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Ex deportata dei Lager di Ravensbrück e Bergen-Belsen.
Autrice del libro Vita da donne. Ed. Lupetti, 1995.
Fui arrestata ad Aosta insieme a mio marito a causa della
nostra partecipazione al movimento partigiano. Dalle carceri di Aosta ci
trasferirono, dopo molti interrogatori, alle Nuove di Torino, dove il comando
fascista ci consegnò a quello
tedesco. Dopo esser rimasti circa un mese nelle carceri del capoluogo
piemontese, ci portarono nel campo di Bolzano, luogo di smistamento e di
partenza dei prigionieri per la Germania. Nel campo di Bolzano le condizioni di vita non erano dure
come negli altri campi: anzitutto era rassicurante trovarsi ancora in Italia, ed
avevamo inoltre la fortuna di mangiare un po’ di zuppa d’orzo tutti i
giorni. Ci portavano a lavorare nelle caserme, ad attaccare bottoni ai teli
militari. Eravamo vestiti con una tuta da meccanico e portavamo già il
triangolo rosso. Da Bolzano, mio marito partì per primo per un campo di
lavoro nei pressi di Lipsia; io partii col
altre donne il 10 ottobre 1944, il giorno del mio compleanno, su un carro
bestiame diretto in Germania. Di Innsbrück, ove ci fecero scendere per breve
tempo, conservo ancora il ricordo di uno stupendo sole che tramontava dietro
alle montagne, che mi ricordavano quelle della Valle d’Aosta. Riprendemmo
presto il nostro viaggio, rinchiuse in questo vagone e cos’ numerose da essere
costrette a darci il cambio per poterci sedere un poco; mancava una qualsiasi
sorta di gabinetto, perciò dovevo compiere le necessità fisiologiche di fronte
a tutte, e ciò mi dava molto fastidio. Fu in seguito aperto un buco nel
pavimento del vagone, e ci servimmo così di questo, anche perché il viaggio
durò cinque giorni. Nella mia incoscienza ero contenta di essere partita per un
campo di lavoro; pensavo infatti che lavorare sarebbe stato molto meglio dello
stare rinchiusa in carcere e che, a guerra finita, saremmo tornati a casa. Giungemmo così
a Ravensbrück dove, nel grande viale che portava al campo, vidi le belle ville
dei comandanti tedeschi, con le tendine e i fiori alle finestre, e pensai che il
nostro lavoro sarebbe, forse, consistito nello svolgere lavori domestici in
queste case.come invece ci aprirono la porta del Lager, ci apparve una realtà
ben diversa: le donne avevano i capelli rasati, erano vestite con rozzi abiti a
righe e con croci cucite sopra, ai piedi calzavano pesanti zoccoli olandesi.
Alcune squadre – obbligate peraltro a cantare – stavano partendo per il
lavoro, altre trascinavano carri carichi di cadaveri. Ci lasciarono dormire diverse notti all’addiaccio, e ci
fecero poi la visita, durante la quale ci privarono di tutto ciò che avevamo,
ci spogliarono completamente visitando ogni parte del nostro corpo senza avere
alcun riguardo e, infine, ci consegnarono un vestito e un paio di scarpe. Ci
fecero fare la doccia e ci portarono nelle baracche. Ricordo, quando entrai
nella grande baracca, un lettino molto ordinato con un lenzuolo a quadretti
bianchi e blu: ero talmente stanca che mi appoggiai al bordo, e subito ricevetti
uno schiaffo terribile da una Kapò. Mentre mi chiedevo il perché di questo,
ella mi chiamò, in modo sprezzante, “Badoglio”: in quel momento compresi
come noi italiani fossimo considerati i traditori della Germania. Il letto assegnatomi si trovava al quarto piano di un letto a
castello in cui dormivano tre anziane polacche, distrutte dal lavoro e dalle
malattie, che mi consideravano un’intrusa e mi riempivano di botte. Alla cinque del mattino veniva fatto l’appello e spesso,
non facendo in tempo a vestirci, andavamo nude: la conta poteva durare anche
delle ore, perché mancava sempre qualcuna, essendo morta durante la notte o
perché, malata, si trovava in infermeria.In seguito, ci venne fatta un’altra visita dove fummo
costrette a sfilare nude: questa era la cosa più umiliante per noi, ed infatti
i tedeschi lo facevano proprio per questo. In successive visite mediche furono
compiuti anche esperimenti su di noi, iniettando direttamente sulla vagina un
liquido irritante che ci interruppe il ciclo mestruale e ci provocò molti
disturbi fisici. La maggior parte delle donne, in seguito, non ha più avuto
mestruazioni né ha più potuto avere figli. Anch’io dovetti subire questo
trattamento e, oltre alla mancanza di mestruazioni, vidi comparire piaghe e
foruncoli su tutto il corpo. Questa era una pensa in più riservata a noi donne.All’inizio della prigionia il lavoro consisteva nel formare
mucchi di sabbia, caricarli su carrelli, spingerli in un altro luogo per poi
riportarli al punto di partenza: anche questo lavoro, totalmente inutile, era
stato pensato solo per stancare, umiliare e degradare. Un giorno giunsero degli industriali tedeschi, e così ci
incolonnarono sulla grande piazza, perché scegliessero le donne più idonee a
lavorare nelle loro fabbriche. Notai come guardassero la robustezza fisica e
soprattutto la callosità delle mani, che denotava capacità di svolgere il
lavoro pesante. A me non mancavano calli alle mani e, così, fui scelta e
mandata a lavorare insieme a tante altre compagne a Salzgitter, un campo più
piccolo non lontano da Ravensbrück.In fabbrica v’erano tre turni di lavoro: dalle sei del
mattino alle due del pomeriggio, dalle due alle dieci di sera e la notte. Siamo
state ricevute da un comandante del Wehrmacht che, più benevole di altri, ci
disse: “Qui non c’è alcun forno crematorio, non sarete maltrattate però
dovete ubbidire”. Abbiamo così iniziato a fabbricare anelli di rinforzo per
le bombe fino a quando le truppe alleate non avanzarono verso la Germania:
allora ci portarono via senza dirci quale fosse la nostra destinazione (che era,
in effetti, Ravensbrück). Durante questo viaggio ci trovammo sotto un terribile
bombardamento, da Celle ad Hannover, e miracolosamente non riportai alcuna
ferita. Ci radunarono di nuovo e, dopo aver dormito due notti all’addiaccio
nel bosco, percorremmo molti chilometri a piedi per arrivare al campo di
Bergen-Belsen. Questa marcia fu terribile, perché gli aerei alleati ci
mitragliavano continuamente ed avevamo una gran sete, forse più brutta a
provarsi della fame.avevo con me un pezzo di pane nero, che una mia compagna
aveva rubato da un camion di rifornimenti, ma non lo mangiavo perché volevo che
durasse più a lungo, così ogni tanto leccavo questo piccolo pezzo di pane che
aveva preso la forma di una palla. Nel campo di Bergen-Belsen una prigioniera
polacca mi offrì un sorso d’acqua in cambio di questo pezzo di pane che, fra
l’altro, fu l’ultimo che vidi in Germania prima dell’arrivo degli Alleati.Ho sempre davanti agli occhi quel che vidi a Bergen-Belsen,
mucchi e mucchi di cadaveri insepolti perché non c’era un forno crematorio;
non c’era acqua, non c’era niente, e allora cominciai a disperare di poterne
mai uscire viva. Soffrivamo tutte di diarrea, eravamo piene di pidocchi,
andavamo a turno a raccogliere bucce di barbabietole davanti alle cucine, e a
chi aveva mangiato la buccia più spessa sarebbe toccata, la volta successiva,
quella più sottile: questo era la fame.Non posso dimenticare tutti quei cadaveri sparsi attorno alle
baracche, perché coloro che morivano durante la notte venivano buttati fuori;
non esisteva più il senso della dignità, i bisogni fisiologici venivano
depositati sui cadaveri, cadaveri con occhi e bocche spalancate. Quando le
truppe inglesi entrarono per la prima volta nel campo, rimasero sconvolti di
fronte a questa orribile vista; noi non avevamo nemmeno la forza di applaudire
il loro arrivo, perché non riuscivamo neppure a credere di essere liberi.
Incominciarono a portare via dal campo gli ammalati e i bambini, ed infine
fecero uscire anche noi, ci ripulirono e ci disinfettarono. Ero molto malata, ed
avendo la fortuna di parlare francese, riuscii a spiegarmi e così mi
ricoverarono in una clinica tedesca dove guarii dalla scabbia e da tutte le
malattie che avevo.Tornai in Italia nel mese di settembre del 1945 e, come ha
detto Lidia, tutti stentavano a credere alle nostre parole, ci guardavano con
sospetto o non ci ascoltavano. Così non avevo più il coraggio di parlare, e
questo silenzio mi è pesato per tanti anni. Incominciai a parlare con i miei
figli ormai cresciuti, su loro richiesta; oggi il peso si è alleviato anche se
non ha dimenticato nulla: non posso dimenticare, ho perdonato ma non dimentico.
Vedo oggi nel mondo tante guerre, dalla Jugoslavia al Randa, e mi chiedo come
possano, alle soglie del duemila, esistere ancora questi conflitti orribili. Mi
sembra, tuttavia, che la macchina infernale realizzata da Hitler e dai suoi
collaboratori sia stato un esempio unico nella storia. Mi dolgo del silenzio che
su questo argomento ha regnato in tutti questi anni nel mondo della scuola e
delle istituzioni e penso che talvolta si sia cercato di nascondere gli eventi
accaduti, atteggiamento che, a mio parere, ha impedito la nascita di una vera
cultura di pace.
Da
«... per non dimenticare». Atti di due incontri a Nova Milanese, con le
presentazioni di Italo Tibaldi (ex deportato del Lager di Ebensee,
sottocampo del Lager di Mauthausen, autore del libro Compagni di Viaggio,
Ed. Franco Angeli, 1994, vice Presidente del Comitato Internazionale di
Mauthausen): «Donne nei Lager. La scelta di testimoniare» (ottobre 1995)
e «Sacerdoti nei lager» (aprile 1996), a cura di Laura Deleidi e Giuseppe
Paleari, Comune di Nova Milanese, Assessorato alla Cultura e Biblioteca Civica
Popolare.