Mi chiamo ELVIA BERGAMASCO e vorrei raccontarvi il mio
periodo di vita durante la seconda guerra mondiale.Nel 1940 abitavo a Forlì dove si avvertiva la tensione
riguardo agli avvenimenti che accadevano nel nostro Paese e nel resto d'Europa. Venne poi il famoso 8 Settembre del 1943 dove, alle 11 di
sera, nel silenzio della notte, venne diffusa la notizia della capitolazione del
fascismo. Vissi giorni di paura per tutto ciò che di quella famosa
notte venne raccontato perfino da Radio Londra; avvenne uno sconvolgimento di
avvenimenti, vidi uomini uscire dai loro nascondigli per scontrarsi con l'altra
fazione; sembrava che tutti avessero perso la testa. Si videro cose incredibili che non sto ad elencare ma che
lascio immaginare; in quei momenti non capivo ancora bene ciò che stava
succedendo, sentivo dire dai veri socialisti che quel momento storico non
rappresentava ancora l'ora del trionfo e che verranno accadimenti ancora
peggiori e di stare calmi. Rimasi a Forlì ancora un anno e, nel Gennaio del 1944, feci
ritorno in Friuli. Non mi rendevo però conto che per me il peggio doveva ancora
arrivare. Un po' alla volta arrivavo a capire cosa voleva dire la parola libertà.Ritornata in Friuli trovai subito lavoro in un deposito di
munizioni; subito capii perché trovai così rapidamente quel lavoro. Dapprima la gente che lavorava assieme a me mi scrutava e mi
studiava poi cominciò a spiegarmi tante cose ed il perché di quel lavoro che
venne offerto a me giovane e ingenua, quasi forestiera, insospettabile e con il
viso innocente. Mi misero al corrente che tanti di quegli operai e impiegati
erano partigiani e mi fecero capire realmente la parola libertà. Come si sa c'era l'occupazione tedesca e sembra che da noi vi
fossero anche le prime SS.
RICORREVANO GLI ANNI 1994 - 1945
Il mio diario di quel periodo triste e doloroso è fatto di
umiliazioni e di degradazione della propria individualità, dei proprio io e del
proprio essere; in meno di un giorno riuscirono a togliere la personalità. Ma veniamo al mio calvario che chiamerò " Il mio diario
disofferenza. Tutto cominciò alle 10 di mattina del 4 Giugno 1944, quando
si presentarono sul mio posto di lavoro le SS tedesche con i mitra spianati
tanto che tutti gli altri lavoratori si spaventarono ma loro cercavano una sola
persona e, con in mano una fotografia, si avvicinarono a me e mi intimarono di
seguirli. Così scortata davanti e dietro a me dai tedeschi dovetti salire su un
camion e venni condotta a Cormons (Go) in una caserma militare.Lì trovai altri miei paesani anche loro arrestati. Tutti
eravamo di Manzano un paese della provincia di Udine, e tra noi intravidi il
commissario dei partigiani della Brigata Garibaldi. Dopo averci fatto mettere in fila, condussero il comandante
dei partigiani (sul quale già si vedevano evidenti segni di precedenti
percosse) e, davanti a noi, gli strapparono le unghie delle mani. Così ebbi
modo di conoscere la dura realtà della crudeltà tedesca. Questo era solo
l'inizio di tutto quello che avrei passato e sofferto. Da Cormons ci
trasferirono nelle carceri di Gorizia dove subimmo cinque processi con torture
psicologiche. lo per fortuna, non subii mai percosse ma i miei compagni
subirono numerose torture. Dopo quaranta giorni di prigione ci condannarono ai
lavori forzati in Germania, senza dirci dove. In un giorno(non
ricordo quale ) dei primi di agosto ci prelevarono dalle carceri e ci portarono,
sempre scortati, alla stazione ferroviaria di Gorizia. Là era già arrivata una
tradotta di carri bestiame chiusi e piombati; potemmo scorgere da quei piccoli
finestrini, tra il filo spinato, delle teste di persone. Anche noi fummo fatti
salire su quei vagoni, non so in quanti eravamo, ma eravamo in tanti, era una
lunga fila composta da donne, ragazzini e uomini. All'interno del carro dove salii c'era un po' di paglia e due
mastelle, una piena d'acqua e l'altra vuota. Quando finirono di caricarci piombarono anche il nostro
carro. Dopo esserci guardate (eravamo tutte donne e ragazze) ci rendemmo subito
conto di essere in tante, troppe, e ci contammo; eravamo in cento e venti! Una
cosa spaventosa se si considera che molte erano anche ammalate per le torture
subite; per lo più queste provenivano dalla Slovenia e da Trieste. Posso riferire circa le torture che ebbero a subire queste
povere sventurate: alle più giovani - dopo averle sdraiate su di un tavolo e
fatte mettere le mani in dei cassetti aperti - venivano chiuse le mani con tutta
forza dentro i cassetti; alle donne meno giovani avevano legato ai capezzoli dei
fili elettrici ai quali veniva fatta passare la corrente elettrica (a qualcuna
il " trattamento elettrico " veniva praticato anche nel didietro
"). Gli autori di queste torture erano le SS ma anche degli italiani. Lascio all'immaginazione di ognuno in che stato erano queste
povere donne. Dopo questi impatti con la sofferenza, la lunga tradotta partì
alla volta di Udine dove vennero caricati altri uomini e donne; altre piombature
e altra partenza alla volta della Germania, via Tarvisio. Il viaggio del nostro " vagone " durò dodici
giorni tra fermate varie, carichi e scarichi di merce umana. Il nostro carro,
però, non venne mai aperto. Per quanto riguarda le due mastelle, l'acqua dell'una serviva
per bere mentre l'altro recipiente era destinatario di ogni tipo di ......
scarico. Lo svuotamento avveniva, di solito, di notte quando la tradotta si
fermava. Quando finalmente giungemmo a destinazione, era notte fonda,
nessuno sapeva dove eravamo. C'era buio pesto e silenzio totale; eravamo
spaventatissime ma, nonostante ciò, cercavamo di consolare quelle che stavano
male. Penso sia facile immaginare quante di noi stavano male dopo dodici giorni
in quelle condizioni e senza medicine; tra i mille odori che c'erano in quel
carro bestiame prevaleva l'odore di morte. Improvvisamente il silenzio venne
spezzato da urla e dall' abbaiare di cani; i “ vagoni “ vennero aperti e
subito venimmo colpite da fasci di luce abbagliante. Scorgemmo comunque delle
brutte facce dagli sguardi cattivi con dei cani al guinzaglio che ci urlavano di
scendere in fretta " snell " "snell " . Non posso
dimenticare quel momento: urla, pianti di bambini, spintoni, lamenti, gemiti;
eravamo una marea di essere stanchissimi,, ammalati e spaventati. Ma c'era chi
stava peggio di noi: quei morti che rimasero su queicarri della
disperazione.Ma se non sapevamo dove eravamo ci pensarono subito le SS a
rendercelo noto. Il luogo di chiamava Auschwitz. All'inizio questo nome non ci
diceva niente ma lo imparammo velocemente quando cominciarono a urlarci di
mettersi in filaper cinque; quanto è durato questo tra urla e pianti
mentre qualcosa si lacerava in ognuno di noi e ci rivolgevano a nostra madre
implorandola " mamma dove sei? " ?. Ci condussero poi davanti a un
grande cancello e ci ingiunsero di leggere una scritta che c'era lì e di non
dimenticarla mai. La scritta diceva: " Campo di Auschwitz - Il lavoro e
l'obbedienza fanno nobile l'uomo ". Varcato il cancello, sempre in filaper cinque,
arrivammo davanti ad un grande stanzone dove facemmo conoscenza con quelli che
sarebbero poi stati i nostri aguzzini; volti duri, sguardi freddi e cattivi; fra
di noi c'era tutto un fremito di paura e di terrore. Subito un ordine imperioso e cattivo: “Selezione”. Non capivamocosa volesse dire e cosa ci stava
succedendo. Poi un altro ordine secco e dispregiativo: " Giudei da
una parte e ariani dall'altra " indi un terzo: " Spogliarsi di tutto
". Obbedimmo ma ci tenemmo le mutandine. Ci vennero strappate con violenza.
Iniziò a questo punto la rasatura totale di ogni parte dei corpo. Sempre in
filafummo marchiate, come gli animali. Ci fecero un numero sul braccio
sinistro con inchiostro indelebile. A noi ariane lo fecero all'interno dei
braccio, alle ebree sul lato esterno. Il mio numero, perfettamente leggibile
ancora oggi, è: 88653. Da quel momento eravamo solo un numero, si veniva
chiamate per numero ed a quel numero dovevamo rispondere. La " giostra " continuò con la disinfestazione.
Entrammo in un altro stanzone dove degli addetti ci passarono con uno scopetto
di saggina tre volte lungo tutto il corpo tre qualità di liquido disinfettante.
Mi ricordo che ognuno aveva un colore ed un odore diverso dagli altri. Finalmente ci accompagnarono in un altro locale dove dovemmo
sottostare alla doccia: dapprima caldissima e poi gelata. Quando tutto fu finito fummo trasferite alle baracche del
campo di Birckenau che è poco distante da Auschwitz. Le baracche erano di legno. Ai latierano costruiti in
semi muro i giacigli a tre piani. In ogni piano si doveva prendere posto in otto
persone. Si poteva stare solo distese (tanto i piani erano bassi) e quando una
di noi voleva girarsi dovevano farlo anche le altre sette, vista la ristrettezza
dei piano dei giaciglio comune.
VITA NEL CAMPO
La sveglia era alle quattro. Ci si doveva mettere in fila per cinque e uscire dalla
baracca perfettamente incolonnate. Si doveva raggiungere il piazzale
dell'appello e lì attendere con qualsiasi tempo e temperatura il comandante del
campo che provvedeva ad effettuare la conta. Questo "rito" si ripeteva
anche la sera dopo il rientro dal lavoro. Bisognava attendere, sempre in fila
per cinque, anche delle ore. Se faceva freddo non potevamo avvicinarsi l'una
all'altra per fare "l'effetto stufa umana"; dovevamo rimanere distanti
tra di noi da tutti i lati per la lunghezza delle braccia. Il lavoro incominciava alle sei dei mattino e terminava alle
sei di sera. Consisteva nel costruire le strade ed i fossati nel campo di
Birckenau. A turno dovevamo tirare il rullo del battistrada. Ci volevano
quindici persone: cinque per tirare e dieci per spingere. Altro lavoro era quello della pulizia delle latrine. Queste
erano sistemate in una baracca che prevedeva circa cinquemila buche disposte in
modo tale che si facevano i bisogni sedute schiena contro schiena e tutte
assieme. Quello era l'unico momento in cui era permesso effettuare i propri
bisogni. Terminato un "turno" il nostro compito era di pulire in tutta
fretta e con le mani le buche poiché un'altra ondata umana doveva subentrare
alla precedente.... Succedeva molto spesso che molte detenute avevano la
dissenteria: lascio immaginare che aspetto avevano quelle buche! Ma tutto questo non è ancora niente. C'erano le grandi
selezioni. Queste consistevano nel farci spogliare nude e nel farci visitare in
un modo umiliante. Ci toccavano dappertutto in un modo molto ma molto brutale. Poi ci infilavano nel di dietro un grande termometro. Per
poter far questo dovevamo tutte cinquemila piegarci a mezzo busto una di fronte
all'altra, giovani, anziane e ragazzine.Con il trascorrere dei giorni il nostro animo cambiava, si
cominciava a diventare sempre più insensibili alle sofferenze delle tue stesse
compagne: si era sempre più portate a pensare alla propria sopravvivenza. Si
diventava sempre più insensibili a tutto. Sapevamo dell'esistenza di dodici forni crematori che
funzionavano 24 ore su 24; bruciavano sempre. Quando le tradotte non arrivavano,
per i ritardi dovuti ai bombardamenti, venivano chiamate, di notte, le donne
ebree. Queste uscivano dalle baracche e in fila raggiungevano le camere a gas:
sapevano bene dove andavano e cosa le aspettava. Ma a noi tutto questo era sempre meno importante perché si
era sempre più preoccupate a pensare quale castigo ci sarebbe toccato oggi o
domani.
I CASTIGHI
Normali erano i calci nel sedere o le frustate. Normale era
anche farci passeggiare nude - sempre in fila per cinque - con diversi gradi
sottozero, con le mani alzate tenendo saldo un mattone e procedendo con le
ginocchia. Una variante era il rotolarsi per terra con i mattoni. Questi "castighi" però non avevano origine da una
disubbidienza personale o collettiva, erano fini a se stessi. Il mangiare consisteva in circa mezzo litro di acqua e rape e
una fettina di pane, sottile come il dito mignolo, fatto con segatura di legno e
farina. Rimasi ad Auschwitz sei mesi. A seguito di una terribile selezione fui scelta, assieme ad
altre cinquemila giovani donne per essere trasferita altrove. Anche in questo
caso ci spogliarono completamente e, dopo la solita visita schifosa, ci fecero
salire, tutte nude, su una scalinata, all'aperto (anche in questo caso la
temperatura era di parecchi gradi sottozero) dove stazionammo tutto il giorno.
Verso sera, quando ci fecero alzare e scendere, eravamo come zombi; quando siamo
scese dalla scalinata ci siamo girate e non so dire quante di noi erano rimaste
là, immobili, tutte blu. Ci siamo rivestite e, dopo la conta, siamo rientrate
nella baracca. Ci dissero che l'indomani saremmo partite per una nuova
destinazione. Dopo otto giorni di viaggio massacrante arrivammo al campo di
sterminio di Buchenwald. Qui rimasi altri sei mesi. Appena arrivate, altra selezione; di nuovo spogliarsi
completamente, di nuovo rasatura totale, di nuovo disinfestazione effettuata con
la solita durezza e, per ultimo, la solita schifosa visita. Bisognava essere pronte per un nuovo lavoro; si doveva essere
sane. Furono formate, alla fine, due file: quella di destra, che comprendeva
anche me, fu dirottata nella baracca, mentre quella di sinistra ( le non abili )
venne condotta alle camere a gas. Non si udiva un pianto o un lamento: loro sapevano dove
andavano e noi impassibili a guardarle come se quello che accadeva non fosse
realtà. Tra queste sventurate c'erano anche molte italiane, non ebree, trovate
ammalate. Il giorno dopo sveglia alle quattro. Ci diedero un "caffè"
fatto con delle foglie che sembravano d'ulivo. Indi la solita fila per cinque ad
aspettare l'appello fino alle sei. Effettuato l'appello ci fecero scendere sotto
il campo di Buchenwald dove ci attendevano dei camion chiusi. Ci fecero salire;
eravamo molto spaventate perché ancora non sapevamo dove ci avrebbero portate.
Dopo un'ora di viaggio ci fecero scendere e ci dissero che eravamo arrivate e
che un nuovo lavoro ci attendeva. Scendemmo giù per una lunga scalinata ed
entrammo in una grande galleria scavata sottoterra. Qui i tedeschi costruivano
le V2. Noi donne eravamo addette a preparare le cariche, lavoravamo
in mezzo agli esplosivi tanto che eravamo diventate tutte gialle. Per questo ci
fecero delle iniezioni ai seni. Lavoravamo dodici ore al giorno. A turno per una settimana di
giorno e per una settimana di notte. Nonostante le mole di lavoro a noi imposto c'era sempre
qualche cosa che non andava bene e le punizioni (percosse) non mancavano. Una
volta ci hanno fatto stare per tre giorni e tre notti senza riposarci, sempre
lavorando; se qualcuna cadeva non la si vedeva più. Anche qui subimmo tante
punizioni e umiliazioni a non finire. I mesi passavano e le nostre filesi assottigliavano
sempre di più. All'inizio eravamo in cinquemila ma quando il 17 maggio giunse
finalmente l'Armata Rossa a liberarci ci rendemmo conto solo allora quante poche
eravamo rimaste. Prima, come ho già detto, eravamo sorde e cieche a tutto: si
pensava solo alla propria sopravvivenza al punto di non accorgersi nemmeno di
quel calo spaventoso di compagne che era avvenuto. La liberazione è un
avvenimento difficile da spiegare, specie nel nostro caso. È impossibile
riportare in queste righe i sentimento le gioie e ciò che si provava in quei
giorni. Ci sono voluti giorni per capire cosa voleva dire essere
vive. Potevamo constatare come eravamo ridotte, quali larve umane
eravamo diventate. lo ho resistito ancora per otto giorni poi il mio fisico
cedette: caddi per strada e per tre mesi non seppi più nulla di me. Mi
risvegliai in un ospedale a Praga: su di me vegliava un volto sorridente e
bellissimo; era una crocerossina cecoslovacca. Si trattava della persona che mi raccolse e mi curò assieme
a suo figlio dottore. Mi dissero che pesavo 25 chili. Mi dissero anche che mi
ammalai di tifo petecchiale e di febbre malarica e che non sapevano nemmeno loro
come avevano fatto a salvarmi. lo, come ho già detto, non ricordo nulla di
quanto mi è successo. Ma ciò che piùmi è dispiaciuto è che non
rividimai piùqueste due persone. Quando mi accinsi a ritornare a casa venni bloccata a
Bratislava assieme ad altri diciassettemila italiani. C'erano prigionieri civili
e militari, uomini, donne e bambini. Rimanemmo a Bratislava fino al 30 ottobre
anche perché il mio era l'ultimo convoglio dei rimpatriati. Quando siamo arrivati al Brennero la tradotta si fermò; noi
tutti siamo scesi a abbiamo baciato il suolo italiano. Con questo io avrei terminato di narrare la mia storia ma mi
rendo conto di aver raccontato ben poco per quanto riguarda i dettagli e le
storie apparentemente minori o di poco conto. Innumerevoli sarebbero, infatti, gli episodi che
meriterebbero essere approfonditi o raccontati con maggiore dovizia di
particolari. Posso affermare che, per quanto riguarda il ritorno a casa, bene ha
scritto Primo Levi con il libro " La tregua ". Non posso, comunque, evitare di riportare qualche triste
episodio che io ricordo bene e che secondo me merita di essere riferito.
Uno di questi sono le barbarie eseguite a Auschwitz dal dott.
Mengele
Nella baracca dove c'ero io e proprio nel giaciglio dove io
giacevo assieme ad altre sette detenute, nacque un bambino. Venne il dottore che diede l'ordine di non allattarlo per sei
giorni. Venne in seguito una dottoressa polacca che diede l'ordine alla madre di
sopprimere il bimbo che ormai non aveva più voce. Noi protestammo ma lei ci
disse che l'indomani sarebbe venuto il dottor Mengele per portar via con sé la
madre e il bambino nella baracca degli esperimenti e che non li avremmo più
rivisti. lo penso che tutto questo era fatto per vedere quanto può sopravvivere
un neonato senza allattare. Noi tutte abbiamo sofferto gran dolore di fronte a questo
fatto ma per fortuna la ragazza sopravvisse e ritornò. Ho inoltre assistito ad un caso di fecondazione artificiale. Si trattava di una ragazza, Gabriella di sedici anni alla
quale venne fatta un'iniezione nelle sue “parti intime” e, dopo un po’ di
tempo, nonostante la sua magrezza e l'assenza dei seni, si sviluppò una
rotondità che lentamente andava progredendo. Dopo diversi mesi Gabriella svenne
e ci fu una grave emorragia. La portarono in infermeria. Pensavamo di non
rivederla più ma ritornò tra noi. A liberazione avvenuta seppi che morì a
casa di tisi. Sapevamo che squamavano le persone e con la pelle facevano
quadri; con i seni delle donne facevano paralumi. Provocavano delle ferite ai
prigionieri che poi venivano infettate apposta. Molte ragazze venivano sterilizzate, senza alcuna anestesia,
e poi venivano inviate per appagare i piaceri sia degli addetti al campo di
concentramento, sia della truppa tedesca. Ad Auschwitz c'era ormai la famosa " casa delle bambole
" perché si trattava di ragazze di sedici diciassette anni, vergini. Se la ragazza non soddisfaceva bene le
"aspettative" di chi andava con lei era la morte sicura. C'era una
alternativa per queste poverette: venivano consegnate, o meglio "date in
pasto", alle Kapò polacche (che erano le comandante delle nostre baracche)
che rappresentavano la faccia più cattiva che esisteva in Polonia. Da loro noi
tutte abbiamo subito le peggiori angherie: un misto di cattiveria e perversione;
erano capaci di fare delle cose orribili. Non da meno erano gli uomini polacchi,
di una cattiveria della peggior risma. Le punizioni che subivamo da queste persone erano tali e
tante che ci vorrebbe un libro intero per raccontarle tutte. Ogni giorno erano una o più punizioni e, se erano personali,
tutte dovevamo assistere. Non riuscimmo mai a spiegarci come mai questi due
popoli, il tedesco e il polacco furono cosi crudeli, specialmente quello polacco
sempre proclamatosi tanto cristiano. Ora vediamo i polacchi che pregano in quel
modo così ossessivo ma penso lo facciano per chiedere perdono per quello che
hanno fatto i loro padri! Si dice che erano comandati ed era per sopravvivere
che agivano così. In parte è vero ma si può in ogni occasione dimostrare un
po' di pietà e un po' di umanità ma essi in nessuna occasione l'hanno avuta. Sono trascorsi più di 50 anni ma non li posso dimenticare:
il troppo e la cattiveria ingiustificata non possono ottenere il perdono.Non so se quando noi sopravissuti potremo dimenticare. In tutti questi anni dal dopoguerra ad oggi si è parlato
molto poco, troppo poco pubblicamente di quanto è avvenuto nei lager nazisti.
Anche la televisione poco ha fatto ai fini di una divulgazione di massa e
radicale. Sono stati scritti diversi libri In argomento ma sono stati poco
propagandati anche perché non mi risulta abbiamo preso alcun premio. Ribadisco che quanto ho sopra raccontato è solo molto poco
di quello che è stato. Inoltre le parole solo raramente e quasi sempre
parzialmente riescono a descrivere un avvenimento così grande.
Le giornate
speciali di Auschwitz
Il secondo giorno di prigionia nel “campo” finalmente ci
dettero da mangiare; non si sapeva cosa fosse; la scodella era di smalto color
mattone molto malandata; ci dissero di tenerla d'acconto: guai se veniva persa;
ce lo dissero, ovviamente, nella loro lingua.
Noi eravamo un po' schifate ma le vecchie compagne ci dissero che nell'insieme
eravamo fortunate ad avere la scodella perché loro avevano dovuto procurarsela
da sole e ci raccomandarono di non perderla e di vigilare su di essa perché nel
campo veniva rubato tutto; avremo presto imparato tantissime cose.
Finalmente, dopo una giornata in piedi e in filaper cinque ci diedero la
minestra manon dovevamo mangiarla fino a che non fosse finito un loro
discorso, poi potevamo mangiarla senza dire niente. Si trattava di un qualcosa
come del gries al latte ma era talmente dolciastro che fu veramente terribile
ingoiarlo; ci dissero che questo lo avremmo rimpianto e fu proprio così.
Mentre i mesi passavano si imparavano molte cose per la sopravvivenza come per
esempio il mercato nero. Questo si svolgeva di notte dietro una baracca delle più
anziane; erano le polacche, che trafficavano di tutto: per uno spicchio d'aglio
una porzione di pane perché l'aglio era un disinfettante; per un cordone di
tela, che serviva per legare la scodella intorno alla vita affinché non venisse
rubata ci volevano due razioni di pane e mezza. Un'altra giornata particolare che ricordo - era giàtrascorso
qualche mese - fu quando mentre stavamo lavorando ad una strada del campo
vedemmo arrivare un carretto trainato da due cavalli (grande novità ) pieno di
cuori di verza; non si può immaginare quello che scattò in noi; dimenticammo
tutte le paure e assaltammo il carretto per una foglia di verza: quante botte ci
costò quella foglia! Inoltre quella sera non ci venne dato il pane.
Un altro episodio che non potrò mai dimenticare: una nostra compagna moriva
solo dopo tre mesi; era impazzita per la fame; il suo continuo lamento ci
straziava il cuore; ripeteva in continuazione “Dio quanta fame ho io !” La
portarono via; eravamo tutte ammutolite: non eravamo ancora diventate
insensibili a questi avvenimenti che inseguito ci avrebbero lasciate
indifferenti; c'era ancora qualche cosa di umano rimasto in noi; in seguito
diventammo quello che loro volevano: insensibili a tutto.
Un'altra volta abbiamo pianto per la nascita di un bambino avvenuta proprio
nella “coia” dove dormivamo e per la sua subitanea morte avvenuta ad opera
dei dott. Mengele. Fu una notte terribile. Da allora non ricordo di avere più
pianto. La paura era più grande di ogni emozione. La più grossa paura che io ebbi fu un giorno in cui
l'appello venne ritardato. All’improvviso capitò il braccio destro di Hitler
(non ricordo come si chiamasse). In questi casi le prigioniere avrebbero dovute
già essere in baracca, non si doveva vederlo! In quel giorno arrivò
all’improvviso e sfilò davanti a noi. Si fermò proprio davanti a me e
incominciò a fissarmi in un modo che non riuscirò mai a dimenticarlo. Mi guardò
a lungo e poi diede l'ordine di rientrare nelle baracche. lo ero impietrita
dalla paura e non riuscivo a parlare. La “Kapò” mi disse che ero stata
fortunata! Per un po’ anche le mie compagne cercarono di darmi conforto ma in
breve tutto finì eritornammo ad essere gli esseri senza anima né cuore
di sempre.
Un giorno dovemmo assistere all’impiccagione di una ragazza ebrea e un soldato
tedesco perché amanti: lei era di razza inferiore e lui si era sporcato con una
ebrea. Arrivarono al patibolo su di un carretto trainato dalle prigioniere
stesse; l'orchestrina dei detenuti dei campo dovette accompagnarli suonando.
Loro in piedi sul carretto, erano belli o così li vedevamo noi; lei sembrava
una dea! Eravamo diventati indifferenti davanti a quelle filedi donne e
bambini che ogni giorno vedevamo andare alle camere a gas! Un altro ricordo terribile: per tre giorni davanti alla
nostra baracca venne costruito un piccolo recinto dove portarono una trentina di
bambini dai quattro agli otto anni e qui vennero rinchiusi. Quando faceva buio
si vedevano le loro madri che, di soppiatto e silenziose, davano ai loro bambini
dei pacchettini contenenti il loro pane del quale si erano private. Qui i
bambini rimasero per tre giorni, perché venne detto che li avrebbero portati in
un posto migliore a Cracovia. Ma la notte successiva non li vedemmo più.
L'indomani mattina, era presente tutta la corte delle SS con a capo il
comandante; tutti sorridevano con un ghigno stampato sul viso. Dissero alle
madri che i loro figli ora stavano bene e che erano usciti dal camino! Non potrò
mai dimenticare i volti di quelle madri, impietrite nel loro dolore, si erano
trasformate senza unalacrima!
I nostri aguzzini ci scortavano armati di mitra e pistola; inoltre avevano un
cane. Mentre lavoravamo a costruire strade e fossi potevamo vedere ciò che
succedeva. Un giorno vidi un bimbo correre verso la madre che stava lavorando
chiamandola
“mammi, mammi”; subito un tedesco diede un ordine al cane che si avventò
sul bambino ..... Un divertimento dei tedeschi era il tiro a bersaglio sui
bambini. Questo io non lo vidi personalmente ma me lo raccontarono alcune donne
madri. Un tedesco toglieva il piccolo dalle braccia della madre e lo lanciava in
aria, un altro faceva “centro”.....
Queste scene le vedevano le donne addette all'arrivo delle tradotte; ogni sera
ritornavano stravolte. Talvolta succedeva che queste compagne incontravano dei
parenti che poi non avrebbero visto più: loro sapevano il perché....
Eravamo sì in una “babele” di lingue ma si riusciva quasi sempre a capirsi;
dopo mesi di vita in comune, specialmente le cose brutte si capivano al volo.Un giorno, durante una famosa “selezione”, venni scartata da Mengele. Mi
scortarono in un altro campo a Birkenau (il campo “B”, chiamato il campo
delle malattie infettive ). Quando varcai il cancello vidi cose orribili: qui
c'erano le donne destinate agli esperimenti; sembrava un lebbrosario. lo avevo
una specie di brufoli alla schiena e, per fortuna o per miracolo, rimasi
quattordici giorni là dentro. Mi spalmavano con delle pomate di tre colori. Vidi delle cose orrende: donne con croste da tutte le parti
con dei grandi sfregi infetti alle cosce, al ventre, alla schiena; altre con
bruciature fatte con ferri roventi; altre solo tagliate con ferite profonde.
Potevo vederle bene, purtroppo, perché giravano nude.
Quel campo era così; aveva un muro molto alto e nessuno dall'esterno poteva
vedere cosa succedeva là dentro.
Quando finalmente mi mandarono fuori mi raccomandarono - in lingua italiana - di
non parlare mai a nessuno di ciò che avevo visto. Quando giunsi al mio
“blocco” le mie compagne rimasero sbalordite nel rivedermi. Tutte ormai
pensavano che non ce l'avrei fatta anche perché la Kapò disse loro un giorno
“italiana non tornare più ...” Qualche giorno dopo si avvicinò a me una
donna italiana (non so di dove) e mi raccomandò di non raccontare mai alle mie
compagne quello che avevo visto. Così feci: non lo seppero proprio mai, nemmeno
dopo la liberazione anche perché allora si cercava di non ricordare e di
dimenticare, si parlava solo del presente. A quante morti ho assistito!! Per la
grande disperazione molte si gettavano sul filo spinato al alta tensione!
rimanevano lì tutto d giorno come Cristo sulla croce; le raccoglievano la sera:
quando passava il “carretto della morte” toccava a noi caricarle; c'era ungran lavoro ogni sera..... Quanto freddo ho patito a Auschwitz! Là arrivava molto
presto e d'inverno la temperatura poteva arrivare anche a venti gradi sotto
zero. Ugualmente dovevamo camminare, nude, su e giù per tutta la lunghezza dei
campo “A” con la scusa della disinfezione. In quel periodo vedevamo in
lontananza, alla destra delle nostre baracche, delle ragazzine proseguire in un
recinto molto particolare; erano tutte bionde con i capelli lunghi e un
vestitino azzurro.
Dicevamo a noi stesse: “Come mai loro così belle e noi delle larve umane ?”
Ma le compagne più anziane ci dissero: “Pregate Dio di non entrare mai in
quel cancello, là dentro è la casa delle bambole”.
Sui loro bei volti si vedeva, infatti, scritta la disperazione: non le ho mai
viste sorridere.
Un giorno - era verso la metà di dicembre ed era il giorno di riposo - tutto
d'un tratto dall'interno la Kapò cominciò a urlare e le “Stubove” si
avventarono su di noi conurla, botte e spintoni: dovevamo svestirci e
metterci per cinque sul piazzale. Là c'era Menghele con la sua “équipe”. Passarono per
ogni fila e, una per volta, ci scartarono tutte finché giunsero davanti ad una
ragazzina di nome Gabriella alla quale dissero “tu”. La presero e la
portarono via. Sua zia urlò “ha solo quindici anni!” ma prese subito una
razione di botte per avere osato parlare!
La sera stessa la ragazzina ritornò come per incanto da noi e la zia dimenticò
tutto il suo dolore. Tempestammo subito di domande la ragazzina e lei, piena di
vergogna, ci disse che le avevano fatto una iniezione “nella sua intimità”.
A mano a mano che il tempo passava Gabriella cominciò a cambiare: i piccoli
seni si arrotondavano.... Noi pensavamo che tutto dipendeva da quella iniezione
di “nutrimento” che le avevano fatto....
Ad Auschwitz c'era l'orchestra, suonava tutto il giorno, ci accompagnava al
lavoro ed anche al rientro. Durante la notte c'era sempre un suono ossessionante che non so come descrivere:
sembrava che battessero tra due grossi pezzi di ferro; ne usciva un suono
stridente, pauroso. Un altro episodio: una sera eravamo pronte per l'appello ma
prima della conta ci diedero la porzione di pane (quella sera eravamo fortunate
perché le porzioni le fecero le russe mentre era terribile quando questo lavoro
lo facevano le polacche) e tutte ferme ad aspettare. Arrivò il comandante
tedesco con la sua amante - tanto bella quanto cattiva - che vide una donna
masticare qualcosa. La chiamò fuori dalla fila, sull'attenti, le sputò sulla
mano, le diede un gran ceffone con tutta la forza e le gridò “Scheisser!
Italiana merda!”.La detenuta era
una donna anziana, di Cormons (Go); da quella sera cominciò a perdere ogni
fiducia di rivedere i propri cari e di ritornare a casa, finché morì disperata
dopo quattro mesi.
Anche una ragazzina di Firenze morì disperata e di paura. Aveva composto una
canzoncina su Auschwitz e i forni crematori; la cantava ogni sera disperatamente
guardando da una piccola finestra quel rossore che arrivava dai forni crematori
per tutta la notte dal fondo del campo; quel rossore le incuteva molta paura.
Non so chi fosse quella ragazzina e come si trovasse lì fra noi, aveva solo
quindici anni. Un giorno ci spostarono per lavoro alla fine dei campo; lì
c'erano delle grida: “snell” “schnell”, mentre stavamo trainando il
rullo. Poi uno spettacolo terribile: lì vicino c'era una catasta di cadaveri ai
quali veniva dato fuoco. Dopo poco tempo cominciò a cadere una specie di neve
ma non era neve; “ecco”, ci dicemmo, “perché a Birkenau nevica fuori
stagione!”. Inoltre c'era come una strana nebbia ed un odore dolciastro
nell'aria. Eravamo ai primi di gennaio quando cominciarono questi fatti; il
perché era semplice: i forni crematori non riuscivano a smaltire tutti i
cadaveri!
Quando la sera rientrammo nelle baracche e raccontammo quello che avevamo visto
dapprima non ci credettero ma dopo poco arrivò anche lì la “neve” e tutte
“capirono” mentre la paura si fece sempre più grande, tanto che si conficcò
nel cervello e ci vollero degli anni per farla uscire.
Sempre a gennaio, dopo l'appello nella nostra baracca, ci ordinarono di
spogliarci, ci fecero salire lungo una scalinata fatta con listelli di legno e lì
ci lasciarono tutto il giorno. Il freddo era tremendo! La temperatura era di -
15(questo lo sapevamo perché c'era un enorme termometro all'entrata dei
campo “A” ). Dal nostro campo “A” si poteva vedere, purtroppo, un
po’ di tutto: gli arrivi, le grandi angherie, le urla, i pianti dei bambini,
le divisioni tra uomini e donne, le file (destra e sinistra ); noi sapevamo dove
andava la fila di sinistra ... ; i bambini formavano una terza fila che ....
spariva, non si vedevano più. Gli uomini venivano inviati fuori dal nostro
campo. Da noi c'era solo qualche polacco della peggior feccia; così erano le
donne polacche: di una cattiveria superiore a quella dei tedeschi!
Ma, ritornando alla giornata in cui ci fecero rimanere nude su quella scalinata,
quando venne sera e ci fecero alzare per scendere, ci accorgemmo che molte delle
cinquemila che eravamo giunte lì erano ferme, immobili, tutte blu. Quando
rientrammo nella baracca ci diedero la solita brodaglia di rape ed acqua ma per
il fatto che era calda fu la minestra più buona che avessimo mangiato fino a
quel momento!
L'indomani ci dissero che saremmo partite per una nuova destinazione e l'otto
gennaio ci incolonnarono (eravamo in circa cinquemila ) e, a piedi, camminammo
per due giorni nei boschi fino a che, stanchissime, arrivammo ad un binario
ferroviario dove
c’erano ad attenderci i soliti carri bestiame. Ci fecero salire, piombarono i
vagoni, c’era su ogni vagone la solita mastella d'acqua e così, senz'altro
mangiare e bere per otto giorni, giungemmo ad una cittadina di nome Weimar. Quando la tradotta si fermava noi chiedevamo di bere ma i
tedeschi picchiavano sui vagoni intimandoci di stare zitte.
Eravamo ferme, ad uno scalo merci e vedevamo la scritta Weimar sulla stazione.
Ci fecero scendere e, incolonnate, ci diedero gli zoccoli (il sotto di legno e
il sopra di tela); a me ne rifilarono uno grande e uno più piccolo, che dovetti
infilare così com’erano perché davanti a me c'era un tedesco. Ci fecero
prendere una stradina in salita e se qualcuna non ce la faceva, ci pensavano
loro a farla riposare per sempre. lo ebbi la fortuna di avere delle vere
compagne che mi trascinarono su per quella salita (e lo fecero in seguito anche
altre volte).
Rimanemmo sempre amiche e ancora oggi una è ancora viva. I loro nomi sono: D'Anzul
Antonietta, Calderisi Ines, Appia Anna. Finalmente arrivammo sopra quella
collina e, fra il bosco, apparve il cancello, enorme, con la solita scritta e il
nome “Buchenwald”.
All'arrivo le solite procedure: spogliarsi, disinfezione e la solita visita...
schifosa. Qui non c'era Mengele ma il modo di visitare era diverso, in un certo
senso ancora peggiore. E, poi, nuove Kapò, nuovo comandante del campo (al quale noi
gli attribuimmo il soprannome “Don Abbondio” per quel suo modo di apparire e
sparire all'improvviso come i fantasmi e nei momenti più impensati). Avevamo già
fatta molta “scuola” per non farci trovare nei momenti difficili ma lui
riusciva spesso a trovare qualcosa di “sbagliato” e, di conseguenza, punire
tutte noi in blocco.
A Buchenwald ci aspettava un nuovo lavoro: sveglia alle quattro, l'appello e,
dopo, si usciva dal campo; dopo circa un'ora di viaggio, ci scaricavano davanti
ad un bosco. Qui c'era una lunga e grande scalinata di pietra fatta dai
prigionieri uomini. Per la prima volta vedemmo gli uomini; non avevano il
vestito a righe ma quello di militari: scoprimmo che erano italiani; loro
rimasero imbambolati a guardare quelle povere larve di donne; dovevamo essere
talmente orribili che non credevano ai propri occhi.
Qualche giorno dopo, passandoci vicino, cominciarono a chiederci chi eravamo:
quando seppero che eravamo italiane stentarono a crederci come non credettero
che venivamo da Auschwitz finché non mostrammo loro il numero impresso
sull'avambraccio. Precisammo che eravamo in parte ebree e in parte politiche.
Ma, tornando alla scalinata di pietra, questa ci conduceva sotto il bosco dove
era sistemata la fabbrica delle famose V2. Noi donne eravamo destinate alle
cariche; lavoravamo in mezzo agli esplosivi.
Tutto sommato stavamo un po’ meglio rispetto ad Auschwitz: la domenica si
riposava e si poteva parlare tra noi. Cominciarono così i primi sogni di
ritorno a casa, non pensavamo più di morire anche se la fila delle prigioniere
che ogni giorno andava a lavorare si assottigliava di continuo (ognuna di noi
pensava: a me non toccherà e io ritornerò). Parlavamo spesso del mangiare ed elaboravamo ricette....
ovviamente con il pensiero. Forse questo ci ha aiutato a sopravvivere a
Buchenwald. Ma di domenica (non lavoravamo ) non ci davano il pane; al sabato,
al ritorno dal lavoro ci consegnavano una piccola patata che... bagnavamo con le
lacrime dello sconforto!
Un giorno, durante il lavoro, la piccola Gabriella (alla quale ad Auschwitz
venne fatta quella famosa iniezione) si sentì male ed ebbe una emorragia. La
portarono via. Ritornò dopo otto giorni, triste in volto, e ci raccontò che
l'avevano fatta abortire e, nel mentre, le avevano tolto anche gli organi
interni della riproduzione (riuscì comunque a ritornare a casa, dove morì dopo
poco di tisi).
Causa il lavoro particolare che facevamo eravamo diventate tutte gialle. Un
giorno, anziché andare al lavoro, ci fecero trasferire, a piedi, fino
all'ospedale di Weimar dove ci fecero delle radiografie. Fu un giorno molto bello (abbiamo anche cantato) perché fu
un giorno diverso dagli altri; non pensavano minimamente che potevamo anche
essere ammalate. Quando attraversammo la cittadina tutti ci guardarono
sbalorditi e anche ridevano a vedere quella fila di donne tutte gialle e
cenciose che cantavano in lingue diverse. Fu una giornata bella ma che pagammo
cara. Una detenuta russa fece un piccolo sbaglio e la kapò dette l'ordine di
rasarle la testa col rasoio (che sembrava piùun seghetto che un
rasoio). In quei giorni faceva un gran freddo e la poverina riuscì a procurarsi
nella galleria dove lavoravamo uno straccetto per coprirsi la testa sanguinante.
Al rientro a Buchenwald trovammo ad attenderci il comandante che, dopo averci
inquadrate, chiese a tutte chi avesse rubato un pezzo di stoffa in galleria.
Nessuna parlò. Fummo così punite tutte quante per essere state così solidali:
rimanemmo tutta la notte inquadrate e poi al lavoro e così per tre notti e tre
giorni! Una volta, durante il turno di notte, due sorelle russe
tentarono la fuga mentre andavamo al lavoro. Le ripresero due giorni dopo. Le
portarono al campo in uno stato pietoso per le percosse subite. Le fecero
stendere a terra e il comandante camminò sopra di loro come se stesse
marciando. Poi le sistemarono in una botola, grande comeuna botte, in
cemento armato, le chiusero dentro lasciando un solo piccolo buco aperto. A
tutte noi venne proibito di avvicinarsi a quella botola. Nonostante la
proibizione noi, a turno, durante la notte andavamo a portar loro del pane che,bagnato, lo facevamo entrare attraverso il foro lasciato per poter
respirare. Dopo sei giorni aprirono la botola e le tirarono fuori. Solo una sopravvisse e
riuscì a rimanere viva fino alla liberazione. Avevamo tre compagne che nei momenti difficili (esempio durante la spogliazione
cercavano di tenerci su il morale danzando nude, incitandoci e dandoci coraggio:
riuscivano perfino a farci canticchiare. E pensare che loro si stavano spegnendo
lentamente, sapevano di morire ma non si lamentavano mai. Non potevano venire più
al lavoro e la sera le trovavamo sempre con una battuta e cercavano di farci
ridere. Ma una triste alba, tornammo dal lavoro e non le trovammo più. Quanto
ci mancarono! Due di loro erano di Firenze, Irene e Vanda, e una era di Milano,
Sara. Nelle gallerie dove lavoravamo c'erano degli ingegneri che
controllavano il nostro lavoro. Nel mio reparto c'era un ingegnere che portava
la merenda (pane e margarina) che mangiava verso mezzanotte; il pacchetto con
questo ben di Dio veniva depositato in un piccolo armadietto chiuso a chiave.
Tutte noi guardavamo quel pacchetto! Una sera quel pacchetto era più grande del
solito. L'ingegnere venne ad un certo momento chiamato dal comandante e se andò
via. Subito ci siamo date da fare. Con uncacciavite smontammo
l'armadietto dal di dietro, sfilammo il pacco chesparì tutto in un
attimo e ritornammo a montare tutto. Facemmo un lavoretto davvero in modo
pulito. Proprio quando lui tornò suonò la sirena che ci permetteva di andare
al bagno e, proprio dai bagni, sbirciammo verso l'armadietto dove c'era
l'ingegnere chesi guardava attorno e guardava l'armadio ma non riuscì a
notare nulla di sospetto; il lavoro era stato fatto proprio bene! Quando
rientrammo al lavoro trovammo l'ingegnere che sorrideva e scuoteva la testa. Da
quella notte non chiuse più l'armadietto così noi non osammo più rubargli
nulla! Altre volte riuscimmo a fregare ad altri di loro la minestra e la fortuna
era dalla nostra parte perché grazie agli italiani che lavoravano là dentro,
che erano in amicizia con i sorveglianti, ci andò sempre bene. Potessi farlo,
ringrazierei ancora oggi quegli italiani! Una notte, durante un grande
bombardamento (era l'otto marzo), poiché non si poteva entrare nelle gallerie,
alcune di noi (io compresa) vennero mandate a pelare patate in una cucina dei
comandanti. Di guardia c'era solo una tedesca. Subito notammo che in un angolo
c'era tanto pane. Come fare? Ci venne in aiuto un ragazzo italiano. Era molto
bello. Riuscì a portare via la sorvegliante per un po’ di tempo (che era
totalmente nelle nuvole) giusto il tempo che noi riuscimmo a fare il ... nostro
lavoro. Lei stessa ci riportò al campo e noi sotto il vestito avevamo le
pagnotte che abbiamo poi ripartito tra tutte le detenute, tanto che quella notte
abbiamo fatto festa. L'indomani, però, vennero le comandanti polacche a cercare
il pane: rovesciarono tutti i letti ma come avrebbero potuto trovare anche un
solo pezzetto di pane,con quella fame che avevamo sempre! Al successivo appello
ci intimarono di dire dove lo avevamo nascosto e dissero che se lo avessimo
mangiato ci avrebbe fatto solo male e ci avrebbe procurato la dissenteria.
Nessuna di noi fiatòanche perché tutte avevamo avuto il pane in parti
uguali. La comandante venne punita per mancata sorveglianza e tante di noi che
avevano la dissenteria guarirono! Come godemmo della punizione della
comandante!! Eravamo cattive ma siamo state bene per un bel po’. Altre volte i nostri italiani ci salvarono in vari modi. Alle
volte riuscimmo a sabotare le macchine e loro le riaggiustavano (per fortuna);
quando sbagliavamo qualche carica gettavamo il tutto nelle latrine, che si
intasavano; loro provvedevano a disintasarle e a tenerle in continuazione
efficiente perché loro sapevano che, specialmente durante il turno di notte,
gli errori erano più frequenti dovuti alla disperazione, al sonno, alla fame,
al freddo e alla stanchezza. Di una cosa siamo state fortunate: non abbiamo mai avuto i pidocchi. Sapevamo
che ad averli, nelle nostre condizioni, erano guai seri. Questo era senz'altro
dovuto alle diverse disinfezioni a cui siamo state sottoposte che bruciavano da
morire e che seccavano la pelle come un cartoccio rendendola dura e secca.
Probabilmente di fronte a ciò i pidocchi fuggivano. Ma un giorno anch'io mi ammalai. Mi venne un gran febbrone. So di aver sentito
la sveglia e di aver sentito gridare "stavaz" in polacco; so di essere
andata sul piazzale per l'appello ma in un momento diventò tutto buio. Mi
portarono al "revir", l’infermeria. Qui venne a trovarmi la mia
antica Antonietta che riuscì a portarmi delle bucce di
patate; non so come abbia fatto ad averle. Mi raccontò che quando svenni,
durante l'appello, emisi un grande urlo e caddi a terra.
Guarii. Penso anche grazie a quelle bucce di patate, non lavate, che forse
avevano addosso della penicillina. Quando eravamo ammalate non si aveva diritto
al pane ma per mia fortuna in infermeria c'era una infermiera che aveva sposato
un italiano . Mi diede - forse mossa da pietà - delle pastiglie e guarii in
cinque giorni. Quando rientrai nella baracca dovetti passare davanti alla
kapò che, per farmi guarire dei tutto, mi diede una bastonata alla schiena.
Furono le mie compagne a gridare dal dolore, io non ebbi il tempo; mi trovai per
terra in un attimo. Anche di questo episodio ne venni fuori grazie alle mie due
compagne Antonietta ed Ines che mi aiutarono molto. Se dopo tutto questo ci chiedete come siamo sopravvissute
neppure noi sappiamo dare una risposta esatta. Forse ci ha permesso di
sopravvivere una combinazione di coraggio e di paura.
Questo erano Auschwitz e Buchenwald - anni 1944 e 1945.