TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI
Testimonianza di un ex IMI
Pensiero
Acutis è nato a Torino nel 1924. Durante la seconda guerra mondiale fu fatto
prigioniero e portato in Germania nello Stalag XB, Sandbostel e Amburgo. Ha
lavorato alla Sei ed è stato tra i fondatori del sindacato poligrafici. Tra le
sue pubblicazioni Dal monte Soglio alla Levanna, Sei 1970, L'estate di Geremia
Gaspard, Editrice il Punto, 2002. È presidente Anei, Sezione di Torino.
La
storia dei militari italiani catturati nel 1943 dai tedeschi e internati nei
lager nazisti, è una storia, dimenticata per decenni, che ha avuto una giusta
rivalutazione dai poteri dello Stato solo negli ultimi tempi. A livello popolare
rimane tutt'ora in gran parte ignota. I soldati italiani furono catturati dopo
l'8 settembre nelle caserme del Centro Nord, durante le marce di trasferimento,
sui teatri delle battaglie, dalla Slovenia alle lontane isole dell'Egeo,
talvolta con la complicità dei Comandi italiani. La
mia esperienza militare fu quasi nulla: non durò neanche un mese. La mia fu
l'ultima classe 1924 a essere chiamata alla leva, che per me iniziò il 15
agosto 1943 e terminò il 10 settembre, quando il mio scaglione fu catturato
dai tedeschi sul Colle S. Bartolomeo, sulle Alpi Liguri. Eravamo quasi tutte
reclute perché gli ufficiali erano scappati dopo l'Armistizio e avevamo solo
qualche fucile senza munizioni. I nazisti arrivarono all'improvviso sparando
all'impazzata e ferendo molti uomini. Dovevano scortarci, dissero, in un campo
di smistamento dove l'esercito sarebbe stato sciolto e quindi tutti a casa!
Non valeva la pena di tentare la fuga. Salimmo sui carri bestiame e, anche se
stipati all'inverosimile, eravamo fiduciosi. Quando a una sosta chiusero
ermeticamente il portellone centrale capimmo che eravamo in trappola e che i
campi di smistamento non esistevano. Ebbe inizio così la lunga e disumana
odissea su quella tradotta, così realisticamente descritta nel «Treno
della Memoria». Dopo dieci giorni arrivammo a una stazione e fummo fatti
scendere. Alla pensilina la scritta diceva «Bremerworde», l'estremo nord della
Germania. La lunga colonna si mise in cammino. Dopo un paio d'ore di marcia
sotto un cielo plumbeo, a fianco di desolate brughiere e fitte boscaglie,
arrivammo alla nostra destinazione. Era lo Stalag XB, Sandbostel. Ci ammassarono
in un piazzale, fondo del quale era stato eretto un palco. Da lì il Console
d'Amburgo pronunciò la sua arringa e ci rese noto che «il Duce è stato
liberato,
è stata costituita la Repubblica Sociale Italiana, il Re e Badoglio sono
fuggiti lasciando l'esercito allo sbando». Quelle parole ci riempirono
d'angoscia e ci fecero prevedere un futuro davvero fosco: sempre che ci fosse
un futuro. A noi soldati venne chiesto di scegliere se aderire alla neonata
Repubblica Sociale «per salvare l'onore della patria», tornando a combattere
al fianco dei tedeschi, o essere considerati dei traditori trattati di
conseguenza. Era un grande dilemma, ma di 700 000 militari
catturati, solo un'esigua minoranza aderì alla richiesta uscendo dai ranghi. La
nostra scelta di affrontare volontariamente la prigionia piuttosto che
combattere al fianco dei nazifascisti fu la stessa che fecero centinaia di
migliaia di soldati italiani chiusi nei vari campi d'internamento sparsi sul
suolo tedesco. Ma noi ancora non lo potevamo sapere: la nostra realtà
era solamente quella racchiusa dalle vaste recinzioni del nostro lager. Se
questa grande massa di militari fosse passata dalla parte dell'Rsi, anche se
l'esito della guerra era ormai scontato, i combattimenti tra la popolazione si
sarebbero prolungati: diverse pagine della storia sarebbero state scritte in ben
altro modo. Questo «No» espresso a chiara voce in tutti i campi di smistamento
diede il via alla «Resistenza Passiva». Inizialmente considerati «prigionieri
di guerra» la nostra qualifica mutò presto in «internati militari», che
non potevano così più usufruire dei benefici della Convenzione di Ginevra.
Rimanemmo a Sandbostel poco più di un mese. Le giornate erano scandite da
interminabili appelli all'aperto, al mattino e nel tardo pomeriggio, con il
soffio del gelido vento del nord. Essendoci sovraffollamento, non tutti avevano
un loro posto sui letti a castello nelle baracche, così a me, per tutto il
soggiorno,
toccò come giaciglio il pavimento nudo dell'atrio. In seguito fummo relegati al
lavoro coatto. Il III Reich, che aveva i propri uomini impiegati quasi
totalmente sul fronte bellico, necessitava di manodopera a buon mercato e i
militari italiani si ritrovarono a patire fame, malattie, umiliazioni, freddo,
sporcizia, la paura dei bombardamenti, il degrado fisico e morale mentre erano
impiegati nelle miniere o nelle industrie belliche del loro nemico. Nonostante
queste terribili condizioni, gli appelli quotidiani di adesione alla Rsi non
avevano eco: erano rarissime le persone che, solo per disperazione, decidevano
di accettare il reclutamento. Arrivai quindi ad Amburgo, ormai ridotta a un
cumulo di macerie, e finii presso un'impresa che trasportava legname. Oltre a
noi italiani, c'erano prigionieri russi e una dozzina di tedeschi invisi al
regime. Dovevamo svuotare dei barconi dal materiale e spostarlo sui vagoni del
treno situato sopra a un pendio. Era un andirivieni, carichi di legna sulle
spalle, per ore e ore. Quella fila dava l'impressione di anime dannate di un
girone dantesco. La vita nel campo non era certo migliore. Per mesi fummo
tormentati
dalla fame, giorno e notte. Qualcuno aveva trovato un lavoro, come lo spazzino o
il carbonaio che gli permetteva di racimolare qualcosa da parte della
popolazione. Ognuno cercava poi di vendere ai militari quel poco che ancora
possedeva: io avevo solo un orologio a cipolla che era un caro ricordo; lo
vendetti a un tedesco per metà di un pane a forma di mattone. Il rancio era
sempre costituito da un po' di zuppa a base di rape, cavoli o carote. Il pane a
mattone veniva diviso in sei parti da un prigioniero sorteggiato (era una seria
responsabilità) e come companatico avevamo un dado di margarina. L'importante
era sopravvivere. Il mio lavoro venne interrotto bruscamente nel settembre '44
quando, spingendo un rimorchio carico di assi su per un pendio, questo fece
retromarcia per il troppo peso, schiacciandomi il braccio sinistro contro un
albero che si trovava dietro di me e spezzandomi il polso. La mia mano non
riprese mai la completa mobilità. In ospedale, accanto al mio letto, era
sistemato un civile tedesco di mezza età: si era accorto che ero un militare
italiano. La mia attenzione era attratta da qualcosa che teneva sul suo
comodino: due pomodori. Li guardavo con bramosia. Lui se ne accorse e me ne
diede uno. Capii così che non tutti i buoni stanno da una parte e i cattivi
dall'altra: quello che doveva essere un «cattivo» tedesco aveva diviso il suo
cibo con il «soldato traditore». Il mattino seguente venni ingessato e
rispedito al lager. Non rividi più quell'uomo né conobbi il suo nome, ma non
l'ho mai dimenticato. All'approssimarsi dell'arrivo delle truppe alleate con un
generale scompiglio i tedeschi scomparvero dai lager. Durante un bombardamento
notturno un vagone carico di segale era stato sventrato. Con dei compagni
cercammo di raccattare un po' di granaglia preziosa e poi ci separammo. Due miei
commilitoni furono fermati dalla polizia e giustiziati con l'accusa di
sciacallaggio, noi fummo ricondotti al campo. Gli alleati erano alle porte e
quei nostri sventurati compagni persero la vita per una manciata di segale. Il
giorno seguente un autocarro, carico uomini che alloggiavano nelle baracche
vicine, partì con destinazione ignota. Ci salutarono festosamente, quasi
partissero per una scampagnata. Non sapevamo che Himmler aveva dato ordine di
far scomparire tutti i prigionieri, per non avere possibili testimoni.
All'indomani sarebbe toccato a noi italiani salire sullo stesso camion. Invece
quel giorno il campo venne occupato dai carri armati inglesi. La guerra era
davvero finita! Di 700 000 soldati, 80 000 non fecero ritorno a casa, e molti
altri, debilitati nel fisico e nello spirito, non sopravvissero a lungo dopo il
rimpatrio. Sugli Internati militari non furono girati film o racconti
televisivi.
La scarsa bibliografia non fu dedicata alla diffusione di massa e, per ironia
della sorte, l'unica opera veramente rilevante ha la firma di un ufficiale
tedesco, Gerard Schreiber. Pensiamo però che gli lmi abbiano meritato a pieno
titolo un capitolo, anche se piccolo, loro riservato nel grande libro della
seconda guerra mondiale.
(da l'Unità 27 gennaio 2005 - Voci della memoria - Testimonianza e racconto della deportazione)