TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Deportazione al femminile

Anna Cherchi

Nata a Torino il 15 gennaio 1924. Staffetta partigiana. Partigiana combattente - Deportata politica a Ravensbrück, numero di matricola 44.145 -1721.

Qualcuno diceva che sotto il Fascismo, non potevi che restare affascinato dalle grandi parate del sabato, i famosi Saggi. Sfilavano così i Figli della lupa, le Giovani italiane, le Avanguardiste, con le divise regalate dallo stato per far credere che i giovani fossero entusiasti e condividessero le dottrine fasciste. In realtà avevamo soprattutto paura. C'erano famiglie, come la mia, che avevano già bisogno dell'aiuto di noi ragazzini e mia mamma quindi spesso non mi mandava ai saggi del sabato avendo bisogno di me. Era rimasta vedova giovane, con i figli piccoli, e cercava di mandare avanti la famiglia e di non farci mancare nulla. A scuola mi spettava il «Patronato» di libri, quaderni ecc., ma dissero che dovevamo comprarli noi e mi diedero solo la divisa da Piccola italiana: camicetta bianca, gonna nera a pieghe. Era la gonna più bella che avessi, così la mettevo per andare a messa. Una domenica la mamma venne fermata dalla fiduciaria del fascio: le disse che la divisa mi era stata data per andare al saggio, non a messa, e perciò dovevo restituirla. Arrivata a casa preparò la divisa, lavata e stirata, e il giorno dopo, andando a scuola, la consegnai alla fiduciaria, la moglie del Podestà. Piangevo perché non avevo più la mia gonna, così la mamma andò al mercato di Canelli, comprò uno scampolo e mi confezionò la gonna, a pieghe, come quella che avevo dovuto restituire, con la differenza che era rossa. Poco tempo dopo la mamma venne fermata dalla fiduciaria: «Ti sei vendicata» le disse e lei rispose decisa «Ho preso quello che le mie tasche mi permettevano». Questo era il fascismo di cui dovevamo andare orgogliosi. Si dice che il tempo è galantuomo, così con il passare degli anni ho capito da sola a cosa dovevo credere. Ero convinta che non era oro quel che luccicava e che più delle parole contavano i fatti. Per questo, al momento opportuno, ho fatto la mia scelta. Arrivò l'8 settembre 1943 e bisognava decidere se collaborare con i Repubblichini o con la Resistenza. Scelsi la Resistenza, prima come staffetta partigiana, poi, quando il 7 gennaio 1944 i nazisti bruciarono la nostra casa, andai in montagna con i Partigiani, con i comandanti Balbo Pietro padre e figlio (Pinin e Poli) nella Divisione Langhe. Dovetti imparare molte cose: adoperare le armi, fare l'infermiera... Il tempo è stato però breve, dal 7 gennaio al 19 marzo, giorno del mio arresto. Il 20 i tedeschi mi portarono a Torino all'Albergo Nazionale, dove conobbi il famoso capitano Smith, molto docile a prima vista ma che si rivelò un torturatore. Le torture (come le matite spinte tra le dita e strette con una morsa fino a far sanguinare le unghie, o la sedia di ferro che, a contatto con la corrente della stufetta elettrica, mi dava la scos­sa) le facevano fare a un ragazzo ebreo, trattenuto dal capitano perché parlava tedesco (anche se lui conosceva l'italiano). La sua famiglia, invece, l'aveva mandata subito al campo di sterminio. Un giorno il ragazzo lasciò più del solito la sedia a contatto con la corrente. La scossa fu così forte che svenni, battendo la testa. Quando ripresi i sensi mi trovai a terra tutta bagnata. Questo supplizio durò un mese, dopo restai in carcere ma potevo finalmente parlare con le altre compagne e ascoltare le storie delle più anziane, che mi raccomandavano sempre di non scordare il motivo per cui mi trovavo in prigione.Una notte, verso le tre, i tedeschi vennero a prendermi e mi portarono alla famosa caserma delle torture in via Asti. Ebbi solamente un colloquio con un ufficiale repubblichino. Senza preliminari mi chiese «Ti sei decisa a parlare?». Gli domandai cosa volesse sapere e lui, scandendo bene le parole, «Dove-sono-nascoste-le-armi». Senza pensare alle conseguenze (non sapevo ancora cosa significasse veramente trovarsi in via Asti) gli risposi, scandendo bene le parole come aveva fatto lui, «Non-Io-so». A questo punto disse «Venite avanti». Rimasi perplessa, perché non riuscivo a immaginare chi sarebbe potuto entrare. Spaventata cercai di vedere chi era con la coda dell' occhio: erano tre partigiani della mia brigata. Li guardai come a chiedergli «Cosa avete fatto?». L'ufficiale si informò «È questa Bruni Maria che conoscete?». Loro mi guardarono e risposero che quella che conoscevano aveva i capelli bruni. Una signora controllò se i miei capelli erano tinti, così tirai un sospiro di sollievo sapendo che erano naturali. Il Repubblichino mi guardò sprezzante e disse «Non parli, ma non immagini neanche lontanamente dove vai a finire» e il nostro incontro terminò. Capii subito perché i miei compagni avevano parlato: avevano la faccia tanto martoriata da sembrare dei mostri per la visita della Signora del Guanto, che aveva un guanto di maglia di ferro, con il palmo coperto da uncini metallici. Percuotendo le persone le sfigurava. Le mie compagne ormai pregavano pensando che mi avessero fucilato. Ma il mio destino era un altro: il campo di sterminio. L'odissea del carcere terminò il 26 giugno 1944, con la partenza per il lungo e incognito viaggio. Non avevamo mai sentito parlare dei campi di concentramento e credevamo di andare a lavorare. Alle tre di notte ci portarono a Porta Nuova, dove la tradotta era già pronta, formata da carri bestiame. Una volta chiusi dentro non si curarono più di noi. Eravamo 14 donne, ma negli altri vagoni c'erano circa 250 uomini. Il viaggio durò sino al 10 luglio, giorno in cui arrivammo a Ravensbrück. Ci volle poco per capire che non era una fabbrica, ma un luogo di reclusione. Dopo le funzioni preliminari (spoliazione, visita medica obbrobriosa, taglio dei capelli) ci consegnarono un numero di matricola che sostituiva il nome e cancellava anche dalle nostre menti la parola «donna». Eravamo degli «Stuk» numerati, cioè dei pezzi numerati, con l'obbligo di eseguire gli ordini. Nella baracca della Quarantena trovammo altre donne, già provate dal trattamento. Fu difficile inserirsi ma ci rendemmo conto che per evitare conseguenze dovevamo avere i nervi saldi. Le più anziane ci aiutarono, come mamme che cercavano di salvare i propri figli, e dopo un po' eravamo noi a sostenere le compagne prese dallo sconforto, per evitar loro la fine che i nazisti avevano prestabilito: la Morte. Nacque così tra noi la solidarietà, medicina indispensabile. Dopo 2 mesi formarono il comando per andare a lavorare in una fabbrica a cinque chilometri da Berlino, che era in tutto uguale a Ravensbrück: mancava solo la camera a gas e il forno crematorio. Si chiamava Balcam Blum e costruivamo i bom­bardieri Messerschmitt 709. Le ore di lavoro erano 12, una settimana turno di giorno, una settimana di notte. Il mantenimento, per parlare del trattamento che ci riservavano, non era adeguato al dispendio di energie, trasformandoci presto delle larve umane [sic]. Fummo liberate dai russi il 28 aprile 1945. Il ritorno fu molto dif­ficile: i treni non funzionavano e solo la gran voglia di ritornare in Italia ci ha dato la forza di fare la strada quasi tutta a piedi. Quando arrivammo a Balzano fummo ricevute con tre mele (dentro erano guaste), due pagnotte (così dure che non sono riuscita a mangiarle) e un mestolo di latte, avariato ma che bevemmo ugualmente perché era caldo. Arrivai a casa il 12 agosto 1945. Reinserirsi nella società non fu semplice. La salute era precaria, e non avendo né lavoro né mutua era impossibile comprare le medicine. Se andavi a chiedere il sussidio ti mandavano via facendoti capire che davi fastidio: negli uffici erano rimasti gli impiegati di sempre, avevano solo cambiato la camicia da nera a bianca e anche queste sono sofferenze difficili da dimenticare. Tornata a casa volevo mantenere la promessa fatta il giorno della Liberazione di far sapere a tutti cosa era accaduto e far sì che non venissero dimenticati i milioni di Uomini, Donne e Bambini che morirono in quel mondo fuori dal mondo. La gente però non voleva più ascoltare o parlare di quelle brutte vicende. Avevano sofferto anche loro, ma non capivamo il perché di questo diniego, dato che ogni famiglia aveva almeno un morto. Avevamo però il dovere di mantenere la promessa fatta ai nostri morti. Incontrammo così i primi professori, che ci misero in contatto con i loro studenti, che dimostrarono una voglia incredibile di conoscere ciò che la scuola e i libri non gli raccontavano. Per noi donne arrivò inoltre il momento di smascherare chi voleva screditare il ruolo femminile, il nostro duro lavoro nella Resistenza e nei campi di sterminio. Iniziò così il nostro riscatto. Ci siamo riusciti perché eravamo finalmente liberi. E per conoscere a fondo la Libertà bisogna esserne stati privi, come era purtroppo successo a noi. Queste sono le cose che cerchiamo di spiegare ai giovani. Non siamo degli eroi: i veri eroi sono i nostri morti, e sono stati troppi. Con la nostra testimonianza, cerchiamo solo di far sì che non vengano dimenticati, ed è sul loro ricordo che tentiamo di costruire un mondo migliore. Questo è stato ed è il nostro compito, e lo sarà fino alla fine dei nostri giorni.  

(da l'Unità  27 gennaio 2005 - Voci della memoria  - Testimonianza e racconto della deportazione)

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