Corriere della sera - magazine
Norimberga - I gerarchi sul lettino dello strizzacervelli
Goering
detestava Ricasso e aveva una vita sessuale “eccellente”. Hoess rivendicava
la sua fama di duro. Sauckel parlava ammirato della moglie. Un libro uscito in
Usa raccoglie gli appunti dello psichiatra che ascoltò le ultime confidenze dei
capi nazisti. Con molte sorprese.
di
Enrico Mannucci
Lo
psichiatra fa lo psichiatra, nel senso che chiede dell'infanzia, dei rapporti
coi genitori, dei precedenti medici, del sesso, della vita in famiglia e delle
relazioni coi colleghi e i superiori. Il paziente, però, non è un semplice
paziente. Perché sono parecchi, più di una ventina, perché sono imputati di
aver sterminato qualche milione di persone, perché sanno che
probabilissimamente sono arrivati a fine della esperienza terrena: stanno in
cella nel braccio della morte, per quasi tutti il cappio della forca è già
pronto. In sintesi: il loro superiore era Adolf Hitler, sono i gerarchi nazisti
sotto processo a Norimberga, nel 1946. Li assisteva e parlava con loro durante
gli intervalli delle udienze un medico dell'esercito americano, Leon Goldensohn,
nato a New York nel 1911, psichiatra laureato e membro di un distaccamento dei
reparti di sicurezza. Il dottore era scrupoloso, appuntava tutto, pensava che
negli anni a venire ne avrebbe ricavato un libro, invece morì (nel 1961) prima
di riuscirci. I suoi quaderni, però, ora sono stati ordinati e selezionati da
Robert Gellately, professore di storia all'Università della Florida, a comporre
un volume intitolato Le interviste di Norimberga, edito in Usa da Knopf. È la storia di un sotterraneo
- quasi
sempre cortese - braccio
di ferro. «I prigionieri»,
scrive nell'introduzione Gellately, «erano virtualmente tagliati fuori da ogni
contatto umano, fatta eccezione per gli avvocati difensori, e non è
sorprendente che fossero inclini a conversare con gli psichiatri dell'esercito
americano... È
notevole quanto spesso le interviste siano candide, talvolta di una veridicità
sconvolgente». Capita, per esempio, con Rudolf Hoess, comandante a Auschwitz
dal '40 al '43, che in questo primo processo - a Norimberga, in seguito, se ne
terranno altri - figura come testimone. È un
privilegio precario, nel 1946 verrà giudicato da un tribunale polacco e
impiccato nel 1947, proprio nel «suo»campo di sterminio. Hoess parla, in aula
inguaia molti vecchi camerati, con Goldensohn entra nei particolari: «Tagliavamo
i capelli solo alle donne e solo dopo che erano morte... Avevo la supervisione
generale di tutta l'operazione. Spesso, non sempre, ero presente quando usavamo
le camere a gas... Diventi duro quando devi portare a termine ordini del genere,
non puoi avere sentimenti dolci quando si tratta di sparare alle persone o di
ucciderle col gas». Ma lo psichiatra vuole di più. Cerca di scavare nella
psiche, va in caccia di turbe, traumi, disfunzioni. Condivide uno degli assunti
che rendevano problematico - e tuttora argomento di dibattiti anche sul piano
teorico - l'intero
impianto del processo. Ovvero la visione della nomenklatura nazista come una
accolita compatta e coesa di sadici anormali e paranoici. In realtà, tranne
rare eccezioni, era difficile inquadrarli come persone mentalmente malate.
Goldensohn ascolta piatti e sintetici riassunti di vite banali, talvolta segnate
dalle difficoltà economiche nella Germania del primo dopoguerra. Il
plenipotenziario per la manodopera straniera dal '42 al '45, Fritz Sauckel,
tiene in cella la foto dei suoi dieci figli, parla ammirato della moglie che li
ha saputi crescere con le poche risorse a disposizione, poi cade dalle nuvole:
«Non avevo nulla a che fare con i campi di concentramento. Il mio incarico
consisteva nell'assegnare alle fabbriche i prigionieri di guerra e i lavoratori
stranieri. Punizioni e cose simili erano compito di Himmler... Il regime nazista
credeva nella completa libertà di fede... lo non ho mai bruciato sinagoghe...
Quando ci sono molte nazionalità diverse in un Paese, la leadership va
suddivisa in base alle rispettive percentuali. Nella finanza e nella stampa gli
ebrei avevano conquistato un predominio eccessivo. La sensazione preesisteva a
Hitler». Molti prigionieri considerano irrilevante l'interesse professionale di
Goldensohn per le loro origini, le loro situazioni private. Discutono più
volentieri i grandi temi della politica e della guerra. Talvolta quasi ansiosi
di gratificazioni. Alfred Rosenberg, teorico dell'antisemitismo e ministro dal
1941 per i territori occupati, bada soprattutto a confermare un primato
intellettuale: «Mi fa piacere che lei prenda note», dice allo psichiatra. «Ma
ci tengo che le prenda accuratamente e non tradisca la complessità dei miei
pensieri e delle mie teorie». L'eccezionalità delle interviste è qui, nella
sotterranea tensione fra le ipotesi patologiche del dottore e le obiettive
smentite nelle risposte dei soggetti. Sono altrettante manifestazioni della
banalità del male. Il maresciallo dell'aria Hermann Goering, a lungo numero due
del regime, è un interlocutore loquace, almeno finché non vengono toccati
aspetti personali. Non si sbilancia fra i suoi due matrimoni - entrambe le donne erano «grandi» sotto aspetti
diversi e «ciascuna aveva un suo genere di bellezza» - e liquida come «davvero
eccellente» la sua vita sessuale. Invece si dilunga per spiegare a Goldensohn
il suo rapporto col nazismo: «Per aderire, non importava condividere i
venticinque punti della sua piattaforma... Alcuni nazionalsocialisti erano
membri per opinioni politiche, altri per ragioni sociali, altri ancora per
motivi razziali... Questi ultimi erano del tutto irrilevanti e incidentali.
Divennero fondamentali solo perché una fazione di nazisti che erano fanatici
razzisti divenne politicamente potente». Addebita a Himmler l'influenza
sull'ultimo Hitler - «Per me ci sono due Führer: il primo fino alla fine della guerra in
Francia, il secondo che si manifesta con la campagna di Russia» - e
ridimensiona il «nuovo ordine mondiale», il Reich millenario: «Hitler voleva
davvero molto poco. L'Alsazia-Lorena dalla Francia. Le vecchie province tedesche
in Polonia. Mai avuto mire sull'Impero inglese. Se avessimo vinto la guerra con
la Russia avremmo spazzato via il sistema sovietico e istituito un sistema
federale. Al massimo Hitler avrebbe chiesto alcune regioni del Baltico, nulla di
più». Il feldmaresciallo diventa addirittura prolisso sui gusti in campo
artistico: «Picasso mi dà la nausea. L'arte gotica è la mia preferita...
Hitler invece la disprezzava, lui era a favore degli antichi e del romanticismo
classico... Trascurava Dürer, uno dei miei favoriti, gli piacevano Michelangelo
e gli artisti del Rinascimento dove io preferisco gli antichi maestri tedeschi e
i primitivi italiani». Quanto alla musica: «Hitler amava Wagner, Mozart, Verdi
quanto Beethoven. Anch'io... ma lui trascurava gli Oratori di Bach e di Händel
che adoro». Un brav'uomo, insomma, saggio e patrono delle arti, Goering si
vedeva così: «In tutto questo, la cosa strana è che non mi sento come un
criminale: se fossi stato negli Stati Uniti, in Sudamerica o in qualunque altro
posto, probabilmente sarei una personalità eminente sul piano nazionale. Sono
un capitalista e un gentiluomo colto... Per quello che ne sapevo, le atrocità
non esistevano. Sono fondamentalmente alieno da qualunque crudeltà o
comportamento disumano. Nel 1934 ho fatto approvare una legge contro la
vivisezione. Potevo essere a favore della tortura sulle persone se mi ero
opposto agli esperimenti sugli animali?».
Dal Corriere della sera - magazine, 9 dicembre 2004