TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI
Il ritorno dai
lager sessant'anni dopo
Ferruccio
Maruffi
Nato
a Torino nel 1924, è partigiano
in VaI di Lanzo, dove viene catturato nei rastrellamenti del 1944. Dapprima
detenuto nelle carceri Le Nuove di Torino, viene deportato a Mauthausen (matr.
58.973). Liberato il 5 maggio 1945, fa rientro in patria il 9 giugno.
Presidente della Sezione Piemontese è fra i fondatori dell'Aned e autore di
vari libri.
È vero: lo stare insieme è stato fin dal principio la condizione indispensabile per ottenere un certo equilibrio e un minimo di serenità e mi auguro che questa sensazione sia condivisa da quei compagni di deportazione, ex partigiani come me, con i quali ho trascorso questi sessant'anni di dopo lager, e dalle donne, le superstiti di Ravensbrück e Auschwitz, che ci sono state accanto, forti, anche più di noi uomini. Affrontando il tema della liberazione dei campi di concentramento ritengo siano due le immagini attraverso le quali è opportuno interpretare il rientro dal lager. Il ritorno sognato a occhi aperti e quello poi effettivamente realizzatosi. Il primo appartiene a tutti, ai vivi e ai morti, e sono convinto che soltanto questo abbia avuto un suo compimento ideale. Nel campo, con la fantasia, ce lo eravamo costruito e, sia pure soffrendo immensamente, lo avevamo arricchito giorno dopo giorno di sensazioni e promesse, e infine l'avevamo custodito come un bene inestimabile, l'unico che ci fosse concesso. E per quanto irreale fosse, certamente ha rappresentato per molti una sorta di scialuppa di salvataggio cui aggrapparsi in quella tempesta di violenze e di orrori. Anche un attimo prima di morire. Era soltanto un'illusione? Neanche tanto se con il trascorrere del tempo avevamo cominciato persino a temere che la vita al lager, minando lentamente la nostra personalità, ci stesse rendendo aridi, insensibili, stesse distruggendo in noi la speranza di veder presto scorrere, ciascuno con la propria immaginazione, la più splendente primavera della nostra vita. Un giorno uno di quei deportati che chiamavamo Maestri o Saggi ci disse: «Il nostro ritorno comincerà nel momento in cui riacquisteremo la libertà, ma potremo goderne solo se sapremo cogliere l'intensità emotiva senza inibizioni. Se, durante il viaggio che ci riporterà alle nostre case, ci lasceremo sorprendere dal trasformarsi della natura, allora la visione purificatrice di prati, foreste, laghi scioglierà gli incubi e le paure e al nostro arrivo, forse, esploderemo in una gioia incontenibile». Era forse una ribellione mentale alla sorte che non offriva scampo? Il mio compagno Emi, un combattente duro come la pietra, scontroso quanto romantico, durante il turno di notte, continuando a distruggersi di fatica nelle infernali officine di Schwechat, appena il kapò si allontanava prendeva a cantare «ritorneremo a maggio con tante rose». Quei fiori erano per sua madre che lo stava attendendo, come quando era bambino. E mancava ancora un anno alla Liberazione ... Dunque quel ritorno non era soltanto un'effimera chimera, ma piuttosto qualcosa che faceva parte di noi stessi fin da allora. Come siano andate poi le cose lo si sa. Il ritorno avvenuto realmente per i pochi sopravvissuti fu molto diverso da quello fantasticato, e la raccolta di testimonianze trascritte ne La vita offesa e commentate con tanta sensibilità da Anna Bravo e Daniele Jallà, gli fanno testo. Non erano serviti i suggerimenti e le ingenue profezie del Saggio deportato. Il giorno della Liberazione nessuno ebbe voglia di far festa o di inebriarsi del mondo. Troppi morti giacevano a terra intorno a noi e troppi continuavano a morire come se nulla fosse realmente mutato. Sì... durante il viaggio di ritorno osservammo l'incanto del paesaggio in quei radiosi giorni del giugno 1945, ma ormai la guerra aveva contaminato tutto. Monaco era un cimitero di rovine e lungo il percorso si incontravano convogli di gente disperata, lacera, a cui restava soltanto la mesta consolazione di essere almeno ridotta un po’ meglio di noi. Passammo, come Dio volle, la frontiera italiana e sostammo a Bolzano e a Brescia, tappe importanti per riassaporare l'aria di casa nostra. Infine arrivammo a Milano e da qui, le ultime dodici ore di tradotta per arrivare a Torino. Ecco, la Rinascita era davvero cominciata! Forse solo allora ricominciammo finalmente a vivere. Nessuno può affermare quanto sia durata quell'atmosfera e quella forte sensazione poiché oggi noi superstiti, i pochi ancora in vita, diciamo un po' per scherzo e un po' sul serio di avere tutti solo sessant'anni o giù di lì. E poi ... la fondazione dell'Aned. Quando il 9 giugno 1945, a Porta Nuova, scendemmo dal convoglio, io mi allontanai con Afro e Piero. Ci dividemmo le poche lire che avevamo e con quel tesoro in tasca ci separammo. Afro e io ci recammo in un bar affollato e rumoroso sotto i portici di via Sacchi. Al nostro ingresso i presenti fecero improvvisamente silenzio. Mentre il cameriere preparava i cappuccini, noi due ci guardammo attentamente e ci «vedemmo» per come eravamo: vestiti alla lager, spaventosamente magri, brutti e forse anche malati. Sorseggiammo il cappuccino, posammo i soldi sul tavolo senza sapere se ci spettasse del resto o meno, con la consapevolezza che i baristi e gli avventori si stavano chiedendo da quale pianeta fossimo discesi. Ancora non lo sapevamo ma in quegli istanti era realmente cominciato l'incontro con gli abitanti del nostro vecchio pianeta Terra. Fu spesso difficoltoso superare questa condizione, questo ruolo di fantasmi del passato che adombravano il progetto di rinascita delle persone che tentavano di uscire dalla guerra e di dimenticare. Fu più difficile assolvere però il compito di stabilire i rapporti con i parenti dei caduti. A causa delle notizie che portavamo e del senso di disagio che sentivamo nei loro confronti. Come dovessimo giustificarci e rispondere alla domanda celata: Perché noi eravamo tornati e loro cari no? Comprendemmo presto che solo onorando la loro memoria, facendo conoscere il valore del loro sacrificio, avremmo potuto pagare il debito contratto con la fortuna per essere ancora vivi. Venne poi il momento della nostra reazione, esigenza indispensabile per affrontare il distacco, o peggio lo scetticismo, della gente che ci stava intorno, per domare nel contempo le memoria oppressiva del lager e alleviare il dolore dei congiunti di chi non era ritornato. Nacque così l'Associazione, anzi due, politicamente simili e con le stesse finalità. L' «Associazione superstiti politici dei campi di concentramento», con la volontà principale di divulgare la conoscenza storica della deportazione, e l'«Associazione nazionale ex deportati politici in Germania», che riteneva fosse preminente rispondere alle esigenze materiali dei superstiti malati e dei familiari dei caduti. Ma tutti soffrivamo di questo distacco e, a mano a mano che le iniziative andavano crescendo di numero e di visibilità, la necessità di un'unione si fece più evidente. Emi pativa più degli altri e decise di chiedere suggerimenti direttamente a Togliatti. Tornò da Roma soddisfatto, fischiettando bandiera rossa: l'unione era ormai solo questione di pratiche e organizzazione. Mantenemmo nome e struttura della secondogenita. Il nostro nuovo progetto era far sì che i familiari avessero una tomba sulla quale piangere, pregare, posare un fiore, e in seguito su di essa erigere una stele a memoria del lager. Cominciammo le pratiche in Italia e a Vienna per la traslazione della salma di un deportato ignoto dal cimitero di Mauthausen. Ci scontrammo subito con la poca disponibilità dei funzionari, spesso nostalgici del regime, e riuscimmo a procedere solo con l'interessamento diretto dell'on. Andreotti. Mancava solo la spinta finale per fare in modo che il feretro arrivasse per il Giorno dei Morti. L'unica cosa era tentare con il presidente Einaudi. Ma come fare per essere ricevuti? A Torino intanto si celebrava il processo ai sindacalisti Fiat per le agitazioni del dopo attentato a Togliatti: erano difesi da Umberto Terracini. Lo attendemmo all'uscita del tribunale e lo caricammo sulla nostra scassata Balilla. Gli raccontammo del lager e del nostro progetto in un affettuoso colloquio di tre ore. La settimana dopo eravamo in Quirinale. La salma giunse a Torino addirittura in anticipo. Il 31 ottobre pioveva a dirotto e l'on. Gasparotto, il cui figlio, medaglia d'oro della Resistenza, era stato fucilato nel campo di Fossoli, pronunciò il discorso commemorativo davanti a una folla interminabile e ai superstiti vestiti con la casacca del lager a coronare la bara. Poi la salma venne tumulata al campo della Gloria. Il nostro ritorno alla società civile poteva ritenersi, apparentemente, concluso. Ma non fu così e se oggi siamo qui a ricordare quei giorni è perché è ancora incompiuto il nostro dovere di testimoniare.
(da l'Unità 27 gennaio 2005 - Voci della memoria - Testimonianza e racconto della deportazione)