TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Vittoria Gargantini *

* Ex deportata dei Lager di Auschwitz e Ravensbrück.

Tutto cominciò nel luglio del 1943, alla caduta di Mussolini. Uscimmo allora dalle fabbriche per scioperare, e le fotografie scattate durante queste manifestazioni furono usate per riconoscerci e metterci in prigione. Con lo sciopero chiedevamo un aumento delle razioni ottenibili mediante la tessera e dopo questa protesta saremmo tornati in fabbrica. Nella casa dove abitavo con i miei genitori arrivarono invece, di notte, gli uomini della Muti e mi trascinarono via per interrogarmi. Al commissariato di San Fedele passai quattro notti senza dormire, con il cappotto addosso, perché aspettavo di essere interrogata. Ci portarono poi a San Vittore dove ci chiamavano “le scioperanti”, e dove trovammo altri operai della Breda. Formavamo un gruppo di sette od otto donne, ci chiedevamo quale sarebbe stata la nostra sorte e presumevamo che ci avrebbero mandato in Germania a lavorare. Ci portarono poi a Bergamo dove, ricordo, eravamo sorvegliate durante l’ora d’aria da soldati tedeschi. Con l’aiuto degli abitanti del luogo fu possibile avvisare i nostri parenti cui, peraltro, era concesso farci visita quotidianamente e portare ciò che pensavamo sarebbe stato utile per andare in Germania a lavorare. Il giorno della partenza ci recammo fino alla stazione a piedi, e ricordo che molti bergamaschi piangevano. Alla gente era vietato entrare nella stazione, perché durante la tradotta precedente alcuni partigiani erano riusciti a fermare il treno e a far fuggire alcuni uomini. Ci dicevamo l’un l’altra “Tusann, sem dré balà num, balem”; così, noi trentasei donne, arrivammo di sera all’entrata monumentale del campo di Mauthausen chiedendoci dove mai fossimo arrivate. Al mattino, la prima sorpresa fu vedere gli uomini, dai capelli completamente rasati: vedendo che portavano delle tracolle, chiesero a noi del pane. Dopo la doccia, un ufficiale ci chiese in italiano perché ci trovassimo lì: come facevamo a saperlo? Non sapevamo quel che sarebbe stato di noi: i nostri uomini vedendoci passare dicevano: “Tusann, curagg!”. A noi non tagliarono i capelli né ci immatricolarono, ma ci vestirono con goffi abiti da uomo e ci sequestrarono tutte le valigie. Ci sistemarono poi in piccolissime celle, in cui dovevamo stare in sei; eravamo giovani, e cercavamo di sopportare con pazienza. Ci stupiva non vedere qui altre donne fuorché noi. Dopo averci riconsegnato le nostre valigie svuotate di tutto ciò che contenevano, ci inviarono a Vienna in gruppi di dodici persone, dopo averci consegnato delle razioni di cibo che, per timore che ci venisse sottratto, mangiammo subito; arrivammo alle carceri della capitale austriaca dove, dopo una doccia, le dure ausiliarie delle SS ci obbligarono ad indossare vecchie divise degli ussari. Qui restammo sei giorni, fra donne delle nazionalità più diverse; noi stavamo vicine le une alle altre. Sentivamo dire “Polen, Polen”, ma cosa voleva dire? Fummo portate alla stazione, quattro donne ebree vennero isolate in fondo al treno, e così iniziò il viaggio; alcune piangevano, sapendo quale sarebbe stata la metà. In ogni stazione un cartello portava la scritta:”non dare acqua ai prigionieri”, ma noi non capivamo il tedesco. Scendemmo a Birkenau e, in fila per cinque, di notte – perché sovente venivamo trasferiti di notte – all’abbagliante luce dei fari, giungemmo a piedi fino ad Auschwitz. La scritta che campeggiava all’entrata del campo diceva – come dopo ci fu detto – “Il lavoro rende liberi”. Ad Auschwitz la vita era terribile. Un grandissimo viale divideva il campo A – destinato alle donne, che erano moltissime – dal campo B, riservato agli uomini. Molto spesso ci lasciavano nude. Ricordo che quando ci fecero fare la doccia e ci rasarono i capelli i prigionieri più anziani ci rubarono i pettini e il dentifricio. Ci vennero date delle scarpe, ma spesso si trattava di un paio di destre o di un paio di sinistre. Piangevamo. Giungemmo alla baracca quando avevano già distribuito la zuppa, così rimanemmo digiune. Le Kapò ci picchiavano perché non capivamo niente, così osservavamo le altre per imparare; ognuno parlava lingue diverse, il campo sembrava una torre di Babele. Passammo tre mesi ad Auschwitz, da aprile a giugno, lavorando nei campi; bisognava seminare e poi schiacciare bene la paglia con i piedi. Tutte le sere ci portavano lo stesso pezzo di pane quadrato da dividere in sei; tutte le sere, poiché eravamo invase dai pidocchi, ci portavano via i vestiti lasciandoci nude. Nel riconsegnare i vestiti pronunciavano il  numero di riconoscimento in tedesco o in polacco: non capivamo nulla, e per fortuna ci venivano in aiuto alcune slave che sapevano un po’ d’italiano. Al mattino, prima di andare a lavorare, veniva fatto un interminabile appello. Un giorno giunsero degli industriali per scegliere le donne più adatte a lavorare nelle loro fabbriche; io ero ricoperta da brufoli, perché ero costretta a lavorare a contatto con sostanze che mi provocavano continuamente prurito. La settimana successiva mi mandarono insieme a molte altre donne a Ravensbrück: lasciavamo il purgatorio per l’inferno. Ci sentivamo perse; nelle baracche v’erano alti letti a castello, i cui posti in basso erano destinati alle prime arrivate mentre più in alto, fra la sporcizia e gli escrementi, le donne gridavano e morivano. Alla mattina l’appello durava dalle quattro alle dieci, durante il quale, spesso, le donne morivano piegandosi come sacchi vuoti, e non potevamo nemmeno spostarle perché dovevamo essere contate. In seguito ci mandarono a Wittenberg, in una fabbrica che mi ricordava la Breda, dove costruivano aeroplani. Dimostrai di essere in grado di saldare, e mi destinarono alla catena di montaggio a battere chiodi, un lavoro che non avevo mai fatto. Avevamo fame e non ci davano niente da mangiare. Piangevamo; la Kapò era forse dispiaciuta perché vedeva i nostri sforzi e ci diceva: “Non piangere!”. Una sera, durante il turno di notte, venne fatto un appello straordinario: mancava una deportata politica tedesca, riuscita a fuggire fra un turno e l’altro. Dopo alcune ore di ricerca con i cani, la trovarono sul tetto del magazzino, la portarono davanti a noi e la torturarono: era un chiaro avvertimento diretto a noi, perché non osassimo scappare. Cercavano di farla rinvenire con dell’acqua fresca, ed ogni tanto ci chiedevamo:”ma non è ancora morta?”, perché eravamo sfinite, ma dovevamo aspettare che fosse spirata. Talvolta ascoltavamo Radio Scarpa: nel Lager non esistevano giornali. Giunse così la fine della guerra, e si avvertiva un’atmosfera sempre più tesa, ci picchiavano e bastonavano sempre, senza motivo. Era terribile, capivamo di essere arrivati alla fine. Una mattina ci svegliammo, notando la totale scomparsa dei tedeschi dal campo. Le prigioniere scappavano, le russe avevano preso possesso delle cucine e consigliavano di fermarsi fino all’arrivo degli Alleati. Eravamo vestite solo con una coperta; le  malate in ospedale ci chiedevano di essere portate via e ci occupavamo di loro. Noi italiane – eravamo molte – ci riunimmo in gruppo ed andammo dei soldati italiani che ci diedero da mangiare, ma che, pur volendolo, non poterono portarci con loro. Era la liberazione.

Da «... per non dimenticare». Atti di due incontri a Nova Milanese, con le presentazioni di Italo Tibaldi (ex deportato del Lager di Ebensee, sottocampo del Lager di Mauthausen, autore del libro Compagni di Viaggio, Ed. Franco Angeli, 1994, vice Presidente del Comitato Internazionale di Mauthausen):  «Donne nei Lager. La scelta di testimoniare» (ottobre 1995) e «Sacerdoti nei lager» (aprile 1996), a cura di Laura Deleidi e Giuseppe Paleari, Comune di Nova Milanese, Assessorato alla Cultura e Biblioteca Civica Popolare.

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