TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Ida, vedova di Aldo Guerra *

Venti giorni, una vita - Testimonianza della vedova di un deportato

(* Aldo Guerra - Deportato nel campo di sterminio Gusen e Mauthausen, morto a Gusen)

Mio padre era capo-lega dei carrettieri rossi a Badia Polesine, una cittadina ridente sulle rive dell’Adige, e si occupava, pertanto, negli anni dopo la prima guerra mondiale, di questioni sindacali a favore degli addetti ai trasporti con carro a cavalli. Oltre a mio padre e mia madre, in casa, c’eravamo noi, sei fratelli tutti piccoli, tutti vicini d’età e già nei primi anni di vita sentivamo parlare di sindacato, di socialismo, di diritti dell’uomo: abbiamo imparato anche, ben presto, quali rischi comportasse, allora, sostenere ideali socialisti, quando cominciarono nel Polesine e nella bassa Ferrarese, le incursioni delle squadre fasciste. Mio padre informato di quanto accaduto ad altri capi-lega che erano stati bastonati a sangue e qualcuno ucciso sotto gli occhi dei famigliari, ci mandava a letto presto la sera e sprangava uscio e finestre. Questa precauzione si rivelò essenziale all’incolumità di tutti quando le squadre fasciste cominciarono a prendere di mira la nostra casa. Arrivarono nottetempo, scendevano dal camion e dopo aver chiamato mio padre a gran voce, siccome nessuno rispondeva, si avvicinavano e cominciavano a tempestare di colpi l’uscio di casa. Noi ci destavamo, atterriti, nel sonno e la mamma passava da un letto all’altro per tenerci buoni mentre mio padre imprecava di rabbia. L’uscio reggeva bene e la cosa si ripetè per alcune notti, poi smisero per qualche tempo, quindi ricominciarono con maggiore violenza. Mio padre decise allora che noi ragazzi fossimo allontanati e ci spedì da alcuni parenti in campagna: lui rimase, ma la sera, si nascondeva in un pagliaio e di là, un’altra notte, dovette assistere, impotente, allo scempio che i fascisti compirono quando la porta cedette. La cosa venne poi riferita anche a noi ragazzi e suscitò in tutti dolore e uno sdegno profondo, alimentando un rancore che non si è mai sopito contro la violenza fascista e tutti quello che sapeva di fascismo. Ho ripensato spesso a quanto accaduto quella notte e spesso mi sono chiesta se quel fatto delittuoso non significasse, per me, un sinistro avvertimento del destino, il presentimento che la vita mi avrebbe negato, anche in età adulta, una casa, una famiglia mia. Per un grave disturbo agli occhi, dato da una forte miopia, ho cominciato le scuole in ritardo e verso i dodici anni ho finito la terza elementare, dopodiché sono rimasta in casa aiutando la mamma. Quando i fascisti ebbero saldamente in pugno il potere, dopo il delitto Matteotti, decretarono lo scioglimento delle leghe; mio padre allora si cercò da vivere esercitando la mediazione nella compra-vendita dei terreni agricoli, ma le aumentate esigenze della famiglia costrinsero i miei fratelli che erano cresciuti, a trovarsi lavoro, uno alla volta, anche lontano da casa. Anch’io a vent’anni sono finita a Sesto San Giovanni, in casa di una zia, dopo che mi era stato trovato un posto di lavoro alla Breda. Nei primi tempi sentivo molto forte la nostalgia di casa, ma, superate le difficoltà dei primi giorni, quando ho riscosso il primo stipendio ho capito che ce l’avrei fatta anche da sola. Col tempo mi sono fatta qualche amicizia e un giorno, qui a Sesto, mi capitò di incontrare in un bar un amico di infanzia, un ragazzo di Badia Polesine con cui avevo diviso i giochi e le spensierate scorribande in campagna, un ragazzo che mi era sempre stato simpatico. Anche per lui la vita era stata dura. La sua famiglia era emigrata in Svizzera dove aveva aperto un ristorante, ma purtroppo quando le cose sembravano andar bene, i genitori si ammalarono e morirono entrambi e i ragazzi, Aldo e una sorella, dovettero tornare in Italia dove furono chiusi in collegio, lui in quello per maschi, lei in un collegio femminile, con divieto assoluto per entrambi di incontrarsi. Insofferente alla dura disciplina dell'istituto, a sedici anni, Aldo riusciva a scappare e sfuggendo a tutte le ricerche si sistemava a Sesto come attrezzista presso la Breda; non appena l'età glielo ha consentito, ha fatto venire presso di sé la sorella, ricostruendosi una vita familiare. Ritrovata la nostra vecchia amicizia, prendemmo a frequentarci: lavoravamo entrambi alla Breda; lui poi la sera andava a scuola di ragioneria e studiava sempre fino a tardi. Qualche volta la domenica mi portava a ballare e, raramente, al cinema; non erano certo grandi divertimenti ma era già molto per le nostre finanze. Un giorno scoprimmo che ci volevamo bene e incominciammo ad accarezzare il sogno di costruirci insieme una vita, una famiglia. Realizzare quel sogno non sarebbe stato tanto facile: lui voleva innanzitutto finire gli studi e trovarsi un lavoro migliore; c'era il problema della cognata che non volevamo lasciare sola; c'era il problema della casa. Erano anni relativamente tranquilli, anni in cui la propaganda fascista voleva dare agli italiani l'illusione di essere una nazione forte e potente, gli anni della guerra d'Africa e di Spagna condotte vittoriosamente, ma per chi come noi, lavorava in officina, la ricchezza e la potenza erano soltanto parole, dietro alle quali c'erano sempre le difficoltà di ogni giorno. Aldo aveva pochi amici; quando si intratteneva a discutere con loro portava ad esempio quanto era accaduto in Russia e penso che in questo suo atteggiamento ci fosse un attaccamento appassionato a un certo ideale, più che un convincimento basato su dati di fatto, anche perché, allora, i giornali ci davano le notizie che volevano. Io ascoltavo ma non intervenivo: mi bastava stare sola con lui quando gli amici se ne andavano. Nel '40 scoppiava la guerra; Aldo si era impiegato come ragioniere alla Bianchi; ma i prezzi incominciavano rapidamente a rincarare e coi nostri stipendi vedevamo sfumare molto lontano il giorno delle nozze. Passarono i mesi: arrivò il 25 Luglio con una grande ondata di speranze, poi, inaspettata, la restaurazione fascista dopo l'otto settembre. In quell'estate si erano intensificati i bombardamenti: le macerie delle case distrutte si accumulavano nelle nostre strade; c'era una grande penuria di alloggi e molti cercavano scampo nello sfollamento. Grazie a uno di questi sfollati, improvvisamente, ci è stata offerta l'occasione di trovare casa, una casa che andasse bene per tutti noi, per me, per Aldo e per mia cognata. Un signore di Sesto si trasferì in campagna con la famiglia e ci affittava il suo appartamento a condizione che glielo rendessimo libero entro due mesi dalla fine della guerra. L'appartamento era rimasto arredato a metà: parte dei mobili i padroni se li erano portati con loro e così con l'acquisto di un tavolo, un armadio, due reti metalliche e un divano ci siamo costruiti la casa. Ricordo con quanto entusiasmo la sera dopo il lavoro, preparavamo la nostra casa; affrescavamo le pareti, lucidavamo porte e pavimenti… ricordo anche che ero riuscita, lavorando oltre la mezzanotte, a preparare le tendine per la nostra camera da letto… Come aspettavamo quel 10 febbraio, giorno fissato per le nozze! E finalmente la mattina del 10 nella chiesa di S. Stefano a Badia Polesine, ci siamo uniti in matrimonio e la sera, nella casa dei miei genitori, sono diventata la Signora Guerra. I primi giorni della nostra vita in comune sono stati bellissimi, allietati dall'affetto di tutti i nostri cari e dalla cordialità sincera degli amici. Avevamo inviti da tutti e tutti ci volevano con loro: quando riuscivamo a stare soli prendevamo le biciclette e andavamo al fiume. Era bello sedersi sul le rive del fiume e veder l'acqua scorrere: c'era tanta dolcezza in quei momenti nel silenzio della campagna invernale… Appoggiavo la testa sulla sua spalla mentre lui mi diceva: "Vedi, la vita è così come un fiume; le ore passano come le onde, i giorni scorrono dopo i giorni e tutto finisce in un mare infinito…" Io lo accarezzavo nei folti capelli neri e ricciuti e lo scuotevo: "Non essere così pessimista… Guarda piuttosto come è bella e viva la natura che si sveglia dal torpore invernale…" Spuntavano infatti allora le prime timide gemme sui rami spogli. “In fondo la vita è bella…” Poi parlavamo di tante cose e facevamo progetti infiniti. I giorni passarono in fretta; a fine febbraio scadeva la nostra licenza matrimoniale e il 27 e 28 eravamo in treno, sulla via del ritorno. Avevamo le valigie gonfie di ogni ben di Dio; ed io mi ero preoccupata di portare farina bianca e uova fresche perché volevo confezionare con le mie mani una torta o una grossa ciambella da offrire agli amici di Sesto che sarebbero venuti a trovarci. Appena a casa, una sorpresa molto amara: c'era una cartolina, indirizzata a me personalmente, dalla direzione della Breda con cui, per disposizione della autorità militare tedesca, mi si ingiungeva di mettermi a disposizione per un trasferimento in Germania in qualità di lavoratrice specializzata. Ci siamo guardati in faccia e nessuno dei due riusciva a nascondere il proprio sgomento. "Chiedi subito il licenziamento" è stato il primo commento di mio marito, ma un grave dubbio, un presentimento, molto triste entrò subito in noi, nella nostra casa. Restammo in piedi fino a tardi quella sera, poi non ci riuscì di prender sonno, tormentati dal dubbio e da molte incertezze. "Comunque vedrò domani in fabbrica - è stato il mio ultimo commento - a quest'ora è impossibile chiedere notizie a qualsiasi collega: il coprifuoco è incominciato da un pezzo". Sentimmo in quel momento passare un camion nel silenzio della notte: erano sicuramente i fascisti che perlustravano le strade. L'indomani in fabbrica ho notato subito una grande agitazione. Altre trenta donne avevano ricevuto, come me, la cartolina-precetto e questo se non altro contribuì a infondermi un podi coraggio. Decidiamo di mandare una delegazione a chiedere notizie; la direzione afferma di non sapere niente di preciso, comunque ci raccomandano di stare tranquille perché il trasferimento non è imminente e avremo tempo sufficiente per sistemare le cose di famiglia: inoltre dovremo prima sottostare ad un controllo sanitario. Con l'animo più sereno torno a casa, la sera, e trovo mio marito impaziente di notizie: gli racconto in breve e poi gli ricordo che eravamo ancora sposini novelli e che dovevamo invitare gli amici, pertanto che mi aiutasse a preparare la famosa torta. Dopo due ore la ciambella era cotta, nel forno della cucina economica, ma ormai era tardi per diramare gli inviti. L'indomani, sul lavoro, ci viene comunicato che noi, predestinate alla Germania, saremmo state sottoposte alla visita medica, a Milano al palazzo di giu­stizia, il giorno dopo. C'era in tutti i reparti un gran nervosismo. Si stava preparando in quei giorni il primo sciopero generale nell'Italia occupata dai tedeschi e gli ordini passavano silenziosi da un reparto all’altro. Su di me e su altre donne pendeva poi l'incubo della Germania. La sera, a casa, altri dubbi, altre paure. Mio marito voleva che mi allontanassi subito da Sesto, senza alcun indugio, e tornassi dai miei. lo, invece, volevo assolutamente rimanere con lui: insieme avremmo lottato, insieme avremmo trovato la soluzione ad ogni difficoltà. Come si era cambiata improvvisamente la nostra vita nel giro di qualche giorno! Eravamo appena tornati dal viaggio di nozze e sembrava che il destino volesse infierire contro di noi con accanimento e crudeltà, e contro quella casa che ci eravamo appena costruita. L'indomani, appena entrata alla Breda, ci avvertono che le donne destinate alla Germania, in mattinata, sarebbéro state accompagnate a Milano, in camion, per la visita medica. Quando stiamo per partire, il lavoro improvvisamente si ferma da noi, in tutte le fabbriche di Sesto e in tutta l'Italia, occupata dai tedeschi: per la prima volta gli operai italiani scendono in sciopero compatti. Al palazzo di giustizia, a Milano, ci fanno sostare alcune ore nell'attesa della commissione medica. Verso l'una arriva trafelato mio marito a chiedere notizie: anche alla Bianchi era cominciato lo sciopero e si era precipitato a cercarmi. C'era fermento nell'aria, io lo prego di tornare a casa al più presto e cerco anche di rassicurarlo: sembrava infatti che, in seguito allo sciopero, la nostra spedizione venisse sospesa. La sera, sbrigate le formalità del controllo sanitario, torno a casa, stanca e spossata. Suono due volte alla porta e viene ad aprire mia cognata: "Aldo non è ancora tornato" mi dice. Mi siedo e aspetto.' Passa un’ora, passano due ore,niente. La minestra si raffredda sul tavolo; mia cognata ed io ci guardiamo sgomente, nessuna osa proferire parola. Arriva la mezzanotte , poi l'una, le due, e sempre niente. L'indomani ci precipitiamo alla Bianchi e qui ci informano che Aldo, tornato un momento in ufficio a riprendere un documento, era stato arrestato dalla guar­dia nazionale repubblicana. Incomincia un giro vorticoso di ricerche affannose: lo cerchiamo a Sesto, a Monza, ai comandi delle brigate nere, il pomeriggio a Milano al comando della Muti. Verso sera torniamo a casa piangendo di rabbia, di dolore, di disperazione. L'indomani ci presentiamo all'Hotel Regina, sede del comando tedesco di Milano e qui ci chiudono in una stanza per due ore, poi ci lasciano andare. Verso sera siamo alle carceri di San Vittore: "Si, è qui - ci dicono – ma tornate domani, alle dieci, all'ora del parlatorio". La mattina dopo. molto prima delle dieci, siamo in coda a una lunga fila di persone in attesa fuori dal carcere, con un pacchetto di biancheria in mano e la famosa ciambella con cui avremmo dovuto festeggiare gli amici. Quando arriviamo alla porta ci comunicano che mio marito è partito nelle primissime ore del mattino con una spedizione destinata a Fossoli. A Fossoli? Ma a dove era Fossoli? Vicino a Carpi, in provincia di Modena. Piangendo, ormai sommessamente, torniamo a casa. Verso sera, con la forza della disperazione, rifaccio il pacchetto con la ciambella e la biancheria e corro alla stazione centrale di Milano, qui  riesco a prendere per la coda l'ultimo treno in partenza per  Bologna, mentre comincia a muoversi sui binari. A mezzanotte sono a Modena, sola, con il pacchetto in mano. Chiedo informazioni a qualche raro passante, e una donna, dopo avermi scrutato attentamente, mi dà l'indirizzo di un sacerdote che abita poco lontano. Suono e mi fanno entrare, mi scaldano un piatto di minestra, mi offrono una sedia per la notte. Alle sei del mattino sono sul treno per Carpi dove  arrivo in circa mezz'ora. Fuori dalla stazione mi trovo intruppata in un lungo corteo di donne che, adagio. adagio, si incamminano verso Fossoli. Erano donne di tutte le età, con grosse borse di pane e di biancheria; venivano in gran parte da Torino e da Milano. Si avvicina una signora anziana di Torino: camminava a fatica e cercava aiuto. Mi chiede: "Non sarà possibile trovare un taxi ?". Invece del taxi troviamo un calesse con un gran cavallo bianco e la signora insiste perché salga con lei. Mi vuole offrire a tutti i costi un passaggio e così, in breve, superiamo la lunga processione delle altre donne e arriviamo al campo. La breve corsa sul calesse nell'aria del mattino ha un effetto rasserenante: per un attimo mi era sembrato di essere la principessa della favola che va ad incontrare lo sposo su un gran cocchio di cavalli bianchi. Il mio principe invece non era al castello ma là dentro, dietro quei fili spinati. Al di là dell'ingresso due S.S. ci inchiodano contro una parete e ci strappano le valige di mano; le esaminano minuziosamente. tagliano in due la famosa ciam­bella  che si era ormai fatta dura, e ci congedano bruscamente assicurandoci che avrebbero consegnato tutto. lo cerco di resistere, insisto: vorrei almeno vederlo, salutarlo un attimo. Impossibile. Mosso a pietà, l'interprete mi accompagna fuori dalla stanza, mi fa passare in un corridoio che si apre sul campo. "Faccia in fretta, veda se riesce a trovarlo e venga via subito". Mi affaccio, lo vedo che sta parlando, lo chiamo: mi vede, mi sorride. Gli mando un bacio sulla punta delle dita, poi l’interprete mi afferra per un braccio e mi trascina fuori. A Carpi trovo per caso dei conoscenti di Sesto che si erano trasferiti là per lavoro: questi mi offrono ospitalità e cosi, l'indomani, riesco a portare al campo un altro pacco in cui avevo raccolto tutto quello che avevo trovato coi pochi soldi rimasti. Al campo questa volta sono irremovibili: non si può assolutamente entrare e allora, consegnato il pacco, riprendo stancamente la via di casa. A Sesto, ci avvertono che anche per noi, per me e mia cognata. tira aria infida; ci consigliano di non tornare alla Breda se non vogliamo correre altri rischi e di stare molto attente anche in casa, di non aprire a nessuno. almeno per qual­che giorno. Allora ci chiudiamo in casa, a tapparelle sempre abbassate e apriamo solo alla vicina che, a ore fisse, ci porta da mangiare. Da Fossoli nessuna notiziaDieci giorni più tardi, sul far della sera, suonano alla porta. Con molta circospezione apriamo cautamente: è una signora con un bambino al collo. Viene da Fossoli dove era stata a trovare il marito e doveva portarmi una lettera di Aldo. Purtroppo, inavvertitamente, il bambino che portava in brac­cio aveva fatto volare la lettera dal treno e così veniva a scusarsi. Comunque ci portava le ultime notizie: mio marito ed altri sarebbero stati trasferiti, il giorno dopo. a Bergamo, alla caserma Principe Umberto; qui sarebbe stato più facile andarli a trovare e ci avrebbero concesso cinque minuti di colloquio ogni giorno. A Bergamo allora! E così finalmente ci siamo rivisti: ogni giorno cinque minuti di colloquio in un grande stanzone pieno di gente. Quante cose volevamo dirci… e il tempo era sempre troppo poco. Un giorno mio marito mi chiede un gran favore anche a nome dei suoi compagni di camerata; avevano un gran desiderio di pastasciutta. La richiesta mi sorprende non riuscendo a capire come poterli accontentare. Allora mi spiega con precisione. La cosa era già riuscita altre volte: prima di entrare in caserma bastava rasentare il muro e girare l'angolo. Dall'alto avrebbero calato in fretta con una fune un canestro che tenevano nascosto in camerata, e tutto sarebbe arrivato a destinazione. Le altre mogli l'avevano già fatto, stavolta sarebbe toccato a me. A casa sono andata dalla prestinaia che ci era amica e sono riuscita a raccogliere qualche pacco di pasta, poi l'ho cotta con tutta attenzione, tenendola molto al dente. Mentre preparavo il sugo, piangevo in silenzio e credo proprio di averlo condito allora di molte lacrime… Il giorno dopo, seguendo le istruzioni, ho voltato l'angolo e ho depositato il tegame nel canestro. Molte mani erano protese fuo­ri dalla finestra e in un balzo il canestro è risalito. Ho tardato mezz'ora prima di entrare, perché mangiassero in pace, poi sono entrata e allora mi è stata comunicata l'ultima amara verità. Tra qualche giorno sarebbero tutti partiti per un campo di lavoro in Austria o in Germania. Mentre mia cognata riprendeva il treno per Sesto per provvedere al cambio della biancheria, io, tormentata da un presentimento oscuro, ho voluto invece rimanere a Bergamo e ho trovato anche allora ospitalità presso una famiglia di cui oggi non ricordo il nome. Il giorno successivo era una giornata fredda e grigia, quando arrivo nei pressi della caserma, nel freddo pungente del mattino, vedo avanzarsi dal portone,una lunga colonna di uomini scortati dai tedeschi. Chiedo dove vadano: "Alla stazione" mi rispondono. Mi avvicino col cuore in gola, e, a un tratto, vedo anche lui, là, a metà della colonna. Anche lui mi vede e mi sorride, mi fa un cenno con la mano. Mi avvicino subito per parlare, ma un giovane milite delle SS, biondo e magro; - mi respinge appoggiandomi addosso il suo fucile. Tento di avvicinarmi dall'altra parte, ma anche di là mi respingono. Allora mi pongo a lato della colonna e cammino con loro. "Dove vi portano?" chiedo sommessamente, "In Austria" risponde qualcuno. Arriviamo alla stazione: qui gli uomini vengono allinea ti a fianco di un treno merci e vengono fatti sostare a lungo. C'è un gran silenzio. D'un tratto balzo in avanti verso di lui, voglio solo salutarlo, abbracciarlo un'ultima volta… È mio marito… da soli venti giorni… Mi respingono ancora e questa volta brutalmente… Lui allora scoppia a piangere e io non resisto più... piango a dirotto, tenendomi la testa fra le mani. Piangono anche altri. Poco dopo infatti tutti gli uomini vengono fatti salire sui carri-bestiame e le porte vengono chiuse, fragorosamente. Poi vengono sigillate, inchiodate dall’e­sterno con liste di legno. Come ricordo quei colpi di martello… li porto ancora tutti qui, dentro il mio cuore. Ancora una lunga sosta. Poi un lungo sibilo… disumano, lacerante… mi è sembrato di morire. Invece partito il treno, ho trovato la forza di tornare a casa. Da qual momento… il nulla. Nessuna notizia, mai più. È scomparso così dalla mia vita come si può sparire inghiottiti in un abisso, in una notte senza fine, in un oceano senza fondo. Me l'hanno strappato di casa, hanno tentato di strapparlo dalla mia vita, non me l'hanno mai strappato dal cuore. Non ho avuto altro che lui, e a questo amore sono rimasta fedele, sempre. Mi è stato detto che è morto nel campo di Gusen, poco prima della Liberazione e che ad un compagno aveva confidato: "Tra poco finirà la guerra… ma io non ci sarò. Dite a mia moglie che le ho sempre voluto bene". È  morto come tutti i deportati, distrutto dalla fatica e dal.dolore e le sue spoglie  sono state bruciate nel crematorio di Gusen. Se avessimo avuto più tempo, avremmo almeno concepito un figlio  e qualcosa di vivo mi sarebbe rimasto di lui, qualcosa che l'avrebbe continuato nel tempo. lo l'avrei cresciuto con cura, con tutto l'affetto di cui sono capace e gli avrei parlato di lui, del padre morto, oscuro eroe tra tanti, per un ideale di libertà. Anche questo mi è stato negato. Di lui nulla mi è rimasto, fuorché il ricordo e questo ricordo ha illuminato sempre la mia vita in tutti questi anni: ancora oggi, spesso, mi sorprendo a pensare a lui e ancor oggi egli, talvolta, mi sorride nei miei poveri sogni. Egli vive sempre in me e continuerà a vivere finché avrò vita.

sommario