Vieni Gori, ci vuole il direttore. Non ci immaginavamo cosa ci attendeva. Appena entrati nell'ufficio del direttore fummo afferrati dai poliziotti. Ce n'erano due o tre delle SS e due o tre guardie nere. Ci han puntato subito le armi. Le mani in alto. Immediatamente ci han fatto la perquisizione. Non hanno detto niente. Ci han fatto uscire, salire su una macchina e portati a Monza, alla Villa reale. Lì son venute le accuse precise: - Voi siete gli organizzatori, i promotori del partito comunista. A Monza ci portarono in tre. Presero anche Mario Piraccini, non perché lui facesse parte del nostro gruppo, ma perché si tradì in un momento di generosità. Dovevamo essere presi in quattro, come ti ho detto. C'erano anche Rampolli di Lecco, che lavorava nel reparto rifinitura lamiere, e Pasetto Trieste, un aggiustatore che abitava in via Rovani. Anche loro due s'erano avviati senza sospetti verso !'ufficio del direttore, ma giunti nel corridoio, Piraccini, che era segretario del direttore, fece in tempo ad avvertirli di scappare. Loro due si salvarono. Piraccini fu scoperto e arrestato con noi. Da Mauthausen non tornò più. A Monza ci divisero. lo sono stato affidato alle cure di un maresciallo nero, uno che poi hanno processato nel '45. Voleva sapere le solite cose. Quanti eravamo, chi erano i nostri capi. Un po' mi blandiva, un po' minacciava. lo sempre a negare. M'ha tenuto sotto un paio d'ore, poi, in mezzo a quattro militi fascisti, m'ha fatto fare il giro del parco. Minacciava di farmi fucilare sull'istante. Parla! lo gli dicevo che non sapevo niente. Mi minacciava con la pistola. Ma se non so niente! Alla fine s'è stancato lui. M'hanno pigliato, m'hanno sbattuto di peso su una macchina e m'hanno portato a Milano, all'Hotel Regina, sede del comando tedesco. Il maresciallo m'aveva soltanto minacciato, lì invece son volate le sberle. Poi, nome, cognome, mi hanno schedato e via a San Vittore. Tre mesi a San Vittore. All'inizio completamente isolato. Poi mi misero insieme in cella con Canducci. Fino al giorno della nostra deportazione, ai primi di marzo del '44. Vennero due o tre ore prima della partenza ad avvertirci, alla sera verso le sei. Avevano una lista di nomi di prigionieri in partenza. Lessero anche i nostri nomi: - Tenetevi pronti che siete destinati ai campi di rieducazione in Germania. Verso le undici e mezza ci han tirato fuori dalle celle, ci han caricato su dei camion e ci hanno portati alla stazione centrale. Caricati su vagoni bestiame, piombati, e via. A San Vittore l'organizzazione interna era riuscita a farci avere una pagnotta per uno. Era tutto quel che avevamo per il viaggio. Loro non ci han dato niente. Nel vagone c'era solo mezzo bidone per i bisogni. Niente acqua. Di Sesto c'ero io, Canducci, Carucci … no, Carucci non è partito con noi, ce lo trovammo in seguito a Mauthausen. C'erano i Picardi tutti e due: avevamo lavorato insieme nel movimento clandestino, con Licinio particolarmente perché lavorava al Concordia. Dunque, io, Piraccini, il Canducci, Luciano Morganti, i Picardi e altri, ma io, i nomi, son passati ormai 36 anni, ora non li ricordo. Eravamo diretti a Innsbruck, in Austria. Ma nessuno sapeva la nostra destinazione. Scesi dal treno, messi in colonna e portati in quello che loro chiamavano campo di rieducazione. Le prime terribili impressioni. Abbiamo visto le prime larve di uomini che si trascinavano, che strisciavano a terra. Avevo trent'anni, ero forte. Giovane. Non m'illudevo sulla mia sorte. Credevo di essere preparato a tutto. Ma davanti a quelle creature, e a sapere che la nostra sorte non era diversa, mi assaliva l'angoscia. Intanto, subito, ci han rinchiusi in una stanza poco più grande di questa, un 25-30 metri quadrati, con doppi vetri e doppia porta. Eravamo in 97 dentro. Per poter respirare facevamo il turno al buco della serratura. Cinque giorni in quel modo. La mattina si usciva per andarsi a lavare; come sbobba, zuppa di rape. Appena arrivati ci avevan tolto tutto, denaro, orologi, effetti personali, tutto. Dopo cinque giorni ci hanno chiamato e ci hanno restituito ogni cosa, esattamente, non mancava niente. Poi ci hanno informati che partivamo per andare a lavorare nella Grande Industria, del Grande Reich, per la Grande Vittoria. E ci hanno riportati in stazione a Innsbruck, rimessi in altri vagoni piombati e fatti ripartire. Ma senza mai dirci dove si andava. Soltanto quando ci siamo avvicinati a Linz, c'è stato un segno dei ferrovieri. Qualcuno si è avvicinato a noi e siamo riusciti a capire che se più avanti il treno faceva la curva, andavamo a Mauthausen, se tirava dritto, a Vienna. Poi il treno ha fatto la curva. La stazione di Mauthausen è molto giù in basso, proprio sul Danubio; mentre il campo l'avevano fatto costruire su in collina, per giungervi c'erano tre o quattro chilometri di salita. Appena scesi dal vagone, sfiniti dopo due giorni di viaggio, ormai senza mangiare, un freddo cane, appena scesi siamo stati accolti dalle SS con i cani mastini. Ci hanno messo in fila per cinque. Nevicava in pieno. Si saliva la strada in terra battuta; i più anziani, stanchi, sfiniti non ce la facevano più. E allora le prime botte col calcio del mitra sulle spalle, le prime legnate per farli proseguire. Era obbligo stare bene ordinati in fila per cinque, altrimenti il mitra ti colpiva alla schiena. L'entrata a Mauthausen era spettacolare, con un grande castello illuminato in cima. Appena arrivati ci han fatti schierare su un grande piazzale e depositare per terra ogni cosa. Ci han fatto togliere anelli, vere, penne, orologi, chi ne aveva; portafoglio, una roba e l'altra spogliati completamente di tutto, anche degli indumenti, scarpe, calze, maglie, mutande, tutto: nudi. Ci han marcati con un inchiostro nero sulla pelle, ciascuno il suo numero. Il mio: 57589. Serviva per chi doveva poi darci il piastrino di riconoscimento. Ma era anche un modo di stabilire che da quel momento non eri più un uomo. Poi la doccia. Si entrava da una porta e si usciva da un'altra. Dietro la prima ci attendeva il barbiere. Quello che chiamavano barbiere. Ci ha tosati come tante bestie. Depilati completamente. Capelli, barba, sottoascelle, in mezzo alle gambe, dove ci poteva essere un pelo; negli orecchi, persino dentro nel … . Fatto questo ci hanno fatto passare sotto la doccia. Un'altra tortura. In un primo tempo scendeva acqua calda, poi diventava ghiaccia. Finita la doccia ci spennellarono con una specie di trielina, per disinfettarci. Poi ci han fatti uscire sul piazzale. Sempre nudi, avevamo atteso il nostro turno fuori. Ma almeno non eravamo bagnati. Dopo la doccia non potemmo asciugarci, non c'era né sapone né asciugamano. Ci consegnarono una camicia e un paio di mutandoni di tela. Nevicava forte. Ci guardavamo in faccia. Rapati, marchiati … Ci fanno morire tutti. Polmonite o non polmonite ci fanno morire tutti. Fin quando tutti 97 o 98 che eravamo, non sono stati tutti depilati, lavati e disinfettati, siamo stati fuori all'aperto con quel terribile freddo. Poi ci han separati, ognuno secondo la sua destinazione. Mi hanno mandato con altri in una baracca e come prima impressione entrando non fu male. L'ambiente era ben riscaldato, c'era una scrivania, una seggiola, letto a castello con tre brandine ben sistemate. Lì ci hanno preso nome e cognome, nazionalità, eccetera. E il numero che ci avevano assegnato. Finito, hanno scostato una tenda e allora ho visto il grande camerone: quattro o cinquecento uomini sdraiati per terra uno accanto all'altro, talmente stretti che pareva impossibile ci fosse posto per altri. È  arrivato il kapò e lo spazio è saltato fuori. Aveva un nerbo, un po' di nerbate e ognuno si stringeva un po' di più. La mattina dopo alle cinque sveglia. Fuori, in mutandoni e camicia di tela com'eravamo, zoccoli alla olandese ai piedi. Dovevamo uscire tutti all'aperto e attendere che in baracca facessero pulizia. Un paio d'ore nella neve. Ce n'era venti centimetri. Poi ritornavamo dentro e ci davano quel che chiamavano caffè ma non si sapeva cosa fosse. Ci toccava stare completamente in silenzio fin che lo volevano loro Poi ci rimandavano sul piazzale fin verso le undici. Senza far niente. Durante il periodo di quarantena non si lavorava. Ci son rimasto una decina di giorni finché arrivavano le richieste dai campi di lavoro. A mezzogiorno una gamella di alluminio con dentro rape bollite. Non ci davano il cucchiaio. Ci costringevano a mangiare come le bestie. Dovevi immergerci il muso nella gamella. Dopo una decina di giorni, con altri 50 mi hanno chiamato per inviarmi al campo di Gusen 1. Erano tre i sottocampi di Mauthausen: Gusen 1, Gusen 2 e Gusen 3. AI Gusen 1, distante 8-9 chilometri, c'erano gli stabilimenti della Steyer dove costruivano canne di pistola e di mitra, e pezzi per aeroplani. E c'era anche la grande cava dalla quale era stata ricavata tutta la pietra necessaria alla costruzione degli edifici del campo di Mauthausen, e per la pavimentazione delle strade e delle piazze di molte città vicine. All'inizio erano delinquenti comuni, galeotti, che vi avevano lavorato; poi s'erano aggiunti i deportati politici. Le SS avevano promosso kapò i vecchi delinquenti. Noi eravamo direttamente sottoposti a loro. Dal basso della cava, i deportati addetti al trasporto del materiale, salivano con una grossa pietra a spalla, a braccetto per sostenersi l'un l'altro, lungo una scala scavata nella roccia, di 176 gradini mi par di ricordare. Devi metter conto che il dislivello era di 70-75 metri e gli scalini di diversa altezza; uno poteva essere di 10 centimetri, un altro di 30, un altro ancora di mezzo metro. Questa variante nell'altezza, che non permetteva un passo cadenzato, aumentava la fatica e la sofferenza. Dodici ore al giorno. Un lavoro massacrante per gente nutrita normalmente: per i deportati denutriti, ammalati, sfiniti, era la decimazione. La chiamavano la scala della morte. Lungo il percorso i kapò colpivano con un nerbo chi dava segni di stanchezza; e la tragedia era che siccome procedevano in fila, se a un certo punto della salita qualcuno cedeva, nella caduta si trascinava quelli che gli venivano dietro. Era una scena orribile: come un tragico gioco dei birilli. Il lavoro come strumento di morte. Abbassa sotto un certo livello "alimentazione e aumenta la fatica: uccidi. Torturando. Una persona denutrita al freddo crepa. Il campo di rieducazione dicevano … regno della morte. Il freddo, la fatica, la sottoalimentazione: gli strumenti per darla. I forni crematori, strumenti per distruggere le prove. C'era chi resisteva pochi giorni; chi qualche mese. Pochi ce l'hanno fatta. Su 7000 e passa deportati italiani a Mauthausen, siamo tornati in poco più di un migliaio. MiIIetre, millequattro. Ti svegliavi al mattino, ma non sapevi se alla sera saresti stato vivo. Così quando andavi a letto alla sera. Ti saresti risvegliato? Ma la morte che giungeva nel sonno, era una buona morte. In certi momenti arrivavi a desiderarla. Perché non era vita quella del campo. Mi ricordo un giorno m'hanno dato 25 nerbate perché il ragazzo d'un kapò m'aveva scorto addosso un pezzo di coperta. Cioè: strappato un pezzo di coperta, ci avevo fatto un foro in mezzo per farci passare la testa e me la infilavo sotto la camicia per coprirmi un po' le spalle dal freddo. Quel ragazzo m'aveva denunciato al kapò : "Italiano sabotage" : 25 nerbate. E sapersi controllare. Trovare la forza di vincere l'istinto di schivare il nerbo. Ti facevano chinare e ti battevano sul sedere. La nerbata che non prendevi sulle natiche non veniva conteggiata. Se ti muovevi e la prendevi sulle gambe o sulla schiena la ripetevano. Dovevano essere esattamente 25 sul sedere. E dopo … È dopo che viene il peggio. Giorni e giorni di atroci sofferenze, senza potersi sedere o sdraiare, perché te la davano con un nerbo di rame rivestito di gomma; elastico, quando ti colpiva ti avvolgeva completamente. Qual era la mia colpa? Aver cercato in un certo qual modo di sopravvivere. Invece il deportato doveva spersonalizzarsi completamente e accettare la morte come sua unica possibilità; essere completamente succube della volontà del kapò, che a sua volta era succube delle SS. lo non ho mai visto fare … forse in un caso o due, delle torture dalle SS. Ma erano loro che decidevano la decimazione. Il kapò aveva tanti uomini in consegna al mattino, alla sera dovevano essere in tanti meno all'appello. Nella giornata era quella la percentuale di morti: si dovevano avere. Il kapò era a sua volta minacciato di morte se non ubbidiva. Ex ergastolani, criminali incalliti, condannati a pene lunghissime; ai kapò non pareva vero di avere tanto potere nelle mani. Se le SS dicevano di ammazzarne uno, ne ammazzavano dieci: per primeggiare, per restare sempre in cima al comando, con la speranza che la Germania vittoriosa alla fine della guerra si sarebbe ricordata di loro. Mangiavano bene, vivevano al caldo e ubbidivano ciecamente alle SS. Quasi tutti omosessuali, si compravano con qualche pezzo di pane quei poveri disgraziati di ragazzi di sedici diciassette anni deportati nei campi di concentramento. Uccidevano, aspettando la fine della guerra. Il gusto, il piacere della tortura, della distruzione, l'istinto di morte che può esistere come addormentato in qualsiasi individuo, s'era sviluppato in loro, in quelle condizioni particolari, al punto da renderli completamente insensibili e atrocemente feroci. Non dimentichiamoci che non tutti i kapò erano ex galeotti, o evidentemente dei pazzi malati; anche vecchi deportati, sperando di salvarsi la vita, avevano accettato di collaborare con le SS diventando kapò. Pur non essendo delinquenti incalliti, erano diventati uguali ai primi. lo perché ce l'ho fatta? Perché mi son salvato? Principalmente perché avendo una specializzazione m'hanno destinato a lavorare in officina; e ho avuto la fortuna di capitare in un kapò, rarissimo esempio, un austriaco di Vienna, un kapò che non aveva perso la sua umanità. Era stato fatto prigioniero nel '39. Non aveva mai ceduto alle SS. Era un tecnico capace, gli avevano dato responsabilità in fabbrica, ma lui con noi s'è sempre comportato con umanità. E io, ancor oggi, se lo incontrassi lo abbraccerei. Ma pensa per esempio, come ti dicevo, a coloro che lavoravano alla cava di pietra. È successo che giunta sera, il kapò, che non aveva raggiunto la sua quota di morti, per stare agli ordini delle SS - e salvarsi la sua d'una pelle - facesse lottare tra loro i deportati sull'alto della rupe: sopravviveva il più forte o il più fortunato che non veniva scaraventato dall'alto. Lo chiamavano il volo dei paracadutisti. Ma a volte erano i kapò stessi che, per sveltire le cose, scaraventavano i deportati dall'alto. E pensa un'altra cosa: da Gusen 1 partivano squadre di deportati per un lavoro più bestiale ancora, quello dello scavo di una grande galleria dove i tedeschi intendevano impiantare la fabbrica al riparo dai bombardamenti. Un lavoro più duro, più cattivo, sempre al freddo e all'umidità, coi kapò più feroci. Carucci mi pare ci lavorò alle gallerie. Uno dei pochissimi sopravvissuti. Nei quattordici, quindici mesi che ci sono stato a Gusen 1, non ho mai visto un pezzo di sapone e un asciugamano. La sveglia alla mattina alle cinque. Alzarsi e andare a lavarsi a dorso nudo, senza asciugamano e senza sapone. Dovevi tentare di asciugarti con un lembo della camicia. E fare tutto in fretta. Perché l'ultimo che si presentava all'appello veniva preso a calci e a schiaffoni. Tutte le mattine. E c'era sempre un ultimo. Ho provato un giorno in cui facevano la disinfezione, starmene completamente nudo, a quattordici sotto zero, fuori sul prato ad attendere. L'acqua che ti rimaneva addosso dopo la doccia diventava candelotti di ghiaccio. Così ci eliminavano. Il cimitero degli italiani è stato Gusen 1. Gusen 1 e Gusen 2. In quelle condizioni molti morivano di dissenteria. Per combatterla, d'inverno facevamo carbonizzare un pezzo di legno, poi lo frantumavamo e lo masticavamo … Malattie, sfinimento, me li vedevo cascare a terra davanti a me. Mi ricordo di un compagno di Monza, un certo Capra. Una sera, prima di andare al lavoro, cercava di vendere il pane per avere una sigaretta. - Capra! Capra, cosa fai?! Le ultime sue parole: - Gori lasciami, lasciami levare l'ultima soddisfazione. Tanto non ce la faccio più. Ha venduto quel pezzetto di pane e s'è fumato la sigaretta. L'indomani mattina l'ho trovato morto nella sua branda. Ho visto impiccare un uomo, io … gli ho visto mettere tre volte la corda al collo. Due volte gli avevano aperto la botola sotto i piedi e tutte e due le volte la corda si è spezzata. Ma ti pare possibile una cosa simile? Dovergli mettere tre volte la corda al collo per impiccarlo? Lo facevano apposta, chiaro! Per crudeltà. Per lo spettacolo. O perché si era veramente ribellato, o perché lo accusavano di sabotaggio, fosse vera l'accusa o no, non aveva importanza: bastava che al comandante fosse venuto in mente di dare spettacolo, era la pena di morte e la messa in scena. Montato il palco, facevano l'adunata di tutti i deportati. Schierata la SS, noi tutti davanti ad assistere. Quel povero disgraziato andavano a prelevarlo nella prigione in corteo, con i musici. Le SS, il condannato a morte, e dietro violini e mandolini che gli suonavano musichette, canzonette. Quando arrivavi al campo, chiedevano chi fosse capace di suonare uno strumento. A uno veniva spontaneo di dirlo. Allora veniva spesso chiamato per andare ad allietare con la sua musica le serate delle SS e dei kapò. Lo compensavano con un tozzo di pane, qualche rimasuglio della loro cucina, qualche sigaretta. E poi in caso di impiccagione veniva chiamato. Allora tu vedevi lungo il percorso sto disgraziato che si trascinava a stento avvicinandosi al patibolo, e i musicisti dietro che gli suonavano magari "O sole mio!". Quello saliva sulla forca, gli mettevano la corda al collo, e loro sotto a sviolinare. Poi aprivano la botola e quello precipitava sotto; ma la corda si rompeva e tutto ricominciava da capo: musichetta, corda al collo … e noi davanti ad assistere per  "rieducarci". Canducci non l'ho più visto. Arrivati a Mauthausen l'han mandato in su verso la Polonia. Non tornò più. Anche i due fratelli Picardi furono mandati a Ebensee, tornò solo Licinio per morire poco dopo a Sesto. Restò a Mauthausen Piraccini, e morì. A Gusen 1 con me ci venne il Chendi, morì. Il Gerbinati, Guerra e Valenari della Breda, Carucci che tornarono. Eravamo una ventina di nazionalità, 18-20.000 deportati; di italiani, proprio di preciso non lo saprei, ma il nostro gruppo variava, tra quelli che arrivavano e quelli che morivano, tra le novecento e le mille presenze. Quasi tutti del nord Italia; qualche romano, parecchi toscani finiti nel campo di Ebensee e qualche meridionale come Carucci, presi in alta Italia. Dentro il campo avevamo organizzato un Comitato internazionale, che ci aiutò a resistere. I morti giornalieri non si contavano, si accatastavano per essere inceneriti accanto ai forni crematori che funzionavano 24 ore su 24; ogni cosa trasudava morte e nel deportato subentrava la rassegnazione. La rassegnazione accelerava la morte. E io ho notato questo: che quelli che reagivano con una certa volontà politica, son quelli che hanno meno ceduto. Proprio ceduto anche fisicamente intendo dire. Forse perché si accendeva in loro una volontà di non lasciarsi andare, di tornare a casa, di continuare a vivere, di lottare malgrado tutto. Quello che cominciava a dire "tanto io muoio", "non ce la faccio a tornare a casa", "io muoio", "io muoio", è morto. I tedeschi, un mese prima dell'arrivo degli Alleati, avevano fatto partire tutte le SS e tutti i kapò. Son rimasti quei rari che avevano la coscienza tranquilla, come quel viennese. Noi nelle ultime settimane eravamo sul chi va là. Eravamo venuti a sapere che le SS intendevano metterci tutti dentro le gallerie e che poi le avrebbero fatte saltare. Che fare? La nostra organizzazione era già tanto che potesse farci arrivare le notizie. Non avevamo la forza di ribellarci. Ci furono momenti carichi di tensione. Sapevamo che i russi erano arrivati quasi al Danubio, che gli Alleati erano ormai vicini, potevamo essere o tutti uccisi o tutti liberati entro pochi giorni. Poi venimmo a sapere che gli inglesi avevano mandato un ultimatum ai nazisti : se ci avessero fatti saltare nelle gallerie, ci sarebbe stata una ripercussione sui prigionieri tedeschi. Venimmo a sapere che le mine piazzate nelle gallerie erano state disinnescate. Ma non avevamo la certezza. Restammo con quel timore fino all'ultimo. Fino a quando non giunsero gli americani. Arrivò per prima una pattuglia avanzata, in motocicletta. Entrò nel campo, alzò una bandiera e ripartì. Fu una presa di possesso simbolica, ma credo che i primi non sapessero esattamente dove erano arrivati. Ci fu una gran confusione. Ventimila persone nella più completa anarchia. Ogni nazione ha fatto gruppo a sé. Gli spagnoli presero subito possesso del campo delle SS che era il migliore. I russi sono spariti subito. Oltre il Danubio c'era l'armata rossa, e loro passarono il fiume per raggiungerla. Qualche polacco è rimasto; qualcun altro se ne era andato coi russi. I francesi si erano raggruppati nel loro accampamento. Noi italiani, ultimi arrivati, non sapevamo come comportarci. Sono stati giorni di completa confusione. Poi entrarono gli Alleati. Sulle torrette salirono delle sentinelle americane. E all'inizio furono teneri con noi. Forse il comandante era caduto anche lui nell'equivoco di crederei dei collaboratori dei nazisti. Ce n'è voluta per fargli capire che eravamo dei resistenti deportati per la nostra attività antifascista. Non so com'è stato negli altri campi. Con noi a Gusen 1 all'inizio gli americani furono più che freddi. Fin quando s'è chiarito e allora ci hanno trasportati a Mauthausen. Ma prima … Una volta che siamo andati a reclamare perché ci avevano dato una sorta di zuppa di farina di ceci che non potevamo proprio mangiare, ci siam sentiti rispondere che quella era la dieta studiata dai loro specialisti: "Chi vive vive, chi muore, muore". Quando venne l'ordine di rientrare ci hanno ricaricati su un treno e in sei giorni siamo arrivati in Italia. A Linz ci avevano fatti trasbordare su un merci. Poi un'altra sosta a Innsbruck. E infine, pian piano giù fino a Bolzano. A Bolzano incontrai mia cognata che era venuta incontro ai deportati che rientravano dalla Germania con dei camion della Falck. Sono arrivato a Sesto su dei mezzi della mia fabbrica. Prima però m'ero fermato un momento a San Rocco per salutare mio fratello. Poi sono andato a Milano all'Unità, con il senatore Albertini : abbiamo portato un po' della terra del campo di Mauthausen. Infine mi sono diretto a casa. M'aspettava mio padre, la fidanzata era ancora al mio paese, in Toscana. Salgo sulla vettura per venire a Sesto e il tranviere mi chiede i soldi del biglietto. In quel momento mi sono ricordato che non avevo una lira in tasca. Allora gliel'ho detto: - Torno adesso dal campo di concentramento, non ho un soldo. Lui m'ha fatto: - Niente niente, non importa! E poi mi guardava. M'ero seduto lì vicino. Si vedeva che aveva voglia di chiedere, di fare delle domande. Ma io guardavo fuori dal finestrino: non avevo voglia di parlare.

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