TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI
Il quaderno nero
Giovanni Giovannini
Ex deportato militare,
passa 20 mesi nei lager nazisti
in Germania. Sarà poi una delle più
prestigiose firme del giornalismo italiano e dal 1976 al 1996 presidente della
Fieg. Fondatore e direttore della rivista «Media Duemila», è autore della
fortunata storia della comunicazione Dalla selce al silicio. Nel 2004,
con Scheiwiller, ha pubblicato Il Quaderno Nero, trascrizione
del suo diario di deportato nel Terzo Reich, che uscirà tradotta in Germania in
occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione.
«Dove si va ora?». A
chiedermelo è il mio commilitone Romolo Barisonzo mentre si trova schiacciato
sopra una mia costola. «A cominciare un'altra guerra, più difficile e più
cattiva». Non sapevo in quel momento quanta verità vi fosse in quella risposta
sconsolata. Sul vagone eravamo più di settanta e ci sarebbe stato appena posto
per la metà. Un viaggio irreale, indimenticabile, che dalla costa francese,
dove siamo stati fatti prigionieri, ci porta fino agli orrori dei campi per
internati, allestiti in Germania dai nazisti. A parlare dei fatti di quei
giorni,
più di sessant'anni dopo, c'è il rischio di lasciarsi trasportare da una
sorta di malinconia nel risalire il grande fiume del tempo, ma c'è anche la
tentazione di rileggere ogni cosa con il condizionamento di giudizi storici
determinati da fatti più recenti. Proprio per sfuggire a questo rischio mi
limiterò qui a riportare alcune immagini di quei lunghi mesi nei lager nazisti
estrapolandole dal mio diario, un quaderno nero che riuscii a scrivere e salvare
per quasi due anni fra prigioni, evasioni, bombardamenti e fame, sempre fame. La
denominazione di prigionieri di guerra italiani in Germania era sconosciuta in
Italia dove lo pseudo governo fascista parlava solo di internati militari
italiani: I.M.I. Né d'altra parte i nazifascisti avrebbero potuto fare
diversamente: chiamarci con il vero nome di «prigionieri di guerra» avrebbe
significato che quasi settecentomila soldati italiani ci eravamo schierati
con altri italiani che si battevano contro il nazifascismo sul fronte
italiano, in Jugoslavia e con i partigiani nel Nord Italia. Sarebbe stato il
riconoscimento dello stato di guerra in cui si trovava nuovamente quasi tutto
il popolo italiano, ma ora contro la Germania; sarebbe stata un'ulteriore prova
dell'assurdità della fantomatica repubblica fascista. La propaganda nazista
riuscì a superare agevolmente la difficoltà: quei quasi settecentomila furono
dichiarati nemici e ci chiamarono «internati». In realtà molto peggio dei
prigionieri di guerra i quali, se non altro, erano assistiti dalla Croce Rossa
Internazionale e dalla Croce Rossa dei rispettivi paesi. Assistenza che i
nazisti interdissero ai russi e a noi italiani: «internati», non «prigionieri».
Al sostentamento di questi sudditi dell'alleata Rsi avrebbero provveduto i
tedeschi e con loro naturalmente i fascisti. E assistenza, in qualità non solo
di nemici, ma di «traditori», ne avemmo anche troppa da parte dei signori
della Wehrmacht e, soprattutto, dei signori della SS. In quei venti mesi non ci
fu codice o organizzazione internazionale che ci proteggesse. Nessun principio
di umanità poté essere invocato. E quando le violazioni erano troppo evidenti
anche per i torturatori stessi, essi avevano pronta, sempre uguale la risposta:
«vi trattiamo sin troppo bene; siete dei traditori e come tali dovreste
perire tra i peggiori supplizi. Non ci può essere pietà per chi rifiuta
persino di tornare in patria pur di non firmare per la repubblica fascista».
Furono venti mesi di tormenti: lavori durissimi per tredici, quattordici,
quindici ore al giorno. Sistematicamente affamati, fummo costretti a nutrirci di
erbe, di rifiuti e della carità degli altri prigionieri. Durante le terribili
incursioni aeree alleate ci era impedito di accedere ai rifugi antiaerei. Alla
fine della guerra diverse decine di migliaia, 50, forse 60, ma c'è chi dice che
addirittura 80 mila di noi non tornarono più a casa, morti dopo stenti che
nessuna penna saprà descrivere: le tombe qualche volta neppure sormontate da
una croce, qualche volta nemmeno identificabili. Sono morti, i più, erosi
dalla tisi, la cui opera i nazifascisti favorirono con ogni mezzo, dal lavoro
bestiale alle privazioni del minimo indispensabile all'esistenza.
23
settembre 1943. Su migliaia
e migliaia di italiani presenti al campo di Limburg e invitati a firmare, non mi
consta che qualcuno abbia firmato. Il fatto che di fronte all'offensiva
nazifascista,
la massa ha immediatamente reagito. Seppur disorientata, ha però saputo
esprimere degli elementi dalle idee molto chiare e soprattutto animati da una
volontà decisa, e attorno a quelli ha saputo raggrupparsi e organizzarsi.
Parlano i propagandisti repubblichini; parlano più forte i nuovi condottieri
della massa...
28
settembre 1943. Il primo «no»
è quello che pronunciammo a Grasse l'11 settembre, due giorni dopo
l'armistizio. Quella mattina ai soldati italiani catturati furono offerte
tre opportunità: a) continuare la guerra con l'Asse; b) servire la
Germania come libero lavoratore; c) prigionieri di guerra. E la risposta secca
fu: prigioniero di guerra. Il secondo «no», ancora più difficile, il 23
settembre, al termine del viaggio allucinante, quando ormai si erano chiusi alle
nostre spalle i fili spinati dello Stalag XII di Limburg: a) arruolato nelle
SS germaniche; b) prigioniero di guerra. E la risposta fu: prigioniero di
guerra. Poi la terza proposta, fatta da un sottotenente medico italiano: a)
arruolarsi nell'esercito fascista; b) restare prigioniero di guerra. Su 600
soldati italiani, solo quattro scelgono la prima alternativa. Non è finita. Per
il quarto «pressing» su di noi i tedeschi utilizzano anche un generale di
divisione e il fratello del ras di Cremona, Farinacci. «Tornate con noi in
Italia, che la patria ha bisogno di voi: otterrete settimane di licenza per
riabbracciare le vostre fidanzate e le vostre famiglie. Vi daremo viveri,
sigarette
e divise nuove. Dovete solo sottoscrivere il modulo che vi sarà distribuito e
che dovete consegnare entro questa sera al capo baracca». Nuovo rifiuto
generale. La quasi totalità dell’esercito italiano in questo modo
aveva detto un «No!» chiaro al nazifascismo dando così il via a quella che
Alessandro Natta in seguito chiamerà «L'altra Resistenza», una resistenza
muta che pure levò al Reich e alla Rsi quasi 700.000 uomini. Eppure quella
scelta costa sacrifici inenarrabili, umiliazioni laceranti che arrivano da
ogni dove e nelle forme più gratuite
10
ottobre 1943. La domenica in
fabbrica non si lavora e ci mandano in paese a spalare intorno alle case e a
fare altri lavori poco pesanti. Ogni tanto si rimedia qualche cosa dalla
popolazione.
Facciamo proprio pena. Laceri, magri, con impresso sul volto, dalla mattina alla
sera, il marchio della fame. Ci colpisce un quadretto familiare. Una bella
coppia affacciata da un balconcino fiorito. Un quadretto anomalo per quel fosco
tempo di guerra. È una giornata di sole. Lei e lui, giovani e biondi, sono
sereni e sorridenti. A un tratto lei sembra guardarmi negli occhi. Sì, guarda
proprio me. Mi fa cenno di avvicinarmi. Poi si allontana un momento e ritorna
con un cestino di vimini e una cordicella. A me e ai miei amici spalatori
sembra di vedere del pane scuro, del formaggio, forse anche dei salsicciotti. La
ragazza mette tutto nel cestino e lo cala giù con la cordicella, mentre ci fa
cenno di avvicinarci. Il cestino scende, scende. Ormai è a portata di mano. lo
che sono il più alto, allungo una mano ... Ma il cestino risale. Guardo in su
stupito. Lei sorride. Il cestino riscende. Riprovo a prenderlo, ma quelle mani
dispettose lo riportano fuori
portata. E così un'altra volta, poi un'altra. E poi un'altra. Lei sorride
sempre. Anzi, no. Ora ride. No, non è un riso. È un sogghigno. Quel cestino
che non finì mai nelle nostre mani, ballonzola ancora nella mia mente, quasi a
volermi ricordare che, a volte, la crudeltà umana ha le trecce bionde. Eppure
è successo che dopo un fallito tentativo di fuga, un maresciallo tedesco ordini
ai suoi soldati non di frustarci ma di lavarci i piedi con acqua tiepida.
15
maggio 1944. Spesso le SS
fanno fuori gli evasi. Quando ci catturarono nella foresta di Gerardmer, in
Francia, ci portano in una casetta da guardacaccia, dove una decina di militari
ci guardano con curiosità. Ora non tanto per la fame o la stanchezza, quanto
per le ferite ai piedi che sanguinano vistosamente attraverso le scarpe a
pezzi, crolliamo sul pavimento. Il maresciallo ordina ai suoi in duro tedesco di
far qualche cosa. Che cosa? Stupefacente: si inginocchiano, ci levano
delicatamente
le scarpe saldate alla carne, vuotano una pentola d'acqua tiepida. E ci lavano
i piedi. A
volte la compassione ha le mostrine di un feldwebel: ma questi erano soldati
anziani della Wehrmacht; quando il giorno dopo fummo consegnati alle SS,
furono dolori, dolori in senso stretto.
(da l'Unità 27 gennaio 2005 - Voci della memoria - Testimonianza e racconto della deportazione)