TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI
Liliana Segre
La
deportazione
Avevo
13 anni nel 1943 e conoscevo da cinque la persecuzione, perché una sera
di fine estate del 1938, cinque anni prima, mio papà mi spiegò con dolcezza
che non avrei più potuto andare a scuola, in via Ruffini, poiché ero una
bambina ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la
mia vita come prima. Eravamo diventati cittadini “di serie B”. Cominciò una
nuova vita, una nuova scuola; sentivo crescere le preoccupazioni, vedevo i visi
dei miei familiari intristiti, a volte umiliati da situazioni che non mi
venivano spiegate, ma che io intuivo dolorosamente. Dopo l’8 settembre 1943,
con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale, furono le leggi di
Norimberga a condannarci. Mio papà decise di mettermi in salvo: mi procurò
documenti falsi e mi affidò ad amici eroici che rischiarono la vita per
nascondermi. Allora lasciai per sempre la mia casa e i miei nonni. Dopo qualche
tempo mio papà ed io cercammo di fuggire in Svizzera. Eravamo in balìa di
contrabbandieri esosi e senza scrupoli. Con grande fatica passammo il confine
sulle montagne dietro a Viggiù e arrivammo in Svizzera. Il sogno durò poco:
pochi passi in un bosco e ci imbattemmo in una sentinella che ci accompagnò al
vicino comando. Là un ufficiale svizzero tedesco non volle sentire né ragioni,
né suppliche e ci rimandò indietro. A 13 anni entrai da sola nel carcere di
Varese, piangendo disperatamente. Poi fui a Como; poi a Milano, a San Vittore.
Qui ero con mio papà. Il quinto raggio era destinato ai prigionieri ebrei:
tutti ammassati in attesa della deportazione annunciata. Guardavo piazza
Aquileia dietro i finestroni schermati. Alla fine di gennaio un implacabile
appello scandì anche i nostri nomi. Caricati su un camion, attraversammo Milano
e fummo portati alla Stazione Centrale, dove nel sotterraneo era pronto per noi
un treno merci. Fummo fatti salire a calci e pugni e piombati nei vagoni. Il
viaggio durò una settimana. Eravamo ammassati l’uno sull’altro; un secchio
per gli escrementi e un po’ di paglia per terra, senza né luce, né acqua.
All’alba del 6 febbraio il treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il rumore
osceno e assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo
i comandi e ricordo quando fui separata per sempre da mio papà.
“Il
treno si mosse...”
“Il
treno si mosse e sembrò puntare verso Sud. Andava molto piano, fermandosi a
volte per ore. Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume
dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari. Gli adulti dimostravano un
certo sollievo, visto che il treno non era diretto al confine, ma alla sera ci
fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì. Tutti piangevano,
nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando verso Nord, verso
l’Austria. Era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote.
All’alba il treno si fermò e con sgomento vedemmo scendere i ferrovieri
italiani e salire i sostituti, forse austriaci, forse tedeschi. Dai vagoni
piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno
ascoltava. Il treno ripartì. Il vagone era fetido e freddo, odore di urina,
visi grigi, gambe anchilosate, non avevamo spazio per muoverci. I pianti si
acquietavano in una disperazione assoluta. Io non avevo né fame né sete; mi
prese una specie di inedia allucinata come quando si ha la febbre alta; quando
riuscivo a riflettere pensavo che, forse, senza di me, Papà avrebbe potuto
scappare da San Vittore, saltare quel muro come aveva proposto Peppino Levi, o
forse no. Mi stringevo a Lui, che era distrutto, pallido, gli occhi cerchiati di
rosso di chi non dorme da giorni. Mi esortava a mangiare qualcosa, aveva ancora
per me una scaglia di cioccolato. La mettevo in bocca per fargli piacere, ma non
riuscivo ad inghiottire nulla. Nel centro del vagone si formò un gruppo di
preghiera: alcuni uomini pii, fra i quali ricordo il signor Silvera, si
dondolarono a lungo recitando i Salmi. Mi sembrava che non finissero mai: erano
i più fortunati. Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia
totale: era difficile calcolare il tempo. Pochissimi avevano ancora un orologio
e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più. Ogni tanto vedevo
qualcuno alzarsi a fatica e cercare di capire dove fossimo, guardando dalle
grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva
un paesaggio immerso nella neve, si vedevano casette civettuole, camini fumanti,
campanili… Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e
qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’
d’acqua e vuotare il secchio immondo. Anch’io e il mio Papà scendemmo e
vedemmo per la prima volta, scritto col gesso sul vagone: ‘Auschwitz bei
Katowice’. Capimmo che quella era la nostra meta. Il treno ripartì quasi
subito e la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta
disperazione. Fu silenzio nel vagone in quegli ultimi giorni. Nessuno più
piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza
delle ultime cose. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi.
Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo
il nostro amore come un ultimo saluto. Era il silenzio essenziale dei momenti
decisivi della vita di ognuno.”
Da Milano Centrale, binario 21 Destinazione Auschwitz, 2004 Proedi Editore S.r.l.