TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI
Triangolo viola: i testimoni di Geova e il nazismo
Claudio Vercelli è giornalista pubblicista e responsabile del progetto didattico Usi:della storia, usi della memoria, promosso dall'Istituto di studi storici Salvemini. Redattore del mensile di attualità e cultura ebraica «Shalom» ha recentemente pubblicato Memorie d'acciaio (Israt, Asti 2004) e Gli altri Olocausti. Le deportazioni e l'internamento dei non ebrei nell'Europa nazista (Giuntina, Firenze 2005).
Non è del tutto agevole comprendere e definire la vicenda dei testimoni di Geova negli anni del Terzo Reich e dei fascismi europei. Esponenti di una minoranza religiosa, con un forte radicamento sociale, seguirono il destino di altri gruppi di perseguitati dai quali però si differenziano avendo esercitato una resistenza di natura spirituale, una testimonianza di fede basata prevalentemente sul rifiuto di fare quel che ritenevano essere in contrasto con i loro principi. Guardati prima con sospetto poi con avversione dalle élite in camicia nera e bruna, furono il più delle volte apertamente osteggiati e, in seguito, deliberatamente perseguitati. Per i loro correligionari tedeschi si aprirono, fin dai primi anni del regime nazista, le porte dei lager. Frequentemente per chiudersi, una volta per sempre, alle loro spalle. Fino agli anni Trenta i testimoni di Geova costituivano una piccola comunità religiosa, ma in veloce espansione, basata su un'accentuata propensione al proselitismo. Dagli Stati Uniti, laddove era sorto nella seconda metà dell'Ottocento, il movimento religioso si era poi diffuso nei Paesi europei, seguendo i flussi di quei migranti di ritorno che avevano portato con sé i convincimenti maturati e condivisi in America. Rigorosamente apolitici, dediti a una pratica della vita informata ad alcuni precetti essenziali, considerati imprescindibili e inderogabili, credenti in un cristianesimo nel medesimo tempo elementare e rigoroso, ben presto si consolidarono come denominazione in tutta la Germania. Nel 1933 circa 25 000 tedeschi erano divenuti Bibelforscher, ovvero «studenti della Bibbia». Di estrazione sociale perlopiù modesta, nella lettura, nel commento e nella pratica del testo sacro trovavano sia una ragione di fede che un motivo di fratellanza. La loro filiazione americana, la pratica dell'obiezione di coscienza, il rifiuto di portare armi e partecipare a guerre e conflitti armati, il diniego di ogni forma di autorità che non fosse quella riconosciuta dalle Scritture, costituirono fin da subito motivi di attrito con il movimento nazista. Le autorità del nascente regime vedevano nella loro presenza, e nella pervicacia con la quale proseguivano l'azione di evangelizzazione e proselitismo, una minaccia al progetto totalitario di colonizzare le coscienze. Già nei primi mesi seguenti all'ascesa di Hitler al cancellierato in non pochi Länder si pervenne alla messa al bando del movimento religioso mentre le riunioni delle congregazioni venivano vietate, il materiale cartaceo e le Bibbie bruciate, i singoli praticanti vessati oltre che, sempre meno occasionalmente, percossi e arrestati. Di lì a non molto, con l'espandersi del circuito dei campi di concentramento, anche i testimoni di Geova vi fecero il loro ingresso. Il riarmo al quale la Germania si dedicò fin da subito, la mobilitazione collettiva in vista di una guerra che nel giro di poco tempo si sarebbe rivelata tanto feroce quanto catastrofica, la nazificazione di ogni aspetto della vita civile, ponevano gli appartenenti a questa denominazione cristiana nella difficile condizione di dover far fronte alle insopportabili pressioni alle quali erano sottoposti. Alle pressanti richieste di recedere dall'adesione alle proprie idee, e al rifiuto oppostovi, seguivano le misure coercitive, quali le perquisizioni, i licenziamenti, gli arresti in «custodia preventiva». Ma si era solo ai primi passi. Nell'aprile del 1935 una serie di misure amministrative ponevano, di diritto e di fatto, fuori legge in tutta la Germania l'organizzazione dei Bibelforscher. Alle persecuzioni di gruppo seguirono poi, con una spietata immediatezza e un'assoluta intransigenza, le violenze contro i singoli. L'essere riconosciuto o il dichiararsi testimone di Geova comportava l'esclusione dai pubblici uffici, l'automatica perdita di una serie di diritti civili e l'emarginazione dalla vita associata. In buona sostanza gli aderenti alla denominazione furono così espulsi dalla comunità nazionale tedesca. Questi «ariani che sbagliavano» e che perseveravano nella loro «reprensibile condotta», videro pertanto aprirsi le porte dei luoghi di detenzione e tra questi i costituendi lager. Non è un caso se fino all'inizio della guerra, i testimoni di Geova abbiano costituito circa il 10% del totale dei detenuti nei campi. Insieme ai politici, i triangoli viola - questo il colore del pezzo di stoffa che dal 1937 a Buchenwald fu loro attribuito per distinguerli dagli altri internati - divennero così presenze costanti, arrivando a vantare, nel corso del tempo, il poco invidiabile primato di membri più anziani dei campi di concentramento. Una sorta di proscrizione sociale, non solo politica, aveva quindi colpito quanti continuavano a praticare i propri convincimenti. La vera frattura, peraltro, si consumò nel settembre del 1936, quando il congresso europeo delle congregazioni dei testimoni di Geova, tenutosi a Losanna, adottò una durissima risoluzione nella quale condannava Hitler, il suo operato «crudele e perfido» e la natura «anticristiana» del nazionalsocialismo. Centinaia di migliaia di copie del documento furono clandestinamente distribuite in tutta la Germania, pervenendo alla stessa cancelleria del Reich. Da quel momento le persecuzioni si intensificarono, colpendo con implacabile determinazione le famiglie dei Bibelforscher, e non solo più i singoli aderenti. Alcune di esse vennero così smembrate, i figli affidati a istituti «correzionali» o a genitori adottivi ideologicamente affidabili. Le donne internate erano separate, a loro volta, dagli uomini e questi ultimi sottoposti ai rigori supplementari derivanti dal loro status di obiettori di coscienza, un diniego che nella Germania di Hitler comportò la morte per fucilazione o decapitazione di circa trecento di essi. Il ventinovenne August Dickmann, triangolo viola, internato a Sachsenhausen, fu il primo tra quanti subirono tale atroce destino, venendo giustiziato il 15 settembre del 1939. Si calcola che quasi la metà degli aderenti alle congregazioni tedesche dei testimoni di Geova abbia subito non solo occasionali violenze di strada ma anche la detenzione amministrativa e la deportazione. A occuparsene era la stessa Gestapo che lavorò alacremente per eliminarne la presenza e bonificare il Paese da questa opposizione la cui natura era eminentemente morale ed etica. Si trattava, per l'appunto, di donne e uomini ai quali veniva contestata una condotta basata sull'indisponibilità a conformarsi alle imposizioni del regime. In sostanza, un comportamento omissivo, costituito dall'ostinata indisponibilità verso quei gesti, come il saluto nazista, che per questi credenti costituiva in sé un atto di blasfemia. Tale infatti fu la risposta che i Bibelforscher offrirono allo spirito di un tempo e di una società così cupe e prive di speranza. La deportazione fu il destino per diversi tra di loro, dei quali - tra quanti sopravvissero ai suoi rigori - non sono oggi ancora note la storia e le memorie. I testimoni di Geova condivisero insieme ai tedeschi e agli europei, l'esperienza dei campi. Eppure questa minoranza cristiana sembra non avere trovato adeguato spazio nella pubblicistica e nella storiografia accreditata. È una persecuzione in parte dimenticata, comunque sconosciuta ai più, se non altro per la difficoltà di inquadrarla usando le categorie concettuali abituali. Di certo contano le proporzioni, circa 2250 assassinati nei campi, decisamente più contenute, in valore assoluto, rispetto a quelle capitate in sorte ad altri gruppi, ma in percentuale molto corpose se si considerano le dimensioni iniziali della congregazione germanica. Sorprendente sorte per una comunità di credenti, allora minoritaria, avversata e forse anche un po' temuta, per la pervicacia dei propri convincimenti. Una storia da narrare, quindi, senza inutili remare né falsi pudori. Con la sobrietà laica che si addice a chi vuole capire cosa fu quel composito universo di dolore, ma anche di strenua opposizione, che chiamiamo con il nome di «deportazione».
(da l'Unità 27 gennaio 2005 - Voci della memoria - Testimonianza e racconto della deportazione)